Era uno dei risultati attesi ed è stato raggiunto subito, il 30 novembre, lo stesso giorno di apertura della Cop di Dubai. Il fondo dedicato alla riparazione di perdite e danni (loss & damage), dopo 30 anni di richieste e battaglie da parte del Sud del mondo, è stato reso operativo a poche ore all’inizio della conferenza presieduta dagli Emirati Arabi Uniti, che contribuiranno con 100 milioni di dollari al fondo.
“Solitamente le decisioni importanti vengono masticate, digerite e rimasticate per giorni e giorni” scrive Jacopo Bencini, policy advisor per le politiche europee e multilaterali sul clima che sta seguendo la Cop 28 per Italian Climate Network. “Uno scatto in avanti tutto politico, ben gestito dagli Emirati nella loro volontà di imprimere velocità e decisione al processo, che lascia però a bocca asciutta chi sperava in una revisione almeno parziale di quel testo”.
Lo stesso giorno sono stati dichiarati contributi per altri 225 milioni di dollari versati dall’Unione Europea, altri 100 dalla Germania, circa 75 milioni dal Regno Unito, 10 dal Giappone e, soltanto, 17,5 milioni di dollari dagli Stati Uniti. “L’ennesimo disimpegno finanziario statunitense” sottolinea Bencini.
Alla vigilia della Cop araba, i riflettori del mondo erano puntati sulle contraddizioni di un negoziato climatico, condotto da un petrostato, il cui esito dovrebbe essere l’abbandono dei combustibili fossili. La BBC aveva anche rivelato documenti riservati secondo cui la presidenza emiratina si stava spendendo invece per rafforzare la propria posizione nel mercato petrolifero.
Con un colpo di scena diplomatico, quasi un colpo di teatro, il presidente della conferenza sul clima Sultan Al-Jaber, al centro delle polemiche per i suoi conflitti di interesse (è a capo della compagnia petrolifera nazionale di Abu Dhabi, Adnoc), ha dirottato le luci di scena su un altro dei temi centrali di quest’anno. L’attivazione del fondo loss & damage era attesa, ma non scontata, ed è quindi un risultato importante nella lotta al cambiamento climatico. Gli applausi che sono giunti dall’assemblea e dagli osservatori, tuttavia, non possono e non devono sovrastare le voci che ricordano gli aspetti critici già emersi riguardo al funzionamento del fondo e che all’approvazione del 30 novembre rimangono immutati.
Su tutti: il ruolo della Banca Mondiale nella gestione del fondo e la decisione di rendere volontari e non obbligatori i finanziamenti dei Paesi, il mancato riconoscimento del principio di giustizia climatica, l’assenza di una quantità di finanziamenti da raggiungere come obiettivo, le difficoltà a mantenere le promesse in tema di finanza climatica. Ma andiamo con ordine.
100 miliardi di dollari entro il 2030
Complessivamente i primi impegni finanziari dichiarati il 30 novembre ammontavano a circa 550 milioni di dollari. Il giorno seguente si sono aggiunti i 100 milioni di dollari della Francia e altrettanti sono arrivati dall’Italia. Proprio il nostro Bel Paese però con Tecnimont e Saipem (del gruppo Eni) il 6 ottobre aveva firmato un contratto con Adnoc da 17 miliardi di dollari, di cui 13 in capo alle due imprese italiane, per lo sfruttamento di due giacimenti offshore di gas (Hail e Ghasha). “1 dicembre 2023. l’Italia dona 100 milioni per i danni causati da quel contratto” scrive il giornalista ambientale Ferdinando Cotugno.
BREAKING: Italy announces Є100 million commitment to Loss and Damage to support transformational climate progress at COP28 and support climate resilience for vulnerable communities.
