SOCIETÀ

Cop 29: il nuovo obiettivo di finanza climatica globale

Il principale risultato che ci si aspetta dalla 29esima conferenza sul clima delle Nazioni Unite, che si tiene a Baku in Azerbaijan dal 11 al 22 novembre, è il New Collective Quantitative Goal (NCQG), il nuovo obiettivo collettivo di finanza climatica. A partire dal 2025 dovrebbe salire di un ordine di grandezza, passando dagli attuali 100 miliardi di dollari annui ad almeno 1.000 miliardi di dollari, per poi aumentare ulteriormente dal 2030 in avanti.

Per finanza climatica si intendono tutti quei flussi finanziari che vengono mobilitati per contrastare il cambiamento climatico nel mondo tramite azioni di mitigazione (riduzione delle emissioni di gas serra), adattamento (gestione del rischio climatico esistente) e risarcimento di perdite e danni (quelli già causati da eventi meteorologici estremi).

Gli effetti del cambiamento climatico non sono uguali per tutti: colpiscono più duramente i Paesi che sono meno attrezzati ad affrontarlo e che storicamente hanno prodotto meno emissioni. Per questo l’articolo 9 dell’accordo di Parigi, siglato alla Cop 21 del 2015, prevede che siano i Paesi industrializzati, che sono anche i maggiori responsabili delle emissioni che hanno causato il riscaldamento globale, a fornire la maggior parte delle risorse finanziarie per avviare la transizione a un’economia più sostenibile nei Paesi in via di sviluppo e aiutarli a difendersi dal cambiamento climatico. Il principio che la finanza climatica dovrebbe seguire è quello delle responsabilità comuni ma differenziate, ovvero un principio di giustizia climatica secondo cui chi ha emesso di più deve pagare di più.

L’attuale obiettivo di 100 miliardi dollari di finanza climatica è stato proposto nel 2009, alla Cop 15 di Copenhagen, e avrebbe dovuto essere raggiunto entro il 2020. Nel 2021 invece i Paesi più sviluppati avevano raccolto meno di 89 miliardi di dollari. L’anno successivo, nel 2022, l’obiettivo è stato superato, con circa 115 miliardi, ma un’analisi del Center for Global Development ha fatto notare che i circa 27 miliardi aggiuntivi non sarebbero nuovi stanziamenti, ma semplicemente fondi per lo sviluppo già esistenti che sono stati riconteggiati come green.

L’obiettivo dei 100 miliardi inoltre nasceva già vecchio. La cifra fissata alla Cop 15 di Copenhagen nel 2009 era per lo più simbolica e la necessità di rivederla al rialzo era stata riconosciuta già alla Cop 21 di Parigi nel 2015, molto prima che i 100 miliardi annuali venissero raccolti.

L’organo delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad) ha pubblicato un rapporto in cui il NCQG atteso dalla Cop 29 viene quantificato. Le reali necessità di mitigazione, adattamento e risarcimento dei danni climatici dei Paesi in via di sviluppo, crescenti nel tempo per via dell’impatto del cambiamento climatico, si aggirano attorno ai 1.100 miliardi di dollari per il 2025 e 1.800 miliardi di dollari per il 2030.

Seguendo il principio di giustizia climatica, i Paesi sviluppati dovrebbero contribuire con almeno tre quarti dell’investimento necessario, ovvero 890 miliardi di dollari dal 2025 e 1.460 dal 2030: da qui i 1.000 miliardi di dollari annui che sono oggetto dei negoziati a Baku.

La cifra può sembrare ragguardevole, e lo è, ma messa in prospettiva rappresenta solo l’1,4% del Pil dei Paesi industrializzati, i quali nel solo 2020 in risposta alla pandemia da Covid-19 hanno speso il 16% del proprio Pil. I Paesi più ricchi continuano a spendere ogni anno il 3,6% del proprio Pil in sussidi ambientalmente dannosi destinati all’economia dei combustibili fossili. Mille miliardi di dollari sono anche meno di quanto i Paesi sviluppati hanno destinato l’anno scorso alla spesa militare, l’1,9% del proprio Pil.

Oltre che della quantità, a Baku si discute anche della qualità della finanza climatica. Il Sud del mondo chiede a gran voce che i fondi vengano assegnati non nella forma di prestiti, ma di grants (concessioni), che l’accesso al credito sia semplificato, trasparente e monitorato, per evitare che i soldi si disperdano nei rivoli di amministrazioni locali spesso poco efficienti. Dei 115 miliardi raccolti nel 2022, circa l’80% erano fondi pubblici, il 20% privati. Il 60% era destinato alla mitigazione e solo 32 miliardi sono andati all’adattamento.

Esistono diversi fondi climatici, tra questi l’Adaptation Fund e la Global Environment Facility, che a propria volta gestisce lo Special Climate Change Fund e il Least Developed Countries Fund. Quello che gode di maggiore disponibilità finanziaria, con oltre 16 miliardi di dollari, è il Green Climate Fund.

Alla Cop 28 di Dubai, l’anno scorso, è stata finalizzata la nascita del fondo Loss & Damage, dedicato non alla mitigazione e all’adattamento, che servono alla gestione degli impatti futuri del cambiamento climatico, ma al risarcimento dei danni e delle perdite già causate dal cambiamento climatico.

