SOCIETÀ

Cop26 di Glasgow: le parole sono importanti, ma non sufficienti

Se le parole fossero azioni, quelle del Patto per il clima di Glasgow sottoscritto sabato 13 novembre da circa 200 Paesi servirebbero a limitare il riscaldamento globale a 1,8°C entro la fine del secolo. Purtroppo però nel tradursi in azioni le parole spesso smarriscono buona parte del proprio impeto e le politiche climatiche messe finora in atto da ciascun Paese non sono in grado di evitare un aumento della temperatura di almeno 2,7°C.

Questo dice la nota tecnica dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) diffusa nel corso della Cop26 e lo stesso si evince dall’analisi di Climate Action Tracker.

Sbilanciandosi verso un’interpretazione ottimistica, il direttore della IEA Fatih Birol ha commentato che gli annunci dell’India di voler raggiungere la neutralità climatica entro il 2070, gli accordi multilaterali siglati nei giorni scorsi su metano, deforestazione e carbone, nonostante siano stati giudicati da alcuni molto poco ambiziosi, così come l’accordo bilaterale tra Cina e Usa (di cui però non sono stati rivelati i dettagli) se messi in pratica serviranno a mantenere il pianeta al di sotto di +2°C.

Ma tra il dire e il fare, come si suol dire, c’è di mezzo un mare di volontà politica, interessi, mentalità, inerzie, finanziamenti, ricerca, sviluppo tecnologico e industriale, giustizia e ingiustizia sociale, ma soprattutto la sopravvivenza di interi popoli e culture. La sostanza della Cop26 appena conclusasi, o la sua insussistenza a seconda dei punti di vista, sta tutta qui: nella capacità, o meno, di colmare quella distanza tra parole e azioni.

A Glasgow, nelle ultime concitate ore di negoziazioni, protrattesi oltre il termine previsto di venerdì 12 novembre, i rappresentanti dei Paesi dell’Onu si sono confrontati, anche aspramente, in merito a quali parole mettere nero su bianco nel testo dell’accordo che sarebbe stato consegnato alla storia.

Proprio nel pieno di quelle discussioni, la Wolrd Meteorological Organization (la stessa che ha fatto nascere l’IPCC nel 1988 assieme all’UNEP) pubblicava un’infografica che dava una misura del peso che quelle parole avrebbero avuto.

A Glasgow, la differenza tra un pianeta più caldo di quasi 3°C rispetto all’era preindustriale e un pianeta che contiene questo riscaldamento entro il limite di 1,5°C giudicato accettabile dagli accordi di Parigi del 2015, si è giocata sulle sfumature linguistiche inserite nella versione finale del Patto per il clima.

Chi si aspettava accordi vincolanti che impongono drastiche e immediate riduzioni delle emissioni di gas serra prodotti principalmente dalle industrie dei combustibili fossili sarà rimasto deluso e avrà bollato le negoziazioni come un vuoto “bla bla bla”.

Intransigente, l’attivista Greta Thunberg ha commentato “La COP26 è finita. Ecco un breve riassunto: bla bla bla. Ma il vero lavoro continua fuori da queste sale. E non ci arrenderemo mai. Mai. A meno che non otteniamo immediate, drastiche e senza precedenti riduzioni annuali delle emissioni allora significa che stiamo fallendo nell’affrontare questa crisi climatica. ‘Piccoli passi nella giusta direzione’, ‘fare qualche progresso’, ‘vincere lentamente’ equivale a una sconfitta”.

Negli ultimi tre giorni, a partire dall’11 novembre, sono circolate tre diverse bozze del testo che hanno ricevuto graduali modifiche. Questi sono stati i principali temi, e i termini, più dibattuti.

Riduzione e non più eliminazione del carbone

Quando si pensava di aver raggiunto un accordo sulla versione definitiva, India e Cina hanno fatto pressioni per annacquare il passaggio relativo all’eliminazione del carbone, o meglio, del carbone le cui emissioni non vengono abbattute (unabated), ovvero catturate con sistemi cosiddetti di CCS (Carbon Capture and Storage), che in realtà devono ancora dimostrare la loro efficacia su scala industriale.

Al paragrafo 36, relativo al capitolo sulla mitigazione, il termine “phase out” che significa eliminazione è stato sostituito con il termine “phasedown” che significa riduzione graduale (phasedown of unabated coal power). Lo stesso rappresentante per il clima degli Stati Uniti John Kerry ha difeso il termine “non abbattute” (unabated), in quanto ha detto che le tecnologie per catturare le emissioni di anidride carbonica saranno disponibili in futuro.

Storicamente Nord America, Europa e Asia hanno contribuito ciascuno per circa il 30% delle emissioni accumulate in atmosfera negli ultimi 2 secoli e mezzo, dal 1750 a oggi. Il contributo storico dell’India si ferma al 3%. Un Paese come l’India allora, considerato in via di sviluppo, chiede di poter appunto sviluppare la propria economia e farlo attingendo a una fonte primaria di energia, il carbone, che nel 2020 rappresentava il 44% del suo mix energetico nazionale.

Già l’accordo multilaterale sottoscritto da una quarantina di stati sull’abbandono del carbone non aveva visto la partecipazione di Stati Uniti, Cina, India e Australia, i maggiori consumatori di carbone. A livello mondiale i combustibili fossili rappresentano ancora l’85% delle fonti primarie dell’energia che consumiamo: carbone 27%, petrolio 33%, gas naturale 24%.

