SOCIETÀ

Emissioni, temperature e impegni climatici: i dati alla vigilia della COP27

“Il grado e mezzo è vivo, ma il suo battito è flebile”. A novembre dell’anno scorso la Cop26 si era conclusa con queste parole del presidente della conferenza per il clima di Glasgow, Alok Sharma. L’accordo sulla riduzione delle emissioni di metano, quello sulla deforestazione, l’intesa a ridurre gradualmente (ma non eliminare) l’uso del carbone, tra gli altri, erano sì stati giudicati insufficienti, ma avevano fatto sperare che, se messi in pratica, il riscaldamento globale si sarebbe potuto mantenere al di sotto della soglia di sicurezza di +1,5°C rispetto all’era preindustriale.

Domenica 6 novembre inizierà a Sharm el-Sheikh, in Egitto, la 27esima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e, stando a una serie di rapporti pubblicati negli ultimi giorni, quel battito sembra ora destinato ad arrestarsi.

Da Glasgow le parti se n’erano andate stringendo un patto, il Patto Climatico di Glasgow, che tra le altre cose prevedeva di aggiornare le proprie NDCs (Nationally Determined Contributions), ovvero un documento in cui ciascun Paese delinea un piano, che si impegna a realizzare, per diminuire le proprie emissioni nazionali di gas serra che causano il riscaldamento globale.

Di 193 Paesi, solo 24 hanno trasmesso una nuova versione delle proprie NDCs dopo la conferenza di Glasgow. Rispetto a ottobre 2021, alla vigilia della Cop27 solo 39 Paesi hanno consegnato versioni aggiornate dei documenti. Non solo, le nuove versioni non sono minimamente sufficienti per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni stabiliti nel 2015 dagli accordi di Parigi.

Secondo i rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C, il mondo dovrebbe ridurre le proprie emissioni del 43%, rispetto al 2019, anno in cui le emissioni globali di origine antropica sono state 52,6 miliardi di tonnellate equivalente di CO2 (GtCO2eq).

Se si volesse restare al di sotto dell’aumento di 2°C, soglia oltre la quale i cambiamenti del clima avrebbero conseguenze catastrofiche su società ed ecosistemi, le emissioni globali al 2030 andrebbero ridotte del 27%.

La piena realizzazione (affatto scontata) di tutti gli impegni contenuti nelle NDCs oggi disponibili porterebbe al massimo a una riduzione delle emissioni del 3,6% entro il 2030, secondo il documento di sintesi preparato per la discussione alla Cop27 dall’UNFCCC (la convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). Altre stime meno ottimistiche dicono che le emissioni nel 2030 resteranno sostanzialmente invariate rispetto a quelle odierne, forse più basse dello 0,3% rispetto ai livelli del 2019.

Il documento sottolinea che questo risultato è già un passo avanti rispetto alla proiezioni degli impegni presentati un anno fa, i quali avrebbero portato a un aumento delle emissioni anche dopo il 2030. Ma si tratta davvero di una vittoria di Pirro.

Se si traducono le emissioni in gradi centigradi, ci si attende che a fine secolo la temperatura del pianeta sarà aumentata di circa 2,5°C, in un intervallo che va da 2,1°C a 2,9°C, che quindi sfora nettamente tutte le soglie fissate nel 2015 dagli accordi di Parigi.

“Nonostante qualche progresso rispetto alle versioni precedenti di questo rapporto” si legge nel documento, “le informazioni qui contenute implicano con urgente necessità o un aumento significativo del livello di ambizione delle NDCs da qui al 2030 o un significativo superamento degli obiettivi delle NDCs, o una combinazione delle due cose. (…) Se le emissioni non saranno ridotte entro il 2030, dovranno ancora più sostanzialmente venir ridotte più avanti”.

Un secondo rapporto dell’UNFCCC pubblicato sempre mercoledì 26 ottobre in preparazione alla COP27, analizza le strategie a lungo termine per la riduzione delle emissioni. Prende in esame gli impegni di 62 Paesi che rappresentano l’83% del PIL globale, il 47% della popolazione mondiale e il 69% dell’energia che viene consumata ogni anno.

Il rapporto indica che le emissioni di questi Paesi potrebbero diminuire entro il 2050 di circa il 68% rispetto ai livelli del 2019. Per quanto questa possa sembrare una buona notizia, viene anche sottolineato che molti di questi obiettivi rimangono incerti perché dipendono da decisioni che dovrebbero venire prese entro il 2030 e che finora non sono state prese.

Un terzo rapporto, questa volta del Programma Ambientale dell’Onu (l’UNEP), si intitola “La finestra che si sta chiudendo” e dice che le politiche attualmente in corso porteranno a 58 GtCO2eq le emissioni annue nel 2030, mentre la realizzazione degli impegni finora presