SOCIETÀ

Perù, il cambio di presidente non ferma le proteste della Gen Z

Soldati e poliziotti a pattugliare insieme gli snodi principali della capitale, Lima. Vietati gli assembramenti e le manifestazioni, anche sportive e religiose. Sospeso il diritto costituzionale che prevede “l’inviolabilità del domicilio”. Vietato perfino andare in due in motocicletta, la modalità preferita dai killer delle bande criminali, che da almeno due anni agiscono indisturbati nel regolare i conti del racket delle estorsioni. Sono gli effetti più visibili dello stato d’emergenza decretato dal nuovo presidente del Perù, José Jerí, eletto il 10 ottobre scorso dal Congresso dopo la rimozione per “incapacità morale permanente” della ex presidente Dina Boluarte, accusata di non aver fatto abbastanza per contrastare il dilagare della criminalità organizzata. Nelle dure e partecipate manifestazioni di protesta delle scorse settimane, organizzate soprattutto dai ragazzi più giovani, della Gen Z, risoluti nel chiedere non soltanto la rimozione della Boluarte, ma un complessivo “reset politico”, un cambio di rotta del governo, c’erano stati scontri con le forze dell’ordine, con un bilancio di un manifestante ucciso da un agente di polizia in borghese, con un proiettile sparato al petto (la vittima è il giovane rapper Eduardo Ruiz Sáenz) e centinaia di feriti. Il decreto avrà durata 30 giorni e per ora è limitato a Lima, appunto, e al vicino porto di Callao

«Compatrioti, la criminalità è cresciuta in modo sproporzionato negli ultimi anni, causando un enorme dolore in migliaia di famiglie e danneggiando anche il progresso del paese», aveva sostenuto il presidente Jerí nel suo messaggio televisivo, nel tentativo di placare gli animi. «Ma tutto questo ora è finito. Stiamo passando dalla difesa all’offensiva nella lotta contro il crimine, una lotta che ci permetterà di riconquistare la pace, la tranquillità e la fiducia di milioni di peruviani». Un discorso che non sembra aver fatto breccia nel cuore dei dimostranti. Anzitutto perché non è la prima volta che si applica uno stato d’emergenza (era già accaduto lo scorso marzo, e non aveva portato alcun risultato). E poi perché la nomina di José Jerí, 39 anni tra pochi giorni, presidente uscente del Parlamento monocamerale peruviano, esponente del partito conservatore cristiano-democratico Somos Perú, anche lui toccato da diversi scandali (con accuse di corruzione e di abusi sessuali) non risponde di certo a quel desiderio di “tabula rasa” espresso dai dimostranti, che dovranno quindi aspettare la naturale scadenza del mandato presidenziale, la prossima primavera, aprile 2026, nonostante nel quinquennio si siano già alternati tre capi dello stato. Secondo Rodrigo Barrenechea, professore di Scienze sociali e politiche all’Universidad del Pacífico, «Jerí si ritrova al potere quasi per caso, in una democrazia che assomiglia sempre più a una lotteria». E sono in molti a ritenere che quest’ultimo “stato d’emergenza” sia stato decretato soprattutto per impedire le proteste antigovernative.

La maledizione dei presidenti arrestati

Questa dei presidenti “deposti” dal Parlamento sembra una maledizione per la Repubblica presidenziale del Perù: sette governi in dieci anni (quando ciascun mandato dovrebbe durare 5 anni), quattro ex capi di stato e di governo attualmente in carcere con accuse varie, ma tutti per corruzione. Come se non riuscissero o non volessero sottrarsi a questo cronico “inquinamento istituzionale”, finendo per calpestare inesorabilmente sempre la stessa zona grigia. L’ultima, Dina Boluarte, coinvolta pochi mesi fa anche nello scandalo dei Rolex, a luglio si era raddoppiata d’ufficio lo stipendio, nonostante il suo indice di gradimento fosse precipitato al 2%: una mossa definita “oltraggiosa” da larghi settori dell’opinione pubblica. Il suo predecessore, Pedro Castillo, è tuttora sotto processo anche per “ribellione”, per aver tentato di sciogliere il Parlamento che stava per votare il suo impeachment, il che è equiparabile, secondo i giudici peruviani, a un tentativo di colpo di stato: rischia 34 anni di reclusione. Secondo il costituzionalista Luis Roel la cronica fragilità del presidenzialismo peruviano è dovuta anche al fatto che gli ultimi governi non sono riusciti a costruire solide maggioranze al Congresso, suggerendo quindi d’intervenire direttamente a livello normativo: «Dovremmo trovare un modo per cui chiunque assuma la presidenza abbia maggiori possibilità di avere una maggioranza parlamentare». Anche se la decisione di percorrere questa strada potrebbe andare a compromettere il delicato equilibrio della divisione dei poteri previsto dalla Costituzione.

La ferocia del racket delle estorsioni

Poi però c’è la questione della criminalità organizzata, drammatica, urgentissima, che aspetta da anni una soluzione che oggi nemmeno s’intravede, nonostante l’ottimismo ostentato dal nuovo presidente. Qualche numero per comprendere appieno la portata dell’emergenza: gli omicidi in Perù sono passati dai 676 del 2017 ai 2.082 dello scorso anno. Nei primi 8 mesi del 2025 il conto delle vittime è già salito a 1.513 (67 erano minorenni), il dato più alto degli ultimi anni: parliamo di una media di 190 morti al mese, più di 6 al giorno. Ma la piaga più grave è quella delle estorsioni: bande di criminali che prendono di mira soggetti vulnerabili, pretendendo il pagamento di somme di denaro per ottenere in cambio “protezione”. E non c’è spazio per mediazioni: chi non paga viene fatto fuori. 