Uno studio recente ha calcolato che questi danni nei Paesi in via di sviluppo nel 2022 ammontavano già almeno a 109 miliardi di dollari. A Dubai il fondo aveva raccolto meno di 1 miliardo di dollari e il singolo Paese che ha prodotto più emissioni negli ultimi due secoli, gli Stati Uniti, aveva messo sul tavolo solo 17 milioni di dollari, facendosi beffa del principio di giustizia climatica sui cui l’iniziativa dovrebbe basarsi.

Il fondo Loss & Damage è governato dalla Banca Mondiale, di cui gli Stati Uniti sono il maggior contributore e che ne decidono la presidenza. Quasi la metà dei fondi gestiti dalla Banca Mondiale sono impegnati in progetti climatici e ambientali.

Il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, una volta insediatosi alla Casa Bianca con ogni probabilità si alzerà dal tavolo dell’accordo di Parigi, come aveva già fatto nel 2016, e forse uscirà addirittura la convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Unfccc). La prima economia mondiale si disinteresserà, più di quanto non abbia già fatto, anche della finanza climatica, quando sarebbe richiesto un suo coinvolgimento molto più decisivo.

Chi dovrà pagare il conto della finanza climatica globale, e in quale proporzione, sarà oggetto di discussione tanto quanto lo sarà la negoziazione del nuovo obiettivo finanziario. L’accordo di Parigi prevede siano i Paesi sviluppati a fornire il grosso delle risorse, ma la lista di quella trentina di Paesi è stata stilata dall’Unfccc nel 1992. Da allora il Pil globale è cresciuto di quasi tre volte e la Cina, che allora figurava tra i Paesi in via di sviluppo, oggi è la seconda economia mondiale e di gran lunga il primo produttore annuale di emissioni di gas serra.

Dal 2013 al 2022 la Cina ha contribuito con 45 miliardi di dollari alla finanza climatica globale, una media di meno di 5 miliardi di dollari l’anno. Gli Stati Uniti nel 2023 hanno dato 9 miliardi di dollari, mentre il singolo blocco che ha contribuito di più è stata l’Unione Europea con oltre 28 miliardi di dollari l’anno scorso.

Se e quanto la Cina sceglierà di farsi carico delle proprie responsabilità emissive, finanziando la transizione ecologica globale, dipende dai delicati equilibri diplomatici che si creeranno a Baku. La probabile uscita di scena degli Stati Uniti potrebbe avere un effetto deresponsabilizzante per gli altri Paesi, che potrebbero disimpegnarsi a loro volta, oppure l’effetto opposto di spingerli a riempire uno spazio geopolitico lasciato incustodito dalla prima economia mondiale. In questa eventualità, Cina e Unione Europea dovrebbero essere i primi a muoversi.

Altri esiti attesi dalla Cop 29 sono la consegna degli aggiornamenti degli impegni d’azione climatica (Nationally Determined Contributions, NDCs) da parte dei Paesi membri entro febbraio 2025. La somma di quelli disponibili finora restituisce una società globale che nel 2030 produrrà sostanzialmente le stesse emissioni che produce oggi, più di 50 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente l’anno. Il riscaldamento globale che ne conseguirebbe a fine secolo sarebbe nell’ordine dei 3°C.

Una misura proposta dalla presidenza azera della Cop 29 è l’istituzione di un fondo, il Climate Finance Action Fund (CFAF), che vorrebbe raccogliere i contributi dei maggiori produttori di gas serra, comprese le aziende dell’Oil & Gas. Oggi nel mondo si investono circa 2.000 miliardi di dollari l’anno in energie a basse emissioni e le grandi compagnie petrolifere contribuiscono con l’1% a questo investimento. Finora la transizione energetica è andata avanti senza gli enormi capitali dell’Oil&Gas.

La proposta del nuovo fondo viene da un Paese, l’Azerbaijan, che basa la metà del proprio Pil su petrolio e gas naturale, combustibili che vende in grandi quantità anche all’Europa e all’Italia. Così come la Cop 28 era stata segnata da scoop giornalistici che avevano messo sotto i riflettori i conflitti di interesse del suo presidente, Sultan Al Jaber, a capo della compagnia petrolifera degli Emirati Arabi, Adnoc, qualcosa di simile sta già accadendo anche a Baku, come ha documentato The Guardian.

Il Chief Executive Officer della Cop 29, Elnur Soltanov, è caduto nel tranello di un finto investitore che gli chiedeva di facilitare affari di compravendita di petrolio: “sarò lieto di creare un contatto tra lei e il team (di Socar, l’azienda petrolifera azera, ndr), per iniziare le discussioni” gli ha risposto. In una registrazione, Soltanov, che è anche vice ministro dell’ecologia in Azerbaijan, ha detto: “Una certa quantità di petrolio e gas naturale continuerà a venir prodotta, forse per sempre”.

Il testo finale della Cop 28, per la prima volta in testo ufficiale di una conferenza sul clima, ha menzionato i combustibili fossili, stabilendo che deve iniziare una transizione che ci allontani da quelle fonti emissive. Dopo gli Emirati Arabi, è stato assegnato a un altro petrostato come l’Azerbaijan il compito di guidare il mondo lungo quella strada.

 

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