SOCIETÀ

Cop28: cos’è e cosa ci si aspetta dal Global Stocktake

L’accordo di Parigi è un trattato internazionale che intende far cooperare i Paesi delle Nazioni Unite per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia critica di 2°C rispetto all’era preindustriale e possibilmente al di sotto di 1,5°C. Come si fa però a metterlo in pratica?

Il Global Stocktake è il principale strumento predisposto dall’accordo, all’articolo 14, per la sua realizzazione. Letteralmente significa “inventario globale”, serve a fare il punto sullo stadio di avanzamento delle politiche climatiche e a ricalibrare i piani d’azione nazionali o NDCs (Nationally Determined Contributions) che periodicamente, ogni 5 anni, gli Stati devono consegnare.

Alla Cop 28 di Dubai si sta lavorando alla terza e ultima fase del Global Stocktake (GST), quella più politica (e più delicata), dove i delegati delle parti devono decidere quali diciture inserire nel documento per l’approvazione finale. A settembre era stata conclusa la seconda fase (iniziata a giugno 2022), quella più tecnica, con la pubblicazione di un documento di sintesi che intende valutare e riassumere quanto fatto a livello globale dalla firma dell’accordo di Parigi, avvenuta alla Cop 21 nel 2015.

La prima fase, quella della raccolta dati, era iniziata appena dopo la Cop 26 di Glasgow e invitava i Paesi membri a inviare i propri piani d’azione climatica, che dovrebbero contenere un inventario delle emissioni prodotte, gli obiettivi per mitigarle a medio (2030) e lungo termine (2050), nonché i piani di adattamento.

Sappiamo però che i piani presentati non sono tutti uguali né ambiziosi a sufficienza. Alcuni Paesi hanno degli obiettivi climatici (come la neutralità climatica europea al 2050) ma un numero troppo ristretto ha delineato strade realistiche per realizzarli. Complessivamente, rispetto alle previsioni disponibili negli anni precedenti, oggi le proiezioni delle future emissioni si sono leggermente abbassate, segnale che qualche progresso è stato fatto. Tuttavia, restano ancora clamorosamente alte e lontane dal provocare un riscaldamento inferiore a 1,5°C: il mondo infatti è in linea per riscaldarsi di oltre 2,5°C entro fine secolo. Così l’accordo di Parigi è destinato a non venire rispettato.

Ogni anno escono rapporti che ci ricordano quanto siamo fuori dalla rotta che dovremmo seguire e le conclusioni del rapporto di sintesi del GST, affatto nuove, non fanno che confermarlo. Il GST tuttavia non è soltanto una semplice revisione o valutazione dei compiti svolti a casa dai Paesi membri dell’Unfccc (convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). Vuole essere lo strumento attuativo dell’accordo di Parigi attraverso quello che alcuni chiamano un meccanismo incrementale di ambizione, che fissa i progressi raggiunti e prepara il terreno per i successivi.

Come spiega Carbon Brief, viene chiamato anche ratchet mechanism. Il termine inglese rende il concetto meglio di qualsiasi traduzione o parafrasi italiana. Ratchet è il dente di arresto del meccanismo di un cricchetto. Una volta dato un giro alla chiave, il dente di arresto consente di non perdere il giro dato, così si può tornare indietro con la manovella e caricare il giro successivo.

Fuor di metafora, il GST lavora con obiettivi di lungo termine, verifica i progressi fatti per raggiungerli e in base alle valutazioni fatte aggiorna i piani di azione climatica in vista degli obiettivi. Come detto, opera in cicli di 5 anni. Dopo il 2015 è stato raccolto il primo giro di piani nazionali che alla Cop 26 di Glasgow, prevista per il 2020 ma tenutasi nel 2021 per via del Covid, sono ufficialmente diventati NDCs. Nel 2021 è anche entrato in vigore l'accordo di Parigi, in sostituzione del protocollo di Kyoto. Dopo Glasgow, i Paesi sono stati invitati a redigere nuovi piani aggiornati, la cui consegna e trasformazione in nuove NDCs è prevista per la Cop 30 che si terrà nel 2025. Da lì inizierà un altro ciclo di 5 anni e così via.

Il processo può sembrare estremamente macchinoso e i tempi con cui si compie contraddittoriamente lunghi, visto che una delle conclusioni del rapporto di sintesi del GST è che “esiste una finestra che si sta rapidamente restringendo per alzare i livelli di ambizione e implementare gli impegni esistenti per limitare il riscaldamento a 1,5°C”.

