SOCIETÀ

Un conflitto, due pesi: il linguaggio che sbilancia la narrazione su Gaza

Come fare cose con le parole è il titolo di un libro postumo del filosofo americano John Austin che raccoglie una serie di lezioni tenute all’università di Harvard (USA) nel 1955. Fin dal titolo, il libro sottolinea un aspetto centrale del pensiero di Austin: dire le cose non significa solo trasmettere informazioni, ma anche fare delle cose. Per esempio, tranquillizzare chi ascolta, indurre spavento, convincere e così via. E questo avviene anche per la precisa scelta delle parole che usiamo per dire le cose.

Nella copertura giornalistica di un evento, per esempio, è determinante il concetto di framing dell’informazione, cioè il processo di presentazione di un’informazione in modo da influenzare la percezione e l’interpretazione di chi la riceve, “incorniciandola” in una specifica prospettiva. Nel caso della copertura del conflitto nella Striscia di Gaza, si può parlare di “una distorsione sistemica della narrazione del genocidio di Gaza che favorisce la prospettiva israeliana mentre marginalizza le prospettive palestinesi”. È la conclusione a cui arriva Framing Gaza, un report dell’organizzazione Media Bias Meter che ha analizzato quantitativamente la copertura mediatica del conflitto su otto quotidiani occidentali.

Nei titoli degli oltre 54mila articoli sul conflitto che sono apparsi su questi otto quotidiani tra il 7 ottobre del 2023 e la fine di agosto 2025, per esempio, oltre 10mila contenevano la parola “Israele”, mentre solo “596” la parola “Palestina”.

Sul New York Times, Israele viene menzionato 186 volte per ogni singolo riferimento alla Palestina. Il Globe and Mail in Canada segue a ruota, con un rapporto di 66 a 1. Tra le altre testate, Israele compare da 11 a 26 volte più spesso rispetto alla Palestina. L’eccezione sembra essere il Corriere della Sera, dove questo rapporto scende a 1 a 3. Ma, si legge nel report, “anche quei pochi riferimenti alla Palestina sono spesso indiretti”. Infatti, “dopo aver esaminato manualmente i titoli, abbiamo scoperto che metà dei riferimenti alla Palestina non riguardavano la Palestina, ma piuttosto le proteste pro-Palestina nei Paesi occidentali.

Il conflitto e l’informazione

Media Bias Meter è un collettivo internazionale di attivisti e attiviste che hanno deciso di mettere a disposizione volontariamente una parte delle proprie competenze professionali, come quelle di data scientist e di giornalista, per analizzare come la copertura mediatica del conflitto in Palestina sia rappresentato su otto quotidiani: New York Times (USA), Globe and Mail (Canada), La Libre Belgique (Belgio), Der Spiegel (Germania), De Telegraaf (Paesi Bassi), BBC (Regno Unito), Le Monde (Francia) e Corriere della Sera (Italia). I quotidiani sono stati scelti non solo in base alle diverse aree geografiche, ma anche dell’orientamento politico di fondo. 

La metodologia, disponibile sul sito dell’organizzazione, è frutto del lavoro collaborativo del collettivo, ma è anche stata rivista e corretta da Gretchen King, docente di Comunicazione e Giornalismo multimediale alla Lebanese American University di Beirut. A sostenere tecnologicamente la realizzazione del rapporto è il gruppo Tech for Palestine, una comunità globale di informatici e professioniste in diversi settori fondata da Paul Biggar per sostenere la Palestina. In particolare, fornendo elementi che permettano una corretta e più bilanciata rappresentazione del conflitto.

Il confronto tra la frequenza di “Israele” e “Palestina” non si ferma ai titoli, ma è stato allargato anche al corpo degli articoli, continuando a mostrare un diverso peso delle due parole.

 

Nel complesso delle testate si registrano 1,33 riferimenti a “israeliano/israeliani” per ogni riferimento a “palestinese/palestinesi”, restituendo un’impressione di maggiore equilibrio. Ma, si legge nel documento, “il contesto è importante” il framing  di cui parlavamo in apertura “in una guerra in cui i palestinesi sono in stragrande maggioranza quelli che affrontano sfollamenti, assedi e vittime civili di massa, la parità di formulazione non equivale a parità di narrazione”.

Spie dello sbilanciamento

Tutte e otto le testate, nel corso di questi quasi due anni analizzati, si sono occupate degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi. Per tutte, solo in una minoranza di casi si utilizza anche l’aggettivo “illegali”: con percentuali che vanno dal 91% al 98%, le testate hanno scelto di omettere l’aggettivo e parlare semplicemente di “insediamenti”: una “sistematica sanificazione delle violazioni del diritto internazionale” da parte di Israele, secondo quanto si può leggere in Framing Gaza.

Un risultato simile si ottiene se si confronta quante volte, nel corso di questi due anni, le testate hanno menzionato il 7 ottobre e quante volte, nella loro narrazione, hanno fatto riferimento al blocco che Israele ha imposto su Gaza fin dal 2007, ovvero 16 anni prima dell’attacco di Hamas del 2023. Il Corriere della Sera, per esempio, ha citato il “7 ottobre” 215 volte per ogni riferimento al blocco del 2007.

Scrivono autori e autrici che “il 7 ottobre viene citato di routine per giustificare le azioni israeliane, mentre il blocco e il suo impatto sulla vita quotidiana dei palestinesi vengono omessi”. Il risultato è che l’attacco del 7 ottobre viene incorniciato in modo da sembrare arrivare dal nulla, mentre - sottolinea Media Bias Meter - il conflitto tra le parti prosegue da decenni.

Lo conferma la frequenza con cui è citata la Nakba, cioè la parola araba che significa “disastro”, “catastrofe”, o “cataclisma” e viene usata dal popolo gazawi per indicare l’esodo palestinese del 1948 al termine del mandato britannico su quei territori.

Alcune testate come il New York Times, la BBC, il Corriere della Sera, Le Monde e il Globe and Mail riconoscono lo sfollamento dei palestinesi, ma il linguaggio usato è “neutro o eufemistico”. Quei momenti vengono descritti come “fuga” o una “partenza” e non come una “campagna sistematica di espulsione di massa”.

Una rappresentazione trasversale

Uno dei risultati più impressionanti della ricerca, e che emerge anche dalla selezione di elementi che presentiamo qui, mostra chiaramente che l’orientamento politico delle testate è ininfluente nella diffusione di bias nella copertura del conflitto in atto a Gaza. Anzi, si legge nelle conclusioni, “diversi giornali di centrodestra hanno mostrato maggiore moderazione rispetto alle loro controparti centriste o di centro-sinistra”.

Una spiegazione plausibile è che le “pubblicazioni di destra diano per scontato che il loro pubblico di riferimento abbia già opinioni consolidate sul conflitto”. Al contrario, le testate centriste e progressiste “potrebbero esercitare un maggiore sforzo editoriale per difendere l’immagine di Israele sotto la maschera della neutralità”.

Indipendentemente dall’orientamento delle testate, il loro ruolo di formazione dell’opinione pubblica e nel dibattito rimane fondamentale. E se è distorto, non può che portare a un dibattito altrettanto distorto. Non solo per lettori e lettrici che formano su quegli articoli la propria idea del conflitto, ma anche per il mondo della politica, che deve prendere decisioni su come allineare un paese rispetto a quello che sta succedendo.

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