SOCIETÀ

La finanza climatica alla COP30: lavori in corso

“Quando la scienza avverte, l’umanità deve ascoltare” si apre così la Baku to Belem Roadmap to 1.3 T, ossia il documento che funge da ponte tra la COP29, tenutasi l’anno scorso in Azerbaijan, e la COP30 brasiliana che si sta svolgendo alle soglie della foresta amazzonica.

Quella di Baku era stata definita una COP finanziaria. Avrebbe dovuto definire il nuovo obiettivo di finanza climatica e in effetti ha partorito un numero, anzi due: 300 miliardi e 1.300 miliardi di dollari. Il primo indica la cifra che i Paesi industrializzati (una quarantina) sono stati disposti a mettere sul tavolo, a parole, e da far avere entro il 2035 ai Paesi in via di sviluppo, per aiutarli (secondo il principio stabilito dall’articolo 9 dell’accordo di Parigi) a difendersi da un cambiamento climatico che sostanzialmente non hanno contribuito a generare.

Il secondo numero invece è quello che i Paesi in via di sviluppo avevano chiesto. Può sembrare un’esagerazione, ma in realtà è la sintesi di diversi e rapporti e studi scientifici ed è ancora una sottostima delle reali esigenze del Sud globale: una recente stima del IHLEG (Independent High Level Expert Group) sostiene che nel 2035 servirebbero 3.200 miliardi di dollari l’anno, si legge nel testo della Roadmap.

La presidenza azera aveva inserito entrambi i numeri nel testo finale perché non era stata in grado di conciliare le posizioni dei due blocchi negoziali. Si era però anche impegnata a proseguire il lavoro interrotto a Baku con un passaggio del testimone alla presidenza brasiliana che è durato un anno intero ed è culminato nella tabella di marcia Baku to Belem.

Il documento serve a guidare i negoziati in corso alla COP30 e a non far cadere nel dimenticatoio le reali esigenze dei Paesi del Sud globale, dove la lotta alla deforestazione, la crescita economica sostenibile, la ricostruzione dopo le alluvioni, la difesa dalle ondate di calore e dalla siccità sono tutte necessità che non possono essere incontrate senza un cospicuo sostegno finanziario.

Le analisi degli esperti servono quantificare la reale portata della sfida climatica, sempre più sottovalutata negli ultimi tempi, e le COP, specialmente quella definita “della verità”, servono anche testardamente a ricordarci quali sono le vere cifre in campo: “quando la scienza avverte, l’umanità deve ascoltare”.

La Roadmap Baku to Belem

A 10 anni dall’accordo di Parigi, la COP30 deve guardare avanti e pianificare i prossimi 10 anni almeno, “domandandosi se, insieme, le nostre NDCs [Nationally Determined Contributions] e i Piani di Adattamento Nazionali possano dipingere un’immagine luminosa e credibile del futuro” riporta il testo della Roadmap. “Quell’immagine non sarà completa senza l’aspettativa di azioni credibili per arrivare almeno a 1.300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035 per i Paesi in via di sviluppo”.

In questa cifra vanno compresi non solo i fondi per la mitigazione delle emissioni (che storicamente sono quelli che attirano la fetta più larga di finanza climatica), ma anche quelli per le misure di adattamento e di riparazione da perdite e danni (loss & damage) causati dagli eventi estremi. Devono esserci poi le risorse necessarie a mettere in piedi un sistema agricolo sostenibile e di conseguenza le risorse per tutelare le foreste e altri ecosistemi minacciati non solo dal cambiamento climatico ma anche dalle attività umane. Non va infine dimenticata la dimensione sociale di questa transizione, che deve essere giusta (just): una linea di finanziamento va dedicata quindi a contrastare le diseguaglianze che vengono amplificate dal moltiplicatore climatico.

Il raggiungimento dell’obiettivo di 1.300 miliardi in 10 anni è definito dalla stessa Roadmap “una sfida enorme”: si tratta sostanzialmente di decuplicare i flussi di finanza climatica raggiunti finora. Secondo i dati OCSE, solo nel 2022, per la prima volta, è stata superata la soglia di 100 miliardi di dollari, che era il vecchio obiettivo fissato nel 2009 alla COP15 di Copenhagen.

Quasi 8 dollari su 10 sono finanza pubblica, gestita principalmente da banche multilaterali di sviluppo come la Banca Mondiale e altri istituti finanziari per lo sviluppo, mentre poco più di 2 su 10 provengono dal settore privato, ossia banche commerciali e aziende. Questa sproporzione dovrà cambiare, così come un altro sbilanciamento.

Quasi due terzi dei fondi totali sono destinati a misure di mitigazione, tra cui figurano i progetti energetici che sostituiscono soluzioni inquinanti con altre a basso impatto, mentre meno del 20% finiscono all’adattamento, che invece dovrebbe rispondere alle esigenze più immediate delle comunità colpite dal cambiamento climatico.

