SOCIETÀ

COP27: nasce il fondo loss & damage, ma non si rallentano i combustibili fossili

Alcune conferenze sul clima sono più importanti di altre. Lo è stata la Cop21 del 2015 a Parigi, come pure la Cop26 tenutasi l’anno scorso a Glasgow, dove si sarebbero dovuti rendere pienamente operativi gli accordi di Parigi. Da quella conferenza si era invece usciti ammettendo che l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C era sì vivo, ma non godeva di buona salute.

Alla vigilia della Cop27, iniziata il 6 novembre a Sharm el Sheikh in Egitto, ci si aspettava che la crisi energetica e geopolitica avrebbe minato la cooperazione internazionale, facendo di fatto passare in secondo piano la necessità di contrastare il cambiamento climatico.

Le negoziazioni sarebbero dovute concludersi venerdì 18 ma come spesso è accaduto anche in passato si sono protratte fino a notte inoltrata e la plenaria di chiusura si è tenuta alle 3 del mattino di domenica 20: la Cop27 è stata la seconda più lunga di sempre (dopo quella di 3 anni fa a Madrid).

Sabato mattina serpeggiava pessimismo persino sulle possibilità di includere nel documento finale il riferimento a 1,5°C, soglia critica indicata dagli scienziati dell’IPCC come limite oltre cui il clima del pianeta diventa ingestibile per società ed ecosistemi. Le parti, ovvero i singoli Paesi dell'Onu, ad oggi non stanno facendo abbastanza per contenere il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5°C. Non è però cancellando il riferimento al problema che si risolve il problema.

Teresa Ribeira, ministra dell’ambiente spagnola, aveva minacciato di abbandonare i negoziati se l’accordo finale avesse dovuto fare passi indietro rispetto a quanto ottenuto a Glasgow. Frans Timmermans, vice presidente della Commissione Europea e commissario europeo per il clima, aveva dichiarato “meglio nessun accordo che un cattivo accordo”.


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Oltre a tenere o meno il riferimento al grado e mezzo, l’altro grande tema al centro delle negoziazioni tra le parti è stato l’inserimento nel testo finale di un fondo finanziario, da sempre fortemente richiesto dal Sud del mondo, per risarcire perdite e danni (loss & damage) già causati dal cambiamento climatico ai Paesi che hanno contribuito solo in minima parte al riscaldamento globale.

La creazione di tale fondo comporta il riconoscimento di una giustizia climatica basata sul principio delle responsabilità storiche dei Paesi industrializzati che hanno prodotto più emissioni negli ultimi due secoli. Gli Stati Uniti, il Paese che ha inquinato l’atmosfera più di ogni altro, dall’inizio della conferenza hanno tentato di non far passare questo principio. Tuttavia, i disastri causati quest’anno dalle alluvioni in Pakistan (30 miliardi di dollari di perdite e danni, più di 30 milioni di persone coinvolte, più di 1500 morti) erano un macigno sul tavolo delle discussioni che non poteva venir spostato.

L’Unione Europea con Timmermans si è schierata durante le trattative in favore del fondo e a fianco del gruppo di Paesi a basso e medio reddito del G77, che in realtà sono 130 e sono capitanati dalla Cina, anch’essa considerata dalla convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici del 1992 ancora un Paese in via di sviluppo.

Proprio la Cina però è rimasta ambigua, perché l’Europa ha chiesto che i finanziamenti loss & damage venissero dati ai Paesi più vulnerabili e arrivassero non dalla lista stilata nel 1992 (rispetto ad allora le economie mondiali sono completamente cambiate), ma da coloro che oggi producono più emissioni, e la Cina è in cima a quella lista.

A metà giornata di sabato 19 la presidenza egiziana della Cop ha distribuito una nuova bozza di testo finale che teneva conto di alcune delle proposte europee.

Anche quando il traguardo sembra in vista, qualsiasi Paese può mettersi di traverso e bloccare l’accordo: era successo un anno fa a Glasgow quando l’India non accettò l’eliminazione (phase out) del carbone, e fece scrivere riduzione graduale (phase down). Gli Stati Uniti avrebbero potuto fare lo stesso riguardo al fondo loss & damage, ma hanno deciso nella serata di sabato 19 di non opporsi.

Le trattative sono durate a lungo, ma alla fine i Paesi del Sud del mondo hanno vinto la loro battaglia: per la prima volta nella storia delle conferenze sul clima l’accordo finale fa riferimento alla creazione di un fondo specificamente dedicato alle riparazioni di perdite e danni. Tutti i Paesi ora riconoscono che il cambiamento climatico ha già causato danni, che quei danni vanno risarciti e che la responsabilità di quelle perdite è dei Paesi industrializzati.

La Cop27 di Sharm el-Sheikh entra così nella storia della diplomazia climatica passando dalla porta principale. Spetterà tuttavia alle prossime due Cop almeno stabilire i dettagli del funzionamento del meccanismo finanziario, tutt’altro che scontati. Il fondo dovrebbe diventare operativo a fine 2024, e già si stima che i fondi necessari a riparare i danni e le perdite arriveranno a circa 380 miliardi di dollari.


