Il Cile archivia la presidenza Boric: gli elettori ora guardano verso destra
Alla vigilia del primo turno delle presidenziali (si vota domenica 16 novembre ndr), la tavola della politica cilena sembra ormai apparecchiata per un radicale cambio di rotta: con la sinistra del presidente uscente Gabriel Boric che con ogni probabilità dovrà accomodarsi tra i banchi dell’opposizione e far largo alla destra, forse anche quella più estrema e populista, rappresentata ancora una volta dal leader del Partido Republicano, José Antonio Kast, che arriva quest’anno alla terza candidatura. Boric, che in base alla Costituzione ancora vigente non può ricandidarsi per un secondo mandato consecutivo (ma potrebbe ripresentarsi in futuro, come ha stabilito nel 2023 il Consiglio Costituzionale ndr), paga in parte l’inesperienza che gli ha impedito, soprattutto nei primi anni del suo mandato, di trasformare in realtà le promesse fatte e di consolidare così la sua base di consenso: ma è pur vero che è stato costretto a rincorrere continuamente mediazioni e compromessi, poiché il Congresso era nettamente dominato dai partiti conservatori.
La prossima candidata della coalizione di centro-sinistra Unidad por Chile sarà Jeannette Jara, ex ministra del Lavoro sotto la presidenza Boric, esponente del Partido Comunista de Chile (PCCh), che stando agli ultimi sondaggi potrebbe ottenere, al primo turno, il maggior numero di voti, attorno al 30% delle preferenze. Ma se nessun candidato, com’è verosimile, riuscirà a superare la soglia del 50%, sarà necessario ricorrere al ballottaggio (previsto per domenica 14 dicembre) tra i due più votati: e lì il gioco delle alleanze dovrebbe favorire, anche con un discreto margine di vantaggio per quel che oggi è ipotizzabile, gli schieramenti di destra. Che stanno cavalcando temi sempre più sentiti dalla maggioranza degli elettori cileni: come l’aumento della criminalità, l’ordine pubblico, l’argine alle migrazioni. «Mentre nel 2019 la sinistra era stata capace d’interpretare le istanze delle mobilitazioni sociali, oggi assistiamo al fenomeno contrario: un rafforzamento del conservatorismo», spiega Miguel Ángel López, Direttore dell’Unità Accademica di Relazioni Internazionali della Universidad de Chile.
Il problema, per la sinistra, è che alcune di quelle istanze sociali che nel 2019 misero il turbo alla scalata di Gabriel Boric verso il Palacio de la Moneda (con i tumulti scoppiati in tutto il Paese contro il governo dell’allora presidente Sebastián Piñera, innescati dalla decisione di aumentare il prezzo della metropolitana, ma che avevano come focus l’aumento del costo della vita, la disoccupazione, le insopportabili disuguaglianze sociali) sono state in qualche modo deluse, o comunque superate da altre emergenze. Boric, che aveva 36 anni al momento del suo insediamento, a marzo 2022, il più giovane capo di Stato del mondo, non è riuscito a realizzare appieno le trasformazioni promesse, anche perché il Congresso ha spesso remato contro i suoi programmi. A partire dalla scrittura di una nuova Costituzione che superasse quella redatta nel 1980 dalla giunta militare dell’epoca, firmata dal dittatore Augusto Pinochet, che è tuttora in vigore. Negli ultimi anni sono state due le proposte di riforma costituzionale bocciate dalla maggioranza dei cileni. La prima, quella su cui è inciampato Boric, prevedeva il riconoscimento dei popoli indigeni e la restituzione delle loro terre d’origine, l’abolizione della disparità salariale, il diritto all’aborto, il riconoscimento del “diritto universale all’acqua”, il riconoscimento del diritto della natura a essere “protetta e rispettata”: istante in gran parte condivisibili, ma che prevedevano nella “struttura di controllo” un ruolo talmente centrale dello Stato da aver fatto temere, ai più critici, un ritorno della dittatura. E non è andata meglio ai parlamentari di estrema destra del Partido Republicano, che erano maggioranza in Parlamento e che, sulla scia di quel fallimento, avevano proposto un testo tutto sbilanciato verso le istanze tipiche della destra: espulsione per gli immigrati illegali, difesa della vita del nascituro, rielezione a tempo indeterminato delle autorità locali, oltre al dovere per i cileni di “onorare la patria e i suoi simboli nazionali”. Niente da fare: anche in quel caso, al referendum, la maggioranza dei cileni aveva detto no.
