SOCIETÀ

Madagascar, le proteste della Gen Z fanno fuggire il presidente

I ragazzi ci hanno messo la voce e la faccia, sfilando per settimane lungo le strade della capitale Antananarivo, sfidando il castello di potere e di privilegi che il presidente del Madagascar, Andry Rajoelina, era riuscito a costruirsi nei 16 anni che è stato al potere (conquistato con un colpo di Stato del 2009) e la violenza delle forze dell’ordine, che a più riprese hanno sparato contro i civili (il bilancio finale degli scontri di questi ultimi giorni è di 22 morti, compreso un bimbo di appena un mese, e oltre cento feriti). Poi però ai manifestanti, guidati ovunque dall’ostinazione dei ragazzi della Gen Z Madagascar, si sono uniti anche i militari del reparto d’élite CAPSAT (Corpo per l’Amministrazione del Personale e i Servizi Tecnici e Amministrativi): che si sono platealmente rifiutati di obbedire all’ennesimo ordine di sparare sulla popolazione. Ed è stato in quel passaggio che il presidente Rajoelina, che pure aveva tentato di blandire i dimostranti licenziando l’intero governo e scusandosi perché “alcuni funzionari non si erano rivelati all’altezza del loro mandato”, ha capito che le vie d’uscita alla crisi per lui erano chiuse. Tutte tranne una: la fuga, probabilmente in Francia (ma c’è chi dice a Dubai), a bordo di un aereo militare inviato direttamente dal presidente francese Macron (il Madagascar è stato fino al 1960 una colonia francese). Nel frattempo l’Assemblea Nazionale, che il capo dello Stato voleva sciogliere, ha votato l’impeachment contro Rajoelina con una maggioranza netta (130 voti a favore, ben al di sopra della soglia dei due terzi richiesta dalla Camera composta da 163 membri).

 Martedì scorso il colonnello Michael Randrianirina, 51 anni, capo dell’unità CAPSAT, in un discorso pronunciato di fronte all’ingresso del palazzo presidenziale di Ambotsirohitra, ha annunciato di aver preso il potere con il ruolo di presidente ad interim, incarico attribuito dall’Alta Corte Costituzionale, che ha anche convalidato l’impeachment. «Di fronte alla continua umiliazione della Costituzione, di fronte alla violazione dei diritti umani, allo sperpero dei tesori della nazione e in conformità con le richieste dei giovani manifestanti, sostenuti in tutta l’isola dalla popolazione, annunciamo la sospensione della Costituzione e prendiamo il potere», ha dichiarato il colonnello. «Formeremo un Consiglio composto dall’Esercito, dalla Gendarmeria, dalla Polizia Nazionale e da membri civili. Questo consiglio avrà un massimo di due anni per ricostruire le fondamenta della nazione e, come parte di questo processo di transizione, si terrà un referendum costituzionale». Il leader del CAPSAT ha anche annunciato la sospensione del Senato, della Corte Costituzionale e dell'Alta Corte di Giustizia, mentre l’Assemblea Nazionale (la camera bassa del Parlamento) continuerà a lavorare».

Una delle nazioni più povere del mondo

Tecnicamente è un colpo di Stato, ma la scintilla è stata assai più larga del corpo militare che se n’è fatto interprete. Un malcontento che è nato tra la popolazione dell’isola nell’Oceano Indiano, una delle nazioni più povere del mondo, con 32 milioni di abitanti, inizialmente per la mancanza d’acqua potabile e per le continue interruzioni dell’energia elettrica (solo un terzo della popolazione ha accesso all’elettricità e i blackout superano abitualmente le otto ore al giorno), ma che in breve tempo è diventata più robusta e strutturale, contro la corruzione dilagante, contro le disuguaglianze sempre più profonde e la diffusa povertà (la Banca Mondiale ha appena certificato un tasso di povertà complessivo all’80% nel 2024, con uno stipendio medio mensile di 300mila Ariary, pari a circa 57 euro), arrivando a chiedere un più radicale cambiamento politico, peraltro condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione. Che dopo settimane di violenze e di scontri s’è riunita a festeggiare in piazza 13 maggio, storico ritrovo dei manifestanti ad Antananarivo. Tutti insieme, i giovani della Gen Z al fianco della popolazione civile, che sventolando le bandiere nazionali ha applaudito il passaggio dei mezzi militari del CAPSAT, con le bande musicali che sfilavano al fianco dei blindati: come se fosse una festa nazionale. 