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Nell’accordo finale è stato mantenuto anche il riferimento all'obiettivo del grado e mezzo, tuttavia nel documento di fatto non sono presenti misure adeguate e sufficienti per raggiungerlo. Da questo punto di vista la Cop27 non ha avuto successo. Se i Paesi vulnerabili hanno vinto una battaglia, coloro che producono più emissioni ne hanno vinta un’altra.

Il testo dell’accordo riconosce che le emissioni globali dovrebbero calare del 43% entro il 2030 per restare entro 1,5°C di riscaldamento globale (del 27% per stare sotto i 2°C), come riportano i rapporti dell'IPCC, ma non sottolinea che il picco delle emissioni dovrebbe essere raggiunto entro il 2025.

Inoltre, ancora una volta, come era già accaduto a Glasgow, non è stato inserito alcun esplicito riferimento all’uscita da un sistema energetico basato sui combustibili fossili: Russia e Arabia Saudita hanno difeso strenuamente il fortino di gas e petrolio. L’Egitto stesso, nonostante la presidenza della Cop, ha difeso i suoi interessi di Paese estrattore ed esportatore di gas.

Si è deciso di mantenere la dicitura, già ritenuta insoddisfacente, del Patto climatico di Glasgow, per cui ci si impegna in una riduzione graduale (phase down) del carbone (se ne chiedeva invece l’eliminazione, il phase out) e l’abbandono dei sussidi inefficienti ai combustibili fossili. È l’unica volta (al paragrafo 28) che i termini carbone e combustibili fossili compaiono nel testo del documento finale.

Si sottolinea inoltre (al paragrafo 12, 13 e 14) che le rinnovabili sono il modo più veloce ed efficiente per effettuare la transizione energetica (come pure sostiene l’IPCC), mentre non c’è alcun riferimento a una riduzione generale dei combustibili fossili. È ambigua invece l’espressione relativa all’“aumento di fonti energetiche a basse emissioni” che da alcuni è letta come un espediente per far rientrare il gas dalla finestra come combustibile di transizione.

Le compagnie dell’Oil & Gas, quest’anno rappresentate in Egitto da più di 600 delegati, mai così tanti a una Cop, stanno pianificando quantità di estrazioni di idrocarburi che non sono compatibili con il rispetto degli accordi di Parigi e nemmeno con il mantenimento dell’obiettivo di massimo 2°C di riscaldamento globale. Molti dei nuovi progetti sono in Africa.

Sul fronte della finanza climatica si è registrato dunque un successo storico, quello del fondo loss & damage, che tuttavia resta ben lontano dal risolvere tutti i problemi. Per quanto riguarda i fondi destinati all’adattamento dei Paesi più vulnerabili, anche quest’anno l’obiettivo di raccogliere 100 miliardi di dollari, promesso entro il 2020 e pianificato dal 2009, non è stato raggiunto. Nel 2021 ci si era fermati a 83 miliardi, mentre entro il 2030 si stima che i finanziamenti necessari all’adattamento e alla mitigazione a livello globale dovranno essere almeno 2.000 miliardi di dollari.

Le proposte avanzate per smuovere queste cifre non sono state considerate soddisfacenti. Gli Stati Uniti con il delegato per il clima John Kerry hanno ammesso che i soldi pubblici da soli non basteranno, anche perché gli USA dovendo rispondere alle responsabilità storiche dovrebbero sborsarne molti più degli altri. L’Energy Transition Accelerator, il piano statunitense ideato tra gli altri dal Bezos Earth Fund e da Rockefeller Foundation, punta allora sulla mobilitazione della finanza privata.

La proposta è stata accolta con molto scetticismo dal gruppo dei Paesi a basso reddito, consapevoli da un lato che il motore della finanza privata è il profitto e dall’altro che la ricostruzione di Paesi poveri come il Pakistan non garantisce grandi margini di guadagno. Anche il sistema assicurativo che era stato proposto dalla Germania, il Global Shield, non prevede il risarcimento di perdite e danni.

La finanza è stato il tema che più di altri ha pesato in questa Cop27 e ha disegnato un nuovo fronte geopolitico compatto, che alle Cop precedenti non era altrettanto forte.

Dai Paesi del Sud del mondo infatti è arrivata anche la richiesta di riformare le grandi istituzioni finanziarie internazionali, come la Banca Mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio o il Fondo monetario internazionale. Concepite nel XX secolo non sono ritenute adatte ad affrontare le sfide del XXI. A presentare un’iniziativa in questo senso, la Bridgetown Initiative, è stata colei che è emersa come una delle nuove leader di questo nuovo assetto geoplotico-climatico: Mia Mottley, primo ministro delle Barbados, una di quelle isole che sono in procinto di venire interamente sommerse dall’innalzamento del livello dei mari.

Poche settimane prima dell’inizio della Cop27 avevano suscitato scalpore alcune dichiarazioni di David Malpass, presidente della Banca Mondiale, che rimaneva ambiguo circa l’origine antropica del cambiamento climatico.


