SOCIETÀ

Il piano di pace visto dai vicini di Israele

In un contesto regionale sempre più frammentato, il cosiddetto “piano di pace” tra Israele e Palestina, fragilissimo come leggiamo anche in queste ore, viene osservato con cautela e interessi divergenti dai Paesi confinanti e dal mondo arabo. Come lo raccontano i media dei paesi della regione? Nel corso del Festival Conversazioni con il futuro, che si è tenuto a Lecce nel fine settimana, ne abbiamo parlato con la giornalista e analista Laura Silvia Battaglia, che da anni segue l’area mediorientale, conduttrice di Radio3 Mondo e autrice di diversi saggi e documentari che hanno al centro il mondo arabo. 

Israele e Palestina: due narrative speculari

In linea di massima, sui media israeliani, leggiamo posizioni molto allineate al governo o addirittura rappresentative dell'esercito, ma troviamo anche posizioni critiche, anche se spesso di una critica blanda. 

“In Israele -, spiega Battaglia, -il tema centrale è stato finora quello della restituzione degli ostaggi. Una volta avvenuta la restituzione, abbiamo visto una spaccatura sostanziale. Una parte della stampa continua a rinnovare la memoria di che cosa ha significato questa seconda shoah, quella del 7 di ottobre, lavorando anche su tutte queste narrative molto umanizzanti dei sopravvissuti. C’è invece una parte politica che tende moltissimo a dare voce a chi vuole trovare nel mancato rispetto della restituzione dei corpi, degli ostaggi morti, da parte di Hamas, lo strumento per giustificare nuovamente e dunque continuare la guerra nella Striscia. Questa è ovviamente la posizione mantenuta da tempo da Ben-Gvir e Smotrich, i due ministri più estremisti del governo Netanyahu, una posizione sconsigliata perfino da parte dell’esercito ma comunque ritenuta da questa parte politica l’obiettivo di Israele.”

Vanno dunque lette in questo contesto, prosegue nel ragionamento Laura Silvia Battaglia, le notizie che danno conto che l’Iran si sta riarmando sul nucleare o che Hamas sta preparando un nuovo attacco, come annunciato dall’amministrazione americana stamattina con un comunicato del 18 ottobre. Similmente, a sostegno di questa posizione, c’è la diffusione dei video e l’enfatizzazione delle esecuzioni di gazawi da parte di Hamas nella Striscia in questi giorni. 

“Apro una parentesi - continua Laura Silvia Battaglia - Nella Striscia, da quando c’è il controllo di Hamas vige la legge della Sharia. E dunque se una persona ruba o uccide, viene punita con l’esecuzione. Ma oltre alle questioni di amministrazione della giustizia secondo queste norme, va anche ricordato che dal 7 ottobre, Israele ha armato delle tribù beduine, soprattutto nella zona di Rafah e al confine con il valico di terra di Kerem Shalom, fornendo loro armi e denaro, per contrastare la leadership di Hamas. Questi diventano dunque di nuovo strumenti di Israele per spingere una leadership differente, ma di nuovo generando violenza nella Striscia.”

È interessante però leggere anche i punti di vista della stampa palestinese. E qui Laura Silvia Battaglia ci porta in Cisgiordania. Perché, al di là della cronaca della distruzione di Gaza, l’attenzione della stampa palestinese è su quello che accade attorno ai villaggi di Masafer Yatta (che abbiamo potuto conoscere anche grazie al film premio Oscar per il miglior documentario No other land), con le estromissioni, le espropriazioni e la distruzione degli uliveti e dei vigneti, e via dicendo. 

“Questo è il tema centrale nella stampa palestinese sulla cronaca - prosegue Laura Silvia Battaglia, - Mentre per quanto riguarda la politica prevale la narrazione della restituzione dei corpi dei prigionieri palestinesi morti. Le famiglie di Gaza hanno dovuto cercare di identificare i loro cari da cadaveri ridotti in una modalità indicibile, con evidentissimi segni di torture. L’accountability è dunque sul piatto dell'obitorio, mi bien da dire, e questo è un tema molto presente, come anche la circolazione di video estremamente crudi diffusi per alimentare l'odio nei confronti di Israele”. 

Dal punto di vista politico, Battaglia evidenzia che il tema centrale è la governance della Striscia, su chi la possa gestire. L'autorità nazionale palestinese? E chi, nello specifico, se non ci sarà Marwan Barghouti? Si cerca di capire se Hamas, l’Autorità nazionale palestinese e la Jihad islamica possano trovare un accordo. A livello regionale, c’è poi la preoccupazione che Hamas stia predicando la smilitarizzazione senza operarla davvero. Una preoccupazione che pare quasi certezza da parte dell’amministrazione americana che nella mancata smilitarizzazione potrebbe trovare uno strumento per un ulteriore attacco”. 

Egitto: il valico come leva di potere

Nei giorni scorsi si è discusso molto delle diverse posizioni dei paesi firmatari dell’accordo di Sharm el-Sheikh. La loro firma sul documento è una dichiarazione di intenti che esprime una critica profonda e incompatibilità con l'attuale establishment israeliano e quindi con il governo di destra di Netanyahu, ma apre a una disponibilità a trattare con Israele nel caso in cui prevalga un'altra linea e ci sia dunque un cambio di direzione.

“Per quanto riguarda l'Egitto - spiega Battaglia, - la questione riguarda il business sulla riapertura del valico di Rafah e la gestione dell’aspetto logistico della striscia, e dunque l’ingresso degli aiuti umanitari. Ma anche la riorganizzazione della governance, al di là di chi poi concretamente prenderà il controllo militare o la presenza o meno di una forza di interposizione.” La questione dell'Egitto è interessante, secondo Battaglia, anche perché  avviene in concomitanza con nuovi movimenti che il presidente Al-Sīsī sta facendo per riallacciare rapporti positivi con il il governo centrale del Sudan che ha in questi mesi ripreso Khartoum, sostenendolo nella questione e nella gestione dell’utilizzo energetico dell'acqua del del Nilo. Una posizione che è dunque critica nei confronti dell'Etiopia, la quale, al contrario, ha buone relazioni con Israele. Quindi, anche in questo caso, sottolinea Battaglia, la questione degli accordi di Sharm el-Sheikh va letta nella prospettiva regionale, capendo come si muove l’Egitto anche nel contesto dei rapporti multilaterali con paesi che a loro volta hanno una relazione con Israele. 

Giordania: ancora un volta potenziale meta di palestinesi sfollati

In questi giorni sui media giordani sono usciti diversi editoriali che discutevano la firma dell’accordo da parte del re di Giordania, evidenzia Battaglia. Il concetto è sostanzialmente lo stesso, e cioè che la Giordania non può fare a meno di Israele per la propria sopravvivenza, ma che auspica un cambio di governo, e dunque la sua mano tesa all’accordo proposto dagli Stati Uniti è in funzione proprio di questo cambiamento. “La questione della Giordania, come si può immaginare, è legata alla popolazione palestinese presente sul suo territorio nazionale. - Continua Laura Silvia Battaglia, -  Soprattutto, all'ipotesi che una crisi regionale su enorme scala che implichi una nuova Nakba per i palestinesi della Striscia potrebbe tradursi, naturalmente, in un nuovo sfollamente proprio verso la Giordania”. 

C'è infatti un caso curioso, ci racconta ancora Battaglia. Nel 2023, secondo anche quanto riportato dal sito del giornale The Jordan Times a fine dicembre di quell’anno, nella zona di Azraq è stato costruito un rifugio con diversi compound, centri servizi, scuole e addirittura luoghi di culto. Ufficialmente, si tratterebbe di un’area costruita dal Centro nazionale per la sicurezza e la gestione delle crisi (NCSCM) per testare le capacità nazionali nell’affrontare possibili rischi derivanti da crisi naturali e disastri come i terremoti disastrosi che appunto due anni fa si sono verificati in Turchia e Marocco. Però, ci spiega Battaglia, sono in molti a individuare in questa manovra una sorta di mossa per essere preparati ad accogliere, eventualmente, i gazawi. 

Iraq: il paese che potrebbe giocare un ruolo chiave nella regione

“L’Iraq è il Paese da tenere d’occhio nei prossimi mesi -, afferma Battaglia. - Sta andando alle elezioni e, per la prima volta dal 2006, si è verificato l’assassinio di un preminente candidato sunnita di rilievo. Nel paese c’è un testa a testa molto forte tra i sostenitori dell'attuale premier e della linea che prevede la smilitarizzazione delle milizie sciite, in favore di un governo che guardi di più all’assetto regionale proposto dall'Arabia Saudita e invece coloro che, al contrario, ritengono che gli Stati Uniti debbano completamente uscire dal paese e che dunque l’Iraq debba tornare sotto l’influenza iraniana. Sono convinta che dobbiamo tenere gli occhi molto puntati sull’Iraq nei prossimi mesi, perché giocherà un ruolo estremamente cruciale nei rapporti tra Stati Uniti e Iran.”

Libano: l’equilibrio fragile e il ruolo di Hezbollah

Il Libano è un altro paese molto interessante da ‘leggere’. È chiaramente già entrato nella sfera statunitense, e dunque filo-israeliana, anche grazie ai rimpasti di governo. «La questione chiave è la smilitarizzazione di Hamas, ma il tema è delicatissimo-, continua Battaglia. -I campi profughi palestinesi ai tempi dell’OLP sono stati base della resistenza palestinese e proprio la smilitarizzazione richiesta all’epoca è stata anche la miccia che fece scoppiare la guerra civile, è importante ricordarlo.” Quindi la richiesta di smilitarizzazione attuale, spinta da Stati Uniti e Israele, potrebbe portare nuovamente a disequilibri di quel tipo. 

C’è poi il tema di Hezbollah, che senza dubbio, sottolinea Battaglia, è stato messo all’angolo militarmente. Però non è così semplice. C’è oggi un nuovo scenario politico che vede una leadership filofrancese e filoamericana, rappresentata da figure come Bulos, ex falangista e ora inviato di Trump, che appartengono a quell'aladella politica libanese storicamente alleata di Israele, più o meno laica, che vuole liberarsi di Hezbollah. Ma nel frattempo, Hezbollah è tutt’altro che ininfluente. “Una settimana fa, nella Cittadella dello sport di Beirut, - racconta Battaglia, - Hezbollah ha radunato 60 mila giovani del movimento Mahdi Scouts per celebrare e ricordare la morte di Nasrallah e giurare fedeltà al partito. Il che vuol dire che se si smilitarizza temporaneamente, si arricchisce politicamente e dunque si prepara a un nuovo passaggio”. 

Il ruolo degli altri paesi della regione, tra richieste, scambi e fragili equilibri

La Siria è inevitabilmente sotto scacco di Israele, ma allo stesso tempo è un terreno di manovra per Russia e Turchia. Ma è molto interessante ricordare che tra i paesi che hanno firmato a Sharm el-Sheikh, la Turchia probabilmente chiede, come contropartita, una via preferenziale di controllo sulla Siria. Ma è altrettanto interessante sapere che il presidente Ahmed al-Asharaa è appena stato in Russia a incontrare Putin, proponendogli di mantenere una base sul mare in cambio della consegna di Bashar al-Assad. 

C’è poi la posizione dell’Iran che mantiene una linea molto chiara nei confronti degli Stati Uniti, confermando che non intende smantellare del tutto il programma nucleare perché lo considera questione vitale per la propria sicurezza. Ed è proprio in virtù della sfiducia nei confronti del governo americano che l’Iran ha declinato l’invito a partecipare a Sharm el-Sheikh. Sul medio e lungo periodo, è prevedibile dunque che la sfida tra Iran e Washington prosegua, e dunque non si possa escludere che ci siano nuovi attacchi e bombardamenti americani. Anche a costo di nuovi attacchi o sanzioni. E c’è anche la notizia di un dialogo tra Arabia Saudita e Qatar per firmare un accordo di difesa reciproca in caso di attacchi di Israele. Un accordo di reciproca difesa, d’altro canto, era già stato firmato tra Arabia Saudita e Pakistan dopo l’attacco di Israele in Qatar. 

Yemen: la sfida simbolica agli Stati Uniti

Infine, lo Yemen. “La notizia più sorprendente, - conclude Laura Silvia Battaglia, - è che il governo di Sana’a ha pubblicato un documento in cui dichiara di sanzionare le aziende americane che operano in California e commerciano petrolio sul canale di Suez. Una forma di “ritorsione simbolica” che mostra come anche un Paese devastato dalla guerra voglia riaffermare la propria autonomia politica”.

Attorno alla fragile tregua di Gaza e al piano firmato in Egitto, dunque, c’è un Medio Oriente che si sta muovendo come un mosaico di forze, dove ogni tassello, da Gaza a Baghdad, da Beirut a Sana’a, reagisce agli altri non solo e non certo per una visione comune ma anche per la difesa di una propria posizione nella regione. 

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