Va anche ricordato che coordinare 196 Paesi, ovvero l’intera umanità, con tutte le sue diversità e sfaccettature, non è cosa semplice: la somma dei documenti da far rientrare nel GST arriva a contare 170.000 pagine.

Che piaccia o no, questo prevede l’accordo di Parigi, questo è il terreno comune che la rappresentanza della diversità umana alle Cop sul clima è riuscita a trovare. Un'alternativa che sostituisca questo pantagruelico procedimento a oggi non esiste. Siamo tutti sulla stessa barca e a Dubai si sta discutendo della direzione verso cui remare.

È la fase più politica, dicevamo, in cui i delegati si confrontano accesamente sulle terminologie da inserire nel documento finale. Quella più dibattuta riguarda l’abbandono o la riduzione graduale (phase-out o phase-down) dei combustibili fossili. Finora sono disponibili solo bozze e quella aggiornata al 5 dicembre presenta a ogni passaggio diverse opzioni e parentesi che rappresentano diversi punti di vista di diverse parti in causa. Per la conclusione dei lavori dovranno scomparire e confluire in un testo unitario che andrà approvato e adottato.

Ci si aspetta che verranno menzionati gli obiettivi di triplicare le rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030. I Paesi in via di sviluppo vorrebbero vedere maggiore ambizione sul fronte dell’adattamento e maggiori riferimenti a perdite e danni (loss and damage). Spingono anche affinché vengano espressamente inseriti riferimenti alle responsabilità storiche dei Paesi industrializzati. Di conseguenza, gli obiettivi di finanza climatica, definita in base a questo principio di giustizia climatica, dovrebbero venire calibrati sulle reali esigenze dei Paesi bisognosi e non riferiti a quote arbitrarie, come i 100 miliardi di dollari annui scelti nel 2009 alla Cop 15 di Copenhagen.

Il Sud del mondo vorrebbe anche mettere nero su bianco che i Paesi industrializzati hanno finora fallito nel rispettare i propri impegni climatici. I secondi invece sottolineano l’importanza di guardare avanti e spingono per una dicitura che “incoraggia i maggiori emettitori ad alzare fortemente le proprie ambizioni climatiche”.

Fino ad ora ogni esplicito riferimento all’abbandono dei combustibili fossili è stato sempre rigettato al momento dell’approvazione finale nelle precedenti Cop. Tuttavia, le pressioni che si sono generate attorno alla figura del presidente di quella in corso a Dubai, Sultan Al Jaber, hanno puntato un riflettore permanente sulla questione, che non può più essere nascosta sotto il tappeto.

Accettando anche il phase-out dei combustibili fossili, un escamotage cui i produttori di gas e petrolio potrebbero ricorrere è però l'inserimento del termine unabated: indicherebbe che andrebbero abbandonati solo i combustibili fossili le cui emissioni non sarebbero abbattute da sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS), tecnologia dietro cui le Oil & Gas si trincerano, ma che anche secondo il direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia Fatih Birol costituisce una falsa promessa.

“È inutile avere dibattiti infiniti su abbandono o riduzione graduale” ha affermato, tagliando corto, lo scienziato Johan Rockström, direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research in Germania. “Abbiamo bisogno di paragrafi che delineino percorsi tracciabili, specifici e basati sulla scienza per la riduzione delle emissioni nei decenni a venire”. Come a voler dire, le parole sono importanti, ma non sufficienti.

Nel frattempo a Dubai non ci si è messi d’accordo nemmeno su dove si terrà la Cop 29 dell’anno prossimo. Toccherebbe a un Paese dell’Est Europa, doveva essere Sofia in Bulgaria, ma Putin ha posto il veto perché non crede che un Paese dell’Unione Europea sarebbe imparziale nei confronti della Russia. Se non si dovesse trovare un’intesa la città designata a ospitare la prossima conferenza delle parti sul clima sarebbe Bonn, in Germania, dove ha sede l’Unfccc, ma la presidenza resterebbe per statuto quella della Cop in corso: quella emiratina di Sultan Al Jaber.

Quest’anno a Dubai erano 2.456 i delegati dell’industria dei combustibili fossili, un numero che è di oltre 4 volte superiore al record fissato l’anno scorso alla Cop 27 di Sharm el-Sheikh, dove erano poco più di 600. Chissà, se dovesse presiedere anche la prossima, se Al Jaber riuscirebbe a battere di nuovo il record stabilito quest’anno.

 

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