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Molti altri dossier sono stati affrontati nelle due settimane di conferenza sul clima. Rimangono gli obiettivi di ridurre velocemente le emissioni di metano e il global methane pledge vede ora 150 Paesi affiliati. Si sono fatti passi avanti anche su come calcolare le emissioni di aziende e soggetti non statali per evitare conteggi sbagliati e greenwashing. Vanno poi segnalate altre due prime volte: quella della comparsa del termine nature-based solutions in una sezione interamente dedicata alla protezione delle foreste, e la comparsa nel testo dei tipping points, i punti di non ritorno che ecosistemi e clima stanno per superare o in alcuni casi hanno già superato.

A questa Cop27 (anche grazie al G20 di Bali) è ripartito inoltre il dialogo climatico tra le due maggiori economie mondiali, Cina e Stati Uniti, i cui delegati Xie Zhenhua e John Kerry (quest’ultimo ha contratto il Covid l’ultimo giorno di negoziati) hanno dichiarato di impegnarsi in un confronto costruttivo anche nei prossimi mesi e anni.

Nel testo finale è presente anche un capitolo dedicato all’articolo 6 degli accordi di Parigi che regola il mercato dello scambio dei crediti di carbonio, con accordi bilaterali (6.2) e multilaterali (6.4), secondo il principio per cui chi emette di meno può vendere crediti di emissioni a chi emette di più. È stata però rimandata la questione cruciale relativa a come considerare le tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2, ad oggi non disponibili su scala industriale e ritenute da molti delegati, del Sud del mondo ma non solo, un espediente per ritardare la riduzione delle emissioni del comparto fossile. All'ultimo è stato aggiungo nel documento un breve riferimento (ma non un paragrafo) ai diritti umani e a quelli delle popolazioni indigene.

Tra coloro che si candidano a guidare i Paesi del Sud del mondo in difesa del clima, dell’ambiente e delle popolazioni indigene c’è anche il neo eletto presidente del Brasile Lula, accolto a Sharm el-Sheikh da cori da stadio e intervenuto nella giornata del 16 novembre dedicata alla biodiversità. A dicembre a Montreal in Canada si terrà, dopo 2 anni di rinvii, proprio la conferenza delle parti dell’Onu dedicata a questa crisi e ci si aspetta ne esca l'equivalente degli accordi di Parigi per la tutela della biodiversità.

La prossima conferenza delle parti sul clima invece sarà ospitata dagli Emirati Arabi Uniti e si terrà tra un anno a Dubai. Prima dell’inizio della Cop28 i Paesi dovranno aggiornare con impegni climatici più ambiziosi i propri documenti nazionali (NDCs, Nationally Determined Contributions), finora gravemente insufficienti.


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È altamente improbabile che proprio dal Golfo Persico venga fuori un accordo che per la prima volta riconosca la necessità di uscire gradualmente dai combustibili fossili, o se non altro sarebbe clamoroso.

Può far storcere il naso e far perdere fiducia nel processo diplomatico pensare che la prossima destinazione sarà Dubai, ma la logica delle conferenze sul clima è quella di coinvolgere tutte le parti portatrici di interesse, proprio perché il clima è una questione globale che riguarda tutti.

Dispiace anche per questo dover notare l’assenza formale dell’Italia durante gli ultimi giorni di negoziati a Sharm el-Sheikh. Il neo ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha lasciato l’Egitto martedì 15, dopo aver incontrato brevemente per 15 minuti John Kerry, con il quale ha comunicato tramite interprete, perché il nostro ministro non parla inglese.

Tutti gli altri Paesi europei hanno mantenuto fino agli ultimi giorni delegati governativi che hanno coordinato le discussioni su temi cruciali come l’adattamento (Spagna, Austria e Svezia), la finanza (Germania con la proposta del Global Shield, ma anche Olanda, Lussemburgo e Francia), la mitigazione (Belgio e Germania), perdite e danni (Irlanda). Per l’Italia è rimasto a seguire le trattative il funzionario ministeriale Alessandro Modiano, che tuttavia non è stato investito di una delega governativa ufficiale.

Assieme al clima e alla biodiversità, anche la democrazia, oggi più che mai, si sta mostrando fragile, per nulla scontata, bisognosa di partecipazione, impegno e meccanismi di tutela. Lo stesso vale per la conferenza sul clima, che nonostante la lentezza e la scarsità di risultati ottenuti sul fronte della riduzione delle emissioni, è l’unico spazio fisico di incontro tra tutti i Paesi del mondo (alcuni anche in guerra tra loro) in cui si possa discutere di come affrontare la sfida che riguarda tutti e che più di ogni altra caratterizzerà questo secolo.

La Cop sul clima può essere considerata uno dei più alti esempi di partecipazione che l’umanità ha saputo ideare e dunque il più alto esempio di fragilità democratica. Per questo, dopo essersene lamentati fino a maledirla, occorre rimboccarsi le maniche e impegnarsi a presidiarla e rafforzarla.

 

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