Questo non vuol dire però che l’ennesima crisi del Madagascar, la quinta in 65 anni di indipendenza, sia alle spalle, anzi. Le similitudini con il passato sono evidenti: le crisi, la fame, la corruzione, le disuguaglianze feroci, la smania di potere, le violenze, i soprusi. Come se l’isola fosse intrappolata dalla conquista della sua indipendenza in un tragico loop (parlando di dettagli: anche nel 2009 l’allora presidente Marc Ravalomanana, estromesso da Rajoelina, fuggì a bordo di un aereo militare francese). Lo storico Arnaud Léonard, esperto del Madagascar, interpellato dalla tv francese France 24, è scettico nella sua analisi: «Ogni regime promette la fine del disordine e finisce per esserne la fonte. Ogni presidente si presenta come il salvatore, e ogni generazione finisce per scendere in strada per cacciarlo. Quello che cambia è la musica: gli slogan di ieri erano stampati sui volantini; oggi circolano sulle reti dei social. Ma la rabbia rimane la stessa». Soprattutto per l’incapacità all’azione mostrata dai governanti: come in occasione della recente crisi sanitaria, con un’impennata di casi di diarrea pediatrica (+ 38% registrato lo scorso giugno). O nell’assenza di risposte alle gravissime carenze nell’assistenza medica, soprattutto nei villaggi più remoti (dove le donne spesso si sostituiscono ai medici, senza preparazione, senza retribuzione, come racconta un recente reportage sulla piattaforma d’informazione More to Her Story).

L’immagine simbolo dell'anime “One Piece”

Ma quanto è avvenuto, e sta tuttora accadendo, in Madagascar è comunque di enorme importanza sotto il profilo sociale, con l’impegno dei più giovani che hanno avuto, in queste ultime settimane, la forza di ribellarsi e il coraggio di sfidare a viso aperto, e del tutto pacificamente, il presidente, il governo, i militari, che invece hanno risposto con una violenza del tutto “fuori scala”. Al punto che l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, si era detto “scioccato” dalla risposta violenta delle forze di sicurezza malgasce. «Sono intervenute con una forza non necessaria, lanciando gas lacrimogeni, picchiando e arrestando i manifestanti. Alcuni agenti hanno anche usato munizioni vere». Eppure i manifestanti hanno resistito: nonostante gli scontri, nonostante le 22 persone uccise (uno era un agente del CAPSAT). E sono in molti a leggerla come una “vittoria” della Gen Z, la prima generazione 100% digitale, che rifiuta le gerarchie tradizionali e i partiti politici e che in diversi angoli del mondo sta guidando le rivolte politiche e sociali: dal Perù alle Filippine, dal Marocco al Kenya. In Bangladesh e in Nepal, oltre che ora in Madagascar, le loro proteste hanno portato al collasso dei governi. Ci sono differenze, com’è ovvio, nelle singole rivendicazioni, ma queste azioni hanno anche evidenti punti di contatto: le rivendicazioni contro le ingiustizie sociali (contro le disuguaglianze, contro la corruzione), e la chiamata a raccolta da parte di gruppi anonimi che utilizzano app di gaming come Discord (200 milioni di utenti attivi nel 2025), oltre all’ormai tradizionale bandiera con il teschio che indossa un cappello di paglia, immagine tratta dal popolarissimo anime giapponese “One Piece”, ormai diventata simbolo di sfida e speranza per i manifestanti della generazione Z, soprattutto in Asia. 

Secondo Phil Robertson, direttore di Asia Human Rights and Labor Advocates, interpellato dall’emittente tedesca Deutsche Welle, ad alimentare la rabbia dei più giovani potrebbero essere anche i post sui social media che ostentano la ricchezza dell’élite, spesso visti come il bottino della corruzione del governo: «L’assoluto fallimento dei governi di tutta la regione asiatica nell’affrontare il divario crescente tra i più ricchi e i più poveri significa che c’è un terreno fertile per le proteste dei giovani che credono di non avere nulla da perdere scendendo in strada», ha sostenuto Robertson. Mentre Shana MacDonald, titolare della cattedra in Comunicazione presso l’Università di Waterloo, in Canada, esperta di social media e media digitali, sostiene che «questa azione dei giovani potrebbe effettivamente essere l’emersione di una nuova cultura della protesta: e penso che diventerà un fenomeno globale».

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