I successi e gli insuccessi
Una polarizzazione che ben riassume oggi l’insoddisfazione degli elettori cileni per gli opposti estremismi. Anche se sarebbe ingeneroso e fondamentalmente sbagliato liquidare la presidenza di Gabriel Boric come un fallimento: l’ex leader studentesco può vantare di aver realizzato una storica riforma delle pensioni, di aver ridotto la settimana lavorativa da 45 a 40 ore (con attuazione progressiva fino ad aprile 2028) senza che questa misura comporti riduzioni del salario, di aver rimesso al centro della sua agenda politica la difesa dei diritti umani. Boric è stato anche il presidente che per primo ha trattato il cambiamento climatico non come una preoccupazione marginale, ma al pari di un’urgenza che doveva attraversare tutte le decisioni dello Stato (ed è riuscito a varare una legge quadro in tal senso). Poi, è vero: non è riuscito a realizzare la promessa riforma fiscale, che avrebbe dovuto finanziare le principali riforme sociali. Come è rimasto nel cassetto dei progetti la legge sull’Economia Circolare e la Gestione dei Rifiuti, che avrebbe dovuto ampliare le responsabilità dei produttori, e che è stata ampiamente ostacolata dal Parlamento, in larga parte contrario alla “visione” del Cile professata da Boric. Pochi i successi anche sul fronte della lotta contro la criminalità organizzata, che continua a dilagare nel Paese (anche se il tasso degli omicidi continua a calare), anche in seguito alle infiltrazioni di potenti organizzazioni criminali come il feroce Tren de Aragua, nato in Venezuela, con diramazioni in Colombia, Ecuador, Perù, perfino in Spagna, specializzato in traffico di stupefacenti ed estorsioni. In un recente sondaggio condotto in Cile, anche nelle zone rurali, oltre il 60% degli intervistati ha dichiarato che la paura della criminalità è ciò che più condiziona la loro vita quotidiana. L’anno scorso Boric aveva anche varato una legge per limitare, e in parte controllare, i “narco-funerali”, eventi organizzati per esaltare la figura dei “martiri” delle gang, che regolarmente finivano con disordini pubblici, esibizioni di violenza, generando paura e insicurezza nei vari quartieri. “Spettacoli intimidatori” li aveva definiti il governo uscente, che aveva posto limiti precisi al loro svolgimento. Al presidente vengono inoltre imputati i ritardi nella ricostruzione promessa delle abitazioni distrutte nei terribili incendi di Viña del Mar del 2024 (137 morti, 14mila case devastate).
Alla ricerca di “novità”
Il presidente Boric, che lascerà l’incarico il prossimo marzo, oggi può contare su un 30% di approvazione tra gli elettori. «È un dato abbastanza relativo», spiega Claudia Heiss, professoressa presso la Facoltà di Governo della Universidad de Chile e ricercatrice presso il Center for Social Conflict and Cohesion Studies (COES). «Negli ultimi anni quasi tutti i governi in Cile sono finiti con una crescente disapprovazione, a testimoniare un logoramento sempre più rapido nell’esercizio del potere. Ma non vedo un’erosione dell’immagine di Boric: penso che abbia più o meno mantenuto il suo sostegno. Il suo governo non è partito con una popolarità gigantesca, ha ottenuto il voto di persone che non erano molto convinte, ma che volevano impedire la vittoria dell’estrema destra. Ha anche ottenuto un voto anti-politico, anti-partito, anti-élite perché era qualcosa di nuovo. È semmai in questo senso che un’erosione di consenso è possibile: nel fatto di non essere più percepito come un elemento di novità». E non è un caso che l’attuale candidata del centro-sinistra, Jeannette Jara, stia tentando di rimarcare la sua distanza da Boric: proprio per proporsi come “novità” nel panorama politico e per catturare così il voto dei delusi, e non farsi trascinare in basso da coloro che disapprovano l’operato dell’attuale presidente. «Siamo persone diverse, veniamo da tradizioni politiche diverse», ha ribadito Jara nell’ultimo dibattito prima del voto di domenica.
La destra, che concentra invece la sua narrazione sui temi dell'insicurezza, della migrazione e dell’ordine pubblico, schiera due candidati forti. José Antonio Kast, del Partido Republicano (estrema destra), appassionato sostenitore dell’ex dittatore Pinochet, già sconfitto nel 2021 al ballottaggio dallo stesso Boric, e che ha già promesso, in caso di vittoria, un taglio di 6 miliardi di dollari alla spesa pubblica (che metterebbero a rischio la continuità dei programmi sociali essenziali); ed Evelyn Matthei, ex ministra nel primo governo di Sebastián Piñera, oggi candidata di Chile Vamos, la coalizione che riunisce i partiti della destra tradizionale. Ma la sorpresa potrebbe arrivare dal libertario di estrema destra Johannes Kaiser, del Partido Nacional Libertario, che sembra il clone del presidente argentino Javier Milei (anche se lui rifiuta il paragone): contro la criminalità, l'immigrazione incontrollata e la stagnazione economica, propone la chiusura delle frontiere, il taglio dei ministeri del governo e il ritiro del Cile dagli accordi globali sul clima e sui diritti umani. Il primo turno sarà dunque una sorta di “primarie” per la destra: stabilirà quale sarà il candidato che potrà correre, con ottime probabilità di successo visto il gioco delle alleanze, contro Jannette Jara. Da ricordare infine che il voto, in Cile, è tornato ad essere obbligatorio: una decisione presa dopo che, tra il 2013 e il 2021, l’affluenza alle urne era scesa drasticamente (49% di votanti alle presidenziali del 2017). La norma era stata reintrodotta dal Congresso cileno nel dicembre 2022, proprio per mettere un argine all’astensione, come antidoto all’esaurimento elettorale, nella convinzione che il voto volontario non rafforzi la democrazia, ma la indebolisca (e chissà se altri Paesi possano prendere spunto da questa iniziativa per un’analisi seria sullo stato di salute delle democrazie). Non votare implica una sanzione fino all’equivalente di 100 dollari. Il tema del voto obbligatorio, peraltro, è stato recentemente affrontato in una pubblicazione dall’Institute of Development Studies (IDS), l’organizzazione di ricerca affiliata all’Università del Sussex a Brighton, in Inghilterra: anche in Europa, prima o poi, l’argomento diventerà di attualità.