Ciononostante, secondo Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace International, “è stato lanciato un segnale che l’era del carbone sta finendo. E questo è ciò che importa”.


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Sussidi ai combustibili fossili

Se l’assemblea di Glasgow non è riuscita a porre fine allo sfruttamento del carbone, il più inquinante dei combustibili fossili, le parole petrolio (oil) e gas naturale (natural gas) non sono nemmeno menzionate una volta nel testo del Patto per il clima. Una volta sola compare il termine combustibili fossili (fossil fuels), sempre nel paragrafo 36, appena dopo il phasedown riferito al carbone.

Questa volta si parla sì di phase-out, ma riferito ai sussidi finanziari dati ai combustibili fossili, e per di più solo quelli ritenuti inefficienti (phase-out of inefficient fossil fuels subsidies). Secondo quanto riporta in New York Times (citando un rapporto dell’Unep), il mondo spende ogni anno più di 400 miliardi di dollari in sussidi alla produzione di energia da combustibili fossili.

Finanza climatica

400 miliardi di dollari sono 4 volte i finanziamenti che dal 2009 i Paesi più ricchi hanno promesso di destinare ai Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico. Al paragrafo 44, relativo al capitolo sulla finanza, del Patto di Glasgow si legge: “si nota con profondo rammarico che l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 in favore dei Paesi in via di sviluppo, nel contesto di azioni di mitigazione e trasparenza nell’implementazione, non è stato ancora raggiunto”.

Nell’assemblea plenaria conclusiva più parti hanno sollecitato i Paesi “donatori” a rispettare l’impegno preso. Ma i rappresentanti dei Paesi a cui quei fondi sono destinati hanno ricordato quanto sia sbagliato utilizzare il termine “donatori”: i Paesi più ricchi devono “risarcire”, in quanto sono responsabili dei danni che il cambiamento climatico sta causando a quei Paesi che alle emissioni di gas serra hanno contribuito in minima parte (l’Africa per il 3% di tutte le emissioni accumulate finora) e che non dispongono delle infrastrutture per far fronte agli eventi meteorologici estremi (sia alluvioni, sia ondate di calore) che stanno già causando devastazioni e carestie. Il Madagascar ha proclamato la prima carestia climatica.

Il tema è quello della giustizia climatica, che nel lessico diplomatico delle negoziazioni si declina nei termini perdite e danni (loss and damage), quelli provocati dal cambiamento climatico ad intere popolazioni e culture. Il sesto capitolo del Patto di Glasgow riconosce l’urgenza del tema, ma non menziona fondi dedicati né specifiche strutture per gestirli.

Aggiornare le NDCs

Al paragrafo 28 e 29 del capitolo dedicato alla mitigazione, si spinge “con urgenza” i Paesi che non hanno ancora consegnato le proprie NDCs (Nationally Determined Contributions) a consegnarle al più presto e “si richiede” a tutti i Paesi di rafforzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 nei propri piani nazionali entro la fine del 2022. In altri termini si richiede ai Paesi di tradurre le parole pronunciate a Glasgow in azioni nei piani climatici nazionali. La speranza di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C entro fine secolo non è perduta: “il grado e mezzo è vivo, ma il suo battito è flebile” ha commentato il presidente della Cop26 Alok Sharma.

Articolo 6 del regolamento di Parigi

A Glasgow si sono discussi anche i dettagli tecnici dell’articolo 6 dell’accordo di Parigi, relativo alla gestione di un mercato globale che regolamenti le emissioni di ciascun Paese, tramite lo scambio dei cosiddetti crediti di carbonio introdotti per la prima volta con il Protocollo di Kyoto nel 1997. “Erano anni che si tentava di firmare un accordo” riporta unclimatesummit.org e quello firmato a Glasgow, nonostante sia un “compromesso che non passa a pieni voti il test di integrità”, introduce importanti regole di trasparenza per la rendicontazione tramite tabelle e format standardizzati, “che assicurano che entro il 2024 tutti quanti potranno valutare cosa gli altri Paesi stiano facendo”.

La palla passa ora all’Egitto, Paese del Sud del mondo organizzatore della Cop27. Le emissioni del 2021 sono aumentate di circa il 5% rispetto all’anno precedente, mentre entro il 2030 dovrebbero ridursi del 45% rispetto ai valori del 2010. L’ultimo rapporto dell’IPCC ha confermato che l’aumento della temperatura del pianeta è di 1,1°C rispetto all’era preindustriale ed è tutta responsabilità delle emissioni antropiche. L’anno prossimo sono attesi altri due rapporti dell’IPCC, uno dei quali sarà dedicato agli impatti del cambiamento climatico sulle società umane.

La finestra che abbiamo a disposizione per mantenerci all’interno dei limiti stabiliti si sta rapidamente chiudendo. Le negoziazioni sul clima tra i 200 Paesi dell’Onu da diversi anni a questa parte non sono state in grado di prendere decisioni altrettanto rapide. Ma è il multilateralismo, bellezza, è la democrazia, dicono.

Ma cosa succede se le tempistiche e i metodi attuali non dovessero risultare gli strumenti in grado di far fronte alla sfida epocale del cambiamento climatico? È troppo tardi per cambiare approccio? Per sostituirlo con cosa poi? Le domande e le perplessità aleggiano più delle risposte alla fine della Cop26 di Glasgow, che era attesa come un cruciale momento di svolta, un cambio di passo nella lotta al cambiamento climatico. Invece l’impressione che rimane è che al più si sia fatto qualche piccolo passo in avanti, ma, giunti a questo punto, troppo poco.

 

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