— COP28 UAE (@COP28_UAE) December 2, 2023
We encourage global leaders to accelerate action, raise collective ambition, and close gaps to… pic.twitter.com/NfK1xCG2Qd
Uno studio del 2019 citato in un documento del Parlamento Europeo sostiene che entro il 2030 i fondi necessari alla riparazione di perdite e danni causati dal cambiamento climatico saranno tra i 290 e i 580 miliardi di dollari all’anno. Un’altra analisi del 2022 ritiene che allo stesso fine saranno invece necessari tra i 150 e i 300 miliardi di dollari.
Un gruppo di rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo nel corso di quest’anno aveva chiesto di raggiungere almeno i 100 miliardi di dollari annui. Questo ed altri obiettivi finanziari non sono presenti nell’accordo siglato il primo giorno della Cop 28 e i soldi raccolti dalla presidenza emiratina sono lontani ancora anni luce dall’affrontare veramente il problema.
Le delusioni della finanza climatica
Sebbene non ci sia una definizione univoca per loss & damage, c’è un informale consenso nel identificare il termine con quell’insieme di effetti avversi provocati dal cambiamento climatico che non possono essere più tamponati da azioni di mitigazione (riduzione delle emissioni per evitare ulteriore riscaldamento globale) e adattamento (interventi volti a convivere con il riscaldamento globale già avvenuto).
Per mettere in pratica tali azioni di mitigazione e adattamento nei Paesi in via di sviluppo è cruciale la finanza climatica, che però fino a oggi è stata una storia di promesse non mantenute e obiettivi non raggiunti. Alla Cop15 di Copenhagen, nel 2009, i Paesi industrializzati si erano impegnati a far arrivare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 ai Paesi più a basso reddito.
Nel 2021 si sono messi insieme poco meno di 90 miliardi di dollari, mancando ancora l’obiettivo fissato 12 anni prima (si spera di raggiungerlo per la prima volta proprio nel 2023).
All’adattamento sono andati poco più di 21 miliardi di dollari, un valore addirittura in calo di quasi il 15% rispetto all’anno precedente, secondo l’Ocse. L’Adaptation Gap Report 2023 dell’Unep (il programma ambientale dell’Onu) sostiene però che i costi reali per far fronte all’adattamento sarebbero un valore compreso tra le 10 e le 18 volte più alto, compreso tra i 200 e i 400 miliardi di dollari annui, da qui a fine decennio, mentre sono destinati a salire ancora entro metà secolo. È lecito pensare, purtroppo, che senza ulteriori pressioni prima di vedere arrivare alle comunità bisognose i fondi per le perdite e i danni ci vorrà molto, troppo tempo.
Giustizia climatica
Anche la categoria loss & damage a volte è considerata come una particolare forma di adattamento, anche se come spesso ha ribadito l’attivista ugandese Vanessa Nakate, non ci si può adattare veramente alla perdita di famigliari o di luoghi cancellati da un’alluvione. E diventa ancor più difficile farlo se si considera che chi è più vulnerabile a queste perdite ha contribuito in minima parte a rendere più frequenti e più intensi quegli eventi meteorologici estremi da cui è oppresso.
My thoughts on the Loss and Damage fund agreed yesterday at #COP28 pic.twitter.com/2kYIaRj5bq
— Vanessa Nakate (@vanessa_vash) December 1, 2023
La gran parte delle responsabilità del cambiamento climatico grava infatti su quei Paesi che hanno tratto vantaggio, dalla rivoluzione industriali in avanti, dai combustibili fossili, distribuendo però solo i costi ambientali e non la ricchezza che il loro consumo ha generato.
Nord America, Europa e Asia sono responsabili di circa un terzo ciascuno (più del 90% del totale) delle emissioni storicamente rilasciate in atmosfera, mentre l’intero continente africano ne ha prodotte solo il 3%. Su questi dati incontrovertibili si regge il principio di giustizia climatica e di responsabilità condivise ma differenziate che stava alla base della richiesta di istituzione di un meccanismo finanziario di riparazione ai danni causati dal cambiamento climatico.