Tassisti, autisti di autobus, commercianti, imprenditori: si stima che almeno 4 peruviani su 10 siano vittime di questi criminali (moltissimi non denunciano per timore di ritorsioni). Solo per il reato di estorsione le denunce ufficiali sono passate da 2.396 nel 2023 a oltre 17mila nel 2024, mentre gli ultimi dati ufficiali del 2025, aggiornati al 30 settembre, parlano di 18.385 casi, con un aumento che sfiora il 30% rispetto all’anno passato (con una media di 67 denunce al giorno). Alla fine di settembre venti associazioni imprenditoriali di categoria (dai ristoranti ai saloni di bellezza, fino alle aziende commerciali di import-export) hanno firmato un comunicato congiunto per denunciare la loro situazione: «Viviamo sotto assedio, la criminalità organizzata ha ormai preso il controllo del paese nell’allarmante assenza dello stato. Nessuna delle nostre attività, indipendentemente dalle dimensioni o dal settore, è al sicuro dall’estorsione. Il Perù sta perdendo la battaglia contro il crimine». E a poco servono gli scioperi: come quello messo in atto all’inizio di ottobre dagli autisti degli autobus di linea, esasperati per la violenza e per le quotidiane intimidazioni. Nel suo ultimo rapporto, settembre 2025, l’Observatorio del Crimen y la Violencia ha calcolato che, nel corso di quest’anno, 180 autisti del trasporto urbano sono stati assassinati per non aver pagato le quote pretese dalle bande criminali. E non si salvano nemmeno gli artisti, i musicisti che si guadagnano da vivere suonando nei locali notturni e nei bar: poche settimane fa quattro componenti della band di cumbia Agua Marina sono stati feriti a colpi d’arma da fuoco mentre si esibivano sul palco del Circolo Sottufficiali dell’Esercito Peruviano, a Lima.

Le connivenze tra criminali e polizia

Tutto questo non è soltanto grave per quel che riguarda l’ordine pubblico, ma ha un impatto sociale ed economico di assoluto rilievo. «L’estorsione in Perù non solo minaccia vite umane, ma soffoca l’economia», rileva il quotidiano online Digital Plural. «Le imprese chiudono i battenti a causa dell’impossibilità di sostenere pagamenti illeciti, il che aumenta la disoccupazione e aggrava la povertà in un paese già colpito da disuguaglianze storiche. Il crimine organizzato dietro le estorsioni in Perù è una rete sofisticata che sfrutta le debolezze istituzionali. Secondo rapporti interni, queste bande reclutano giovani scontenti nelle baraccopoli, offrendo loro promesse di facili guadagni. La corruzione ad alcuni livelli di polizia aggrava il panorama, consentendo agli estorsori di operare con relativa impunità. Lo stato di emergenza cerca di invertire questa tendenza attraverso massicci dispiegamenti di forze di sicurezza, ma i critici avvertono che senza riforme strutturali, come maggiori investimenti nell’intelligence e nella prevenzione, l’estorsione in Perù potrebbe riemergere con più forza una volta che la restrizione sarà revocata». Lo scorso febbraio è circolata una foto che ritrae alcuni membri della banda “Los pulpos” fotografati mentre condividevano una sauna con agenti della Polizia Nazionale Peruviana. Un episodio tutt’altro che isolato: secondo i dati diffusi della Procura peruviana, nel 2024 sono stati 179 gli agenti di polizia condannati per atti di corruzione a livello nazionale.

Dunque una strada in ripida salita per il presidente Jerí, chiamato ad affrontare sfide probabilmente più grandi di lui, con un malcontento popolare in robusta crescita (i manifestanti della Gen Z hanno annunciato una nuova marcia di protestaper chiedere le dimissioni del presidente, nonostante lo stato d’emergenza) e un’economia che ancora sostanzialmente resiste, ma che non potrà sopportare ancora a lungo l’attuale stato d’incertezza politica. Come scrive il gruppo finanziario BBVA in un rapporto dedicato al Perù e pubblicato pochi giorni fa: «Nel medio termine l’instabilità politica permanente aumenta l'incertezza e, pertanto, ha un impatto negativo sugli investimenti, sui consumi, sulle condizioni di credito e sulla crescita. Il Perù ha bisogno di riforme istituzionali che generino un sistema politico stabile e prevedibile che garantisca la governabilità». Lo sguardo resta alle prossime elezioni presidenziali (si voterà il 12 aprile 2026, l’eventuale e assai probabile ballottaggio a giugno) e parlamentari, anche se il quadro politico generale resta pericolosamente frammentato. Basti pensare che tra le decine di candidati presidente, con 43 partiti politici ammessi a correre, il più accreditato dai sondaggi è al momento Rafael López Aliaga (Renovación Popular, partito conservatore di destra), con appena il 10% delle intenzioni di voto, seguito da Keiko Fujimori (leader dell’estrema destra di Fuerza Popular e figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori) con l’8%. Un sondaggio del mese scorso rivela invece il clamoroso livello di disaffezione raggiunto dai votanti: il 61% degli oltre 27 milioni di elettori elettorato ha un “livello medio di disaffezione” (se voterà, esprimerà malvolentieri una preferenza), con l’84% degli intervistati che dichiara di “non fidarsi dei candidati”. E quando la fiducia crolla a questi livelli, aumentano i rischi per la tenuta del sistema democratico.

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