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Ultimi giorni per dimostrare che la Cop26 non è un fallimento

La Cop26, la conferenza delle parti sul cambiamento climatico iniziata a Glasgow lo scorso 31 ottobre, si avvia già verso la conclusione. Mentre all’interno delle sale riunioni ha fino ad ora prevalso l’ottimismo sulla capacità di contenere le emissioni e il riscaldamento globale entro metà secolo, dalle strade e dalle piazze di Glasgow i movimenti ambientalisti hanno denunciato la vaghezza delle dichiarazioni sottoscritte.

Il primo ministro indiano Narendra Modi ha dichiarato di voler arrivare a generare entro il 2030 il 50% dell’elettricità indiana da fonti rinnovabili e per la prima volta ha espresso la volontà di far raggiungere all’India la neutralità climatica. Purtroppo però ha fissato quest’obiettivo 20 anni più avanti di quanto non abbiano fatto Stati Uniti ed Europa, ovvero al 2070.

Secondo Fatih Birol, il direttore dell’agenzia internazionale dell’energia (IEA) intervenuto giovedì 4 novembre alla Cop26, le negoziazioni di Glasgow contribuiranno a limitare il riscaldamento globale di fine secolo entro 1,8°C. Solo una settimana prima, tuttavia, un rapporto del programma ambientale dell’Onu (Unep) aveva analizzato i singoli contributi nazionali per ridurre le emissioni consegnati da ciascun Paese e aveva calcolato che gli impegni presi non erano neanche lontanamente in linea con l’obiettivo di ridurre di metà le emissioni al 2030 e del tutto al 2050: alla vigilia della Cop26 il mondo correva sul binario che l’avrebbe portato a un aumento della temperatura globale di 2,7°C.


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La volontà espressa dall’India di voler raggiungere la neutralità climatica è certamente un elemento di novità importante, ma nonostante la IEA produca solitamente rapporti molto dettagliati, le parole del suo direttore pronunciate a Glasgow non sembrano ancora supportate da analisi quantitative che le giustifichino, hanno fatto notare diversi commentatori. “Non possiamo essere compiacenti, non possiamo festeggiare prima di aver portato a termine il lavoro” ha commentato Selwin Hart, assistente segretario generale dell’Onu per il cambiamento climatico.

La dichiarazione di Hart può valere non solo per le parole del direttore della IEA, ma anche per la serie di dichiarazioni che sono state firmate nel corso della prima settimana di assemblea e che sono volte ad affrontare alcuni temi chiave per la lotta al cambiamento climatico. Tra questi, limitare la deforestazione, eliminare il carbone, ridurre le emissioni di metano, supportare con finanziamenti adeguati i Paesi vulnerabili alla crisi climatica. Purtroppo la maggior parte di questi accordi non sono vincolanti e non assicurano il raggiungimento degli obiettivi sottoscritti. Inoltre Paesi come Stati Uniti, Cina e India non risultano tra i firmatari dell’accordo per l’uscita dal carbone, nonostante ne siano i maggiori consumatori mondiali.

Come ha ricordato anche Barack Obama nel suo intervento di lunedì 8 ottobre, sarà difficile contenere a 1,5°C il riscaldamento globale se tutti i Paesi, specialmente quelli del G20, non mostrano unità d’intenti. Il leader cinese Xi Jinping e quello russo Vladimir Putin a Glasgow non si sono nemmeno presentati.

Limitare la deforestazione

Una delle prime dichiarazioni sottoscritte da più di 100 Paesi rappresentanti l’85% degli ambienti forestali mondiali riguarda un accordo per limitare e invertire la deforestazione. 16,5 miliardi di euro tra fondi pubblici e privati sono previsti in tal senso. Tra i Paesi firmatari però c’è anche il Brasile di Jair Bolsonaro che da quando è al governo ha permesso che il disboscamento dell’Amazzonia aumentasse per favorire l’estrazione illegale di oro, oltre che per sostituire alla foresta colture agricole e allevamenti di bestiame. La dichiarazione contro la deforestazione sottoscritta a Glasgow è stata accolta con entusiasmo, ma “il diavolo sta nei dettagli” ha commentato per Il Bo Live Davide Pettenella. Ad esempio la definizione di deforestazione della Fao è molto lassa.


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Ridurre le emissioni di metano

Dopo l’anidride carbonica, il metano è il gas a effetto serra più presente in atmosfera, ma le sue capacità climaleteranti sono decine di volte superiori a quelle della CO2. Gran parte delle emissioni di metano incombusto che finiscono in atmosfera provengono dal settore dell’agricoltura, circa il 40%, dalle discariche circa il 20%, mentre dall’industria dei combustibili fossili deriva circa il 35%. A maggio di quest’anno un rapporto dell’Unep aveva mostrato queste ultime sono anche le più facili da contenere e ridurre. Il 60% delle emissioni di metano dell’industria energetica derivano da perdite di gas dagli impianti di estrazione e trasporto dell’energia: i cosiddetti leaks.

Il rapporto dell’Unep mostrava che una riduzione delle emissioni di metano del 45% entro il 2030 (un intervento alla portata delle tecnologie e dei mezzi attuali) risparmierebbe 0,3°C all’aumento del riscaldamento globale al 2040.

Già a settembre Europa e Stati Uniti si sono fatti promotori del global methane pledge, un impegno a ridurre almeno del 30% le emissioni di metano entro il 2030. La proposta è stata portata alla Cop26 di Glasgow e firmata da oltre 100 Paesi. Questa potrebbe essere la singola iniziativa con maggior impatto sul contenimento del riscaldamento globale, stimato in 0,2°C di risparmiato aumento delle temperature globali al 2050. Istituzioni finanziarie pubbliche e private si sono impegnate per mettere a disposizione quasi 300 milioni di euro per rendere operativa l’iniziativa. L’impegno sottoscritto è certamente lodevole e utile, ma di fatto resta molto vicino al minimo che si potesse fare. Per le aziende le fuoriuscite di metano in atmosfera sono una perdita di valore, avrebbero potuto intervenire prima per ridurle, ma la ragione per cui non l’hanno fatto, si legge in un rapporto della IEA di gennaio 2021, è che “le industrie del petrolio e del gas stanno facendo i conti con vincoli patrimoniali e prezzi del gas più bassi possono rendere l’abbattimento delle emissioni meno prioritario”.


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Eliminare il carbone

“La fine del carbone è in vista” ha detto il presidente della Cop26 Alok Sharma giovedì 4 novembre, la giornata dedicata all’energia, presentando l’accordo firmato da più di 40 Paesi per eliminare la dipendenza da carbone nella generazione di energia elettrica. Dismettere le centrali a carbone è centrale per il raggiungimento degli obiettivi climatici, ha sottolineato Svenja Schulze, ministro dell’ambiente tedesco. Aderiscono all’iniziativa 5 dei 20 maggiori Stati dipendenti dal carbone: Polonia (che genera il 70% della propria elettricità da carbone), Indonesia, Sud Corea, Vietnam e Ucraina.

Cina e India da sole consumano circa i due terzi del carbone mondiale: i due colossi però non hanno firmato l’intesa per l’uscita dal carbone. Non lo hanno fatto nemmeno gli Stati Uniti, che generano ancora il 20% della propria energia elettrica dal carbone. Joe Manchin, senatore democratico dello Stato della Virginia, ha bloccato gran parte del maxi provvedimento di Biden in favore degli investimenti green proprio perché il suo Stato è ancora in larghissima parte dipendente dal carbone. Tra i non firmatari c’è anche l’Australia, uno dei top-20 Paesi consumatori di carbone.

Una trentina di Paesi, tra cui Stati Uniti e Italia, hanno però sottoscritto un altro accordo volto eliminare a livello internazionale petrolio, gas e carbone le cui emissioni non sono “abbattute”, ovvero catturate e assorbite.

Finanza climatica

La Glasgow Financial Alliance for Net Zero che riunisce un’enorme fetta della finanza mondiale (450 tra banche, fonti ed enti) ha annunciato che serviranno 130.000 miliardi di dollari di investimenti per raggiungere gli obiettivi climatici del 2050. Un altro annuncio roboante, ma di concreto per questa Cop26 c’era l’impegno, già sottoscritto nel 2009 alla Cop15 di Copenhagen e ribadito alla Cop21 di Parigi nel 2015, di mettere a disposizione 100 miliardi di dollari per i Paesi in via di sviluppo e più vulnerabili alla crisi climatica.

Secondo quanto riporta Nature citando un rapporto sulla finanza climatica della Cop, tale obiettivo non sarà raggiunto prima di due anni e il 70% di questi finanziamenti saranno prestiti e non sussidi, che finiranno per accrescere il debito già accumulato dai Paesi più vulnerabili agli eventi meteorologici estremi, che pure hanno contributo in minima parte alle emissioni responsabili del cambiamento climatico.

Negli ultimi giorni le negoziazioni dovranno concludersi con accordi il più condivisi, concreti e dettagliati possibile nelle loro modalità di realizzazione. Oltre a garantire ai Paesi più vulnerabili un accesso semplice ed efficace ai fondi finanziari, e discutere i tempi di rinnovo delle NDCs, assumono sempre più rilievo le modalità e i meccanismi di mercato attraverso cui regolamentare (e far pagare) le emissioni di anidride carbonica: l’intento è quello di creare un mercato il più globale ed equo possibile per lo scambio dei cosiddetti crediti di carbonio, introdotti a Kyoto nel 1997 e regolati dall’articolo 6 dell’accordo di Parigi.

Dalle strade di Glasgow, Greta Thunberg, riferendosi a questa Cop26, ha già parlato di fallimento e di operazione di greenwashing da parte dei Paesi del Nord del mondo. La classe dirigente mondiale ha ancora pochi giorni per smentire l’attivista svedese e e tutti coloro che pretendono azioni molto più decise per contrastare il cambiamento climatico.

 

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