A Sharm el Sheikh, l’anno scorso, i Paesi del Sud del mondo avevano fatto fronte compatto e avevano ottenuto per la prima volta lo storico inserimento del fondo loss & damage nel documento finale della Cop 27. Per tutto l’anno seguente il Transitional Committee (commissione transitoria, nominata appositamente alla Cop) si era fatto carico di lavorare ai dettagli per rendere operativo il fondo e per arrivare a presentare un documento da approvare alla Cop 28.
Il testo è uscito da un incontro della commissione tenutosi tra il 3 e il 4 di novembre ad Abu Dhabi e in quell’occasione alcuni rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo si erano detti profondamente insoddisfatti.
La linea promossa dagli Stati Uniti infatti aveva prevalso: erano riusciti a rendere volontari i contributi finanziari da destinare al fondo, anziché obbligatori. Inoltre, era stato deciso che il fondo sarebbe stato gestito dalla Banca Mondiale, il cui presidente è proprio di nomina statunitense. Quello precedente, David Malpass, si era dimesso a febbraio 2023 in seguito a esternazioni negazioniste riguardo al cambiamento climatico.
Alla Cop 27 era anche stata presentata l’iniziativa di Bridgetown, capitale delle Barbados, una di quelle piccole isole che rischiano di venire sommerse dall’innalzamento dei mari: il primo ministro Mia Mottley aveva chiesto una riforma delle maggiori istituzioni finanziarie globali, come Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, per renderle più adeguate ad affrontare le sfide del XXI secolo, su tutte il cambiamento climatico.
All’approvazione del primo giorno di Cop 28 non sembra essere stato aggiunto alcun riferimento al principio di giustizia climatica, non è stata messa in discussione la partecipazione volontaria ai finanziamenti ed è stato confermato il ruolo guida della Banca Mondiale, almeno per i prossimi 4 anni.
La decisione degli Stati Uniti di contribuire al fondo con una quota tra le più basse, a fronte del primato nelle emissioni storicamente prodotte, assomiglia a un segnale di rifiuto della logica di giustizia climatica. La vice presidente Kamala Harris ha annunciato lo stanziamento di 3 miliardi di dollari per un altro fondo destinato a sostenere i Paesi in via di sviluppo, come a voler dire: la contribuzione la decidiamo noi, secondo i principi che stabiliamo noi.
Sarebbe un errore considerare quindi la sola realizzazione del fondo loss & damage un traguardo storico, perché la storia verrà fatta quando i soldi necessari alle riparazioni verranno spesi bene.
Se l’intento di Al Jaber dunque era quello di spostare l’attenzione dalla riduzione del consumo di petrolio, gas e carbone, ci è riuscito, ma solo per qualche ora. Una bozza di documento ufficiale, che verrà discussa nei prossimi giorni a Dubai, contiene per la prima volta un espresso riferimento all’abbandono/riduzione (phaseout/phasedown) dei combustibili fossili. Vedremo se la dicitura sopravviverà all’approvazione dell’accordo finale o verrà per l’ennesima volta cassata dal veto di qualcuno.
💥 ‘Back into caves’: #Cop28 president dismisses phase-out of fossil fuels
— Damian Carrington (@dpcarrington) December 3, 2023
- Exclusive: UAE’s Sultan Al Jaber says there is ‘no science’ behind demands for phase-out of coal, oil and gas#ClimateCrisis #FossilFuels
Story by me and @ben_stockton https://t.co/fuUkOm5Udl
Nel frattempo un articolo di The Guardian ha rivelato che il 21 novembre Al Jaber ha sostenuto che non esiste alcuna scienza che afferma che occorre abbandonare i combustibili fossili per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C e che farlo equivarrebbe a tornare alle caverne. L'inadeguatezza del capo della compagnia petrolifera nazionale di Abu Dhabi a ricoprire il ruolo di presidente della Cop 28 sta diventando sempre più evidente.
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