Per quanto riguarda la distribuzione regionale, all’America Latina e ai Caraibi arriva il 21% della finanza climatica, ai Paesi sub-sahariani il 18%, all’Asia centrale e all’Est Europa il 17%, all’Asia orientale e al Pacifico il 13%, mentre ai Paesi mediorientali e del Nord-Africa arriva il 9%. Ai Paesi con redditto più basso (Least Developed Countries) arriva il 21%, alle piccole isole circa il 5%.

Non deve cambiare solo la quantità della finanza climatica, ma anche la sua qualità. La Roadmap ha sintetizzato in cinque ‘R’ le azioni da intraprendere (Replenishing, Rebalancing, Rechanneling, Revamping, Reshaping), che fuor di slogan significa più concessioni e meno prestiti, o per lo meno prestiti a tassi agevolati che non gravino ulteriormente sui debiti nazionali. Servono poi strumenti finanziari innovativi per attirare gli investimenti del settore privato, pur con qualche fondo di garanzia messo dal pubblico che però da solo non può sobbarcarsi tutto il peso della finanza climatica. E ancora serve maggiore trasparenza nella gestione dei fondi e capacità di arrivare veramente alle comunità che ne hanno bisogno, che troppo spesso si prendono le gocce di flussi finanziari che si disperdono in rivoli più a monte.

Proprio per stare vicino alle comunità più colpite dal cambiamento climatico e provare a convincere il settore privato a fare la propria parte, alla COP30 la presidenza brasiliana ha scelto di puntare soprattutto su due dossier finanziari: uno è il Global Goal on Adaptation (GGA), l’altro è la Tropical Forest Forever Facility (TFFF).

Il nuovo obiettivo per l’adattamento

Rispetto alla mitigazione, che può essere calcolata in base alle emissioni prodotte e alle fonti di energia pulita installate, l’adattamento è più difficile da trattare. Per pianificarlo, occorre prima misurarlo, ma le esigenze di adattamento variano a seconda di dove ci troviamo sulla carta geografica: siccità, alluvioni, uragani, incendi, erosione delle coste, scioglimento dei ghiacciai e ondate di calore hanno tutti impatti profondi ma diversi su società ed economia, a seconda che si viva in città o in montagna, lungo la costa, in campagna o nel cuore di una foresta tropicale, come le popolazioni amazzoniche che rischiano di assistere inermi alla lenta trasformazione in savana. Le risposte a questi rischi sistemici vanno calibrate caso per caso.

A Belem si parla allora di considerare un centinaio di indicatori con cui misurare l’adattamento. Per quanto riguarda l’aspetto economico, l’Adaptation Gap Report dell’Unep (il programma ambientale dell’Onu) ha rilevato non solo che i fondi per l’adattamento consegnati dai Paesi ricchi sono più di dieci volte inferiori a quelli di cui i Paesi in via di sviluppo avrebbero davvero bisogno nel 2035 (26 miliardi di dollari contro almeno 310 miliardi), ma che addirittura quelli del 2023 sono stati meno di quelli del 2022 (28 miliardi).

Alla COP26 di Glasgow ci si era dati l’obiettivo di raddoppiare i fondi per l’adattamento entro il 2025, arrivando almeno a 40 miliardi: con ogni probabilità non verrà rispettato, colpa anche dei tagli alla cooperazione internazionale dell’amministrazione Trump, che guida la prima economia mondiale. La COP30 allora sta tentando di rilanciare quell’impegno e renderlo più credibile. Prima di arrivare ai 1.300 miliardi complessivi di finanza climatica, pubblica e privata, bisogna raggiungere nello stesso tempo gli almeno 310 miliardi solo per l’adattamento, che rispetto ad esempio ai progetti energetici per la mitigazione offre molti meno margini di ritorno economico. Già questa da sola sarà una sfida notevole.

Un fondo d’investimento per le foreste

Oltre a essere stata definita la COP della verità, la trentesima conferenza delle parti è anche la COP dell’Amazzonia, non solo perché si svolge in prossimità della foresta tropicale e le popolazioni indigene hanno già fatto sentire la loro presenza con manifestazioni colorate e rumorose, ma anche perché uno dei cavalli di battaglia della presidenza brasiliana è il lancio della Tropical Forest Forever Facility (TFFF). Con 125 miliardi di dollari, di cui 25 da finanza pubblica e 100 da finanza privata, vorrebbe diventare il più grande fondo d’investimento multilaterale a protezione del patrimonio di foreste tropicali di quei più di 70 Paesi in via di sviluppo che ne sono i custodi. Dovrebbero essere proprio loro a gestire il fondo, con il supporto della Banca Mondiale.

Finora sono stati raccolti circa 5,5 miliardi, non solo dai Paesi interessati (1 miliardo dal Brasile, 1 miliardo dall’Indonesia), ma anche da Paesi industrializzati (Francia, Regno Unito, Norvegia, Germania e Belgio hanno messo 2,5 miliardi a protezione delle foreste del Congo).

L’idea nasce circa 15 anni fa e vorrebbe essere quella di un fondo sovrano per le foreste che investe il capitale raccolto in obbligazioni pubbliche e aziendali, escludendo quelle che sono associate a pratiche non sostenibili (attivisti e ricercatori però hanno già lamentato criteri troppo laschi). Le rendite così ottenute servirebbero prima a ripagare gli investitori e i Paesi creditori e poi verrebbero reinvestite nella tutela delle foreste tropicali. Naturalmente un simile meccanismo finanziario dipenderebbe dai rischi e dalle volatilità del mercato e dunque le risorse per la conservazione delle foreste sarebbero tutt’altro che garantite. Tuttavia, ci sono anche potenziali vantaggi.

“Il fondo è composto da investimenti e non da donazioni, una distinzione importante” spiega su Nature Carolina Grottera, sottosegreataria alla transizione ecologica al ministero delle finanze in Brasile. “L’esperienza dimostra che i flussi di aiuti sono volatili e soggetti ai venti politici e ai vincoli fiscali dei paesi donatori. Il TFFF interrompe questo ciclo. Ecco come funziona: gli sponsor investono nel fondo e ricevono rendimenti annuali paragonabili a quelli delle obbligazioni sovrane a basso rischio, pari, ad esempio, al 4%. Il fondo impiega questo capitale in un portafoglio diversificato di attività a reddito fisso, principalmente obbligazioni dei mercati emergenti, con un rendimento atteso del 7–8% (storicamente, un portafoglio rappresentativo di obbligazioni diversificate dei mercati emergenti ha generato rendimenti intorno a quel livello). (...) Una volta maturo, questo meccanismo potrebbe generare 4 miliardi di dollari all'anno per la conservazione forestale”. 

"“Per ricevere i pagamenti, i paesi a basso e medio reddito con foreste tropicali dovranno monitorare la deforestazione utilizzando sistemi di immagini satellitari e fornire ogni anno alla segreteria del TFFF la prova che il tasso non ha superato lo 0,5%. È fondamentale che almeno il 20% del fondo supporti i popoli indigeni e le comunità locali, che sono i più efficaci custodi delle foreste" aggiunge Grottera.

I crediti di carbonio

Il TFFF non è il primo meccanismo finanziario che tenta di salvaguardare le foreste. Negli ultimi anni si sono largamente diffusi i crediti di carbonio associati a progetti forestali (acronimo REDD+ che sta per Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation) che limitano la deforestazione o favoriscono la riforestazione: ogni albero che resta in piedi corrisponde a una certa quantità di carbonio che non viene disperso in atmosfera. Ogni tonnellata di CO2 non emessa viene fatta corrispondere a un credito di carbonio che un’azienda può acquistare per compensare le emissioni che ha prodotto con la sua attività.

Questo sistema è pensato per finanziare la conservazione delle foreste e altri ecosistemi e si dovrebbe basare su un’accurata misurazione della deforestazione. Tuttavia, diversi rapporti e studi scientifici hanno dimostrato che i metodi adottati non sono affatto affidabili. Il risultato è che le aziende comprano crediti che per la maggioranza dei casi non sono associati a una reale riduzione delle emissioni. In un recente articolo di commento su Nature, il direttore del Potsdam Institute for Climate Research Impact, Johan Rockström, ha definito senza esitazione i crediti di carbonio hot air, aria fritta.

La presidenza brasiliana vorrebbe riportare ordine nel mercato dei crediti di carbonio, continuando il lavoro svolto sull'articolo 6 dell'accordo di Parigi all'ultima Cop di Baku, per sviluppare un organo di coordinamento (Supervisory Body) gestito direttamente dalle Nazioni Unite.

Per quanto riguarda il TFFF un altro punto ritenuto debole da diversi esperti è la sua sostenibilità economica. Si parla infatti di fissare un pagamento di 4 $ per ettaro di foresta, un valore ritenuto troppo basso per risultare attrattivo, rispetto ad altre opzioni. Ipotizzando che un ettaro di foresta assorba circa 10 tonnellate di CO2, 10 crediti di carbonio risultanti da quell'ettaro varrebbero circa 30 $, secondo quanto riportato da Fondazione CMCC.

Anche il TFFF dovrà fare affidamento su misurazioni precise sullo stato di salute delle foreste e non è chiaro al momento se sarà in grado di superare i problemi che hanno funestato il mercato dei crediti di carbonio. Se il TFFF dovesse vedere la luce, dovrà assicurarsi di non ripetere gli errori del passato.

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