SOCIETÀ

Gaza e Cisgiordania: la guerra di Israele uccide anche la terra e l'ambiente

“Gaza aveva le fragole. Le più buone di tutte. Tutti volevano le fragole di Gaza. Ora non c’è più niente. Lo sanno tutti che a Gaza non c’è più niente. A Gaza hanno vietato all’acqua di correre e all’erba di crescere, come ai bambini. I bambini non si ricordano più delle fragole”.

“Hanno ucciso un insegnante a Ebron. Perché difendeva la sua terra. Gli hanno sparato a una gamba, gli hanno impedito di andare in ospedale. Ha fatto infezione e gliel’hanno tagliata. Così come hanno tagliato le vigne. Gli ulivi. Lui è tornato alla sua terra e loro l’hanno minacciato, gli hanno tolto le stampelle e l’hanno buttato per terra”.

F. e N. parlano con lo sguardo al muro. Vivono con le famiglie nella Cisgiordania occupata e hanno paura. Tengono la voce bassa, chiedono che il loro nome non si sappia, che i loro occhi non si vedano. Ma vogliono che le loro storie arrivino lontano. “Ringraziamo le persone che parlano della Palestina, che fanno sapere al mondo cosa succede qui. Così tutti sanno la verità.” dice F. “La verità adesso c’è, è fuori. È una cosa grande, che si sappia cosa succede. Quante vite sono perse. Tutti sanno. Tutti devono sapere”.

Sono in molti ormai a chiamare quello che sta accadendo in Palestina un olocidio: l’annientamento deliberato e sistematico dell’intero tessuto sociale e ambientale di un popolo. Non si sa nemmeno quante siano esattamente le vittime del genocidio di Gaza: il Ministero della salute di Gaza all’inizio di agosto dichiarava 61.000 morti confermati, ma sono innumerevoli gli studi indipendenti che ormai parlano di 90 o 100.000 vittime. Approssimazioni di decine di migliaia, che rendono - forse più dei numeri stessi - l’idea di quanto la tragedia umanitaria palestinese sia diventata incalcolabile, oltre che inenarrabile. Anche la terra brucia, o collassa, sommersa dalle macerie. Secondo un rapporto FAO/UNOSAT dell’agosto 2025, il 98,5% dei terreni coltivabili nella Striscia di Gaza è distrutto, danneggiato, o non accessibile. Resta l’1,5%: 232 ettari di terra agricola per due milioni di persone. Ordigni inesplosi, combattimenti e restrizioni di movimento, oltre ai danni a serre, pozzi e infrastrutture, rendono complesso l’accesso e la messa a frutto anche di quel poco che resta. Più del 70% delle serre e più dell’80% dei pozzi sono inaccessibili o danneggiati.

A Gaza vogliono distruggere la vita in ogni suo aspetto. La mia gente dipende dalla terra. Se non c’è terra non ci siamo noi. Distruggono i raccolti per fare morire di fame le persone F.

La guerra annienta gli ecosistemi e compromette le risorse essenziali — acqua, suolo, biodiversità —, lasciando ferite che dureranno per generazioni. A Gaza, l’offensiva militare iniziata nell’ottobre 2023 ha prodotto nella regione danni ambientali senza precedenti: alberi e campi bruciati, infrastrutture idriche e fognarie distrutte, milioni di tonnellate di macerie contaminate, scarico di liquami in acqua e in terra, inquinamento atmosferico. L’ecocidio è esso stesso strumento di guerra ed è inscindibile dalla crisi umanitaria, ne rappresenta anzi la sua dimensione ambientale e strutturale, compromettendo la sopravvivenza della popolazione e ogni possibilità di ricostruzione.

Decine di milioni di tonnellate di detriti - l’UNEP stima 40 milioni di tonnellate solo nei primi mesi di conflitto - invadono Gaza. Si tratta anche di materiali pericolosi come amianto, metalli pesanti, residui industriali e ordigni inesplosi. La rimozione di queste macerie - se mai potrà essere realizzata - richiederebbe costi elevatissimi e le implicazioni ambientali e di sicurezza sarebbero comunque a lungo termine.

Il collasso delle infrastrutture è pressoché totale: la maggior parte delle centrali elettriche e delle linee di distribuzione sono state interrotte, lasciando vasti territori senza energia; tutti i principali impianti di trattamento delle acque reflue sono danneggiati o non funzionanti, provocando lo scarico incontrollato di liquami in mare e nelle aree urbane. L’acquifero costiero, unica fonte d’acqua dolce per la Striscia, è sovrasfruttato e contaminato da sostanze chimiche e metalli pesanti. L’accesso all’acqua pulita, già problematico prima del conflitto, è ora un’emergenza.

I rapporti delle agenzie sanitarie parlano di decine di migliaia di casi legati a infezioni trasmesse dall’acqua - un’epidemia di epatite A con circa 40.000 casi segnalati da UNRWA è scoppiata nei mesi successivi all’inizio della guerra e c’è stata un’impennata di diarree e altre patologie intestinali. La mancanza di elettricità compromette il funzionamento degli impianti di depurazione e degli ospedali, impedendo l’accesso alle cure.

L’acqua è sempre meno accessibile anche in Cisgiordania

“Il clima è cambiato. Non vediamo le stagioni che avevamo. Non c’è acqua. Israele prende le sorgenti dei palestinesi. Ci vieta di andarci. Ci lasciano acqua ogni tanto per brevi periodi: un giorno, una settimana, a volte un mese, poi basta. Un tempo almeno avevamo le cisterne”, racconta F.  “ma non piove più e quando piove i coloni lanciano grosse pietre e versano cemento nelle cisterne e nei pozzi per chiuderli. Poi tagliano le piante e il deserto avanza. Non c’è uva, non c’è terra, non c’è acqua. La gente abbandona la terra o è costretta a lavorare per gli israeliani perché è l’unico modo per sopravvivere”.

N. ed F. portano avanti progetti di educazione ambientale e agroecologia nella Palestina occupata, nonostante le mille difficoltà. L’obiettivo è promuovere tecniche di produzione resistenti e che necessitino di poca acqua, riavvicinare i giovani alla terra e alla cura della vita. Il loro non è un compito facile, soprattutto in un contesto in cui la violenza è quotidiana e il senso di impotenza dilaga. Tecnica e cultura vanno insieme: “se non impariamo strategie diverse, o ci arrendiamo o iniziamo a distruggere anche noi. I contadini tendono a usare fertilizzanti sempre più aggressivi per cercare di produrre con quel poco che hanno e così la terra si inaridisce e le cose non fanno che peggiorare. Dobbiamo trovare strade diverse, o faremo il loro gioco. Invece noi, noi vogliamo amare la vita. Rispettare la vita”. 


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In Cisgiordania continuano i sequestri di terre, case e bestiame e le violenze verso i contadini e i pastori. I checkpoint - posti di blocco controllati dai coloni israeliani - si moltiplicano, rendendo sempre più difficili gli spostamenti per i palestinesi: “Ci sono checkpoint dappertutto”, spiega N. “Devi attraversare checkpoint per qualsiasi cosa. Bisogna ogni volta chiedere un permesso a loro. Ogni tanto ci danno il permesso, di solito no. Se ce lo danno, è per un giorno, mai di più: che sia per l’ospedale, per visitare i genitori anziani, per andare a lavorare. E se non ti danno il permesso per raggiungere la tua terra, magari torni alcuni giorni dopo e trovi tutto distrutto”.

Noi riempiamo la terra della nostra anima. Senza natura non possiamo vivere F.

“Si comportano come se possedessero tutto” rincara F. “Fanno quello che vogliono senza nessuna punizione. Possono rubare capre, bruciare case, macchine, stalle, colpire donne, anziani, bambini. Possono tagliare gli alberi e forzare le persone a uscire dalle loro case e prendere tutto”.

La cultura degli ulivi, che da millenni caratterizza i territori palestinesi, è presa di mira con particolare violenza. A Gaza, secondo il ministero dell’Agricoltura palestinese, circa il 74-75% degli uliveti sono stati distrutti dall’inizio del conflitto: si tratta di circa 2.290.000 alberi di ulivo abbattuti o bruciati. Anche le infrastrutture correlate, come i frantoi, sono state rese inutilizzabili.

In Cisgiordania, la distruzione degli uliveti secolari è una tecnica coloniale usata anche per abbattere e spezzare la resistenza pacifica palestinese. “È il nostro olio, il nostro legno. Ma dentro c’è la nostra anima e loro lo sanno” spiega F. “Una volta una donna di qui stava lavorando la sua terra quando è entrata nel travaglio. Si è seduta sotto un albero e ha avuto il bambino. Suo marito l’ha aiutata e ha tagliato il cordone ombelicale. Erano felici. Sulla loro terra. Noi riempiamo la terra della nostra anima. Senza natura non possiamo vivere. Quando brucia un albero di migliaia di anni ti senti morire, distruggono te, la tua cultura, i tuoi antenati, il tuo futuro.

“Qui hanno tagliato centinaia di ulivi millenari - cinquecento o forse settecento. Le persone sono uscite e non c’era niente. È stato come perdere dei figli. Gli ulivi erano antichi, sono stati lì per migliaia di anni. In un’ora hanno distrutto tutto. Quando tagliano gli ulivi millenari, ci uccidono dentro”.

“Un ragazzo ha provato a difenderli, l’hanno arrestato. Altri vengono picchiati o gli sparano” racconta N. “anche gli alberi di fico tagliano. Vogliono che non cresca più niente che possa dare frutto. Mentre Gaza brucia. Pensare che la frutta e la verdura di Gaza erano le migliori, le migliori che abbia mai mangiato”.

Nemmeno il mare si salva

Polveri, particolato e sostanze velenose contaminano falde e coste, veicolando amianto e residui pericolosi nelle catene alimentari marine. Le acque costiere del Mediterraneo sono compromesse, anche se nessuno sa fino a che punto - UNEP sottolinea come anche effettuare analisi precise sia al momento impossibile. Chi prova a pescare rischia la vita due volte: a causa delle navi militari israeliane e per il veleno contenuto in pesci e molluschi.

Il termine ‘ecocidio’ è stato adottato da gruppi civili, ONG e parte della comunità scientifica proprio per descrivere la scala e la capillarità del danno ambientale in Palestina: si tratta di distruzione intenzionale dell’ambiente, con danni diffusi e a lungo termine, parte di una strategia volta a colpire i mezzi di sussistenza della popolazione civile. L’impatto ambientale della guerra a Gaza non è un effetto collaterale, è esso stesso causa e conseguenza di fame, malattie e spostamenti forzati. Interrompere questa dinamica richiede azioni immediate per ripristinare i servizi essenziali, indagini scientifiche indipendenti, programmi di bonifica e un piano di ricostruzione che integri criteri di sicurezza ambientale. Parallelamente, il quadro giudiziario e politico — dalle inchieste internazionali alle discussioni sulla definizione di ‘ecocidio’ — dovrà fare i conti con come prevenire, sanzionare e riparare danni ambientali di questa scala. Per questo, nonostante la definizione e la perseguibilità dell’ecocidio siano in evoluzione nel diritto internazionale, sono numerose le organizzazioni che chiedono una duplice condanna per i crimini di guerra commessi in Palestina: per genocidio e per ecocidio.

“Condannare, ricostruire, certo. Ma bisogna prima fermare il massacro”, dice N. “Spero così tanto che finisca. E che finisca con giustizia. Io amo il mio Paese. Non voglio abbandonarlo. Voglio sentirmi al sicuro. Vedere il domani. Vorrei che i miei bambini potessero pensare a cosa faranno da grandi… o anche solo a cosa faranno domani. È il momento per i governi di dire no. No a loro, a Israele e agli Stati Uniti. Devono dire di no: basta. Fermatevi. Alcuni Stati hanno riconosciuto lo Stato di Palestina. Altri no. Perché no? Perché l’Italia no? È vero, è sulla carta. Ma è qualcosa. Io spero che altri seguiranno. E riconosceranno la Palestina. C’è già, c’è sempre stato. Lo Stato di Palestina. Lo sappiamo che gli europei non sono i loro governi. Loro ci provano in Europa…ci stanno provando…”.

“Che provino! Ancora e ancora!” Aggiunge F. “Che cambino le opinioni dei loro governi, che dicano no alla guerra. Fermate la guerra. Ci sono persone lì. Date loro la loro libertà. Io spero che provino ancora. E ancora e ancora”.

“Non vogliamo essere colpiti, feriti. Vogliamo solo la nostra terra. Libertà. Vogliamo la libertà.

Perché amiamo la vita. Amiamo vivere. Vogliamo vivere. Dobbiamo vivere. Libertà. Free free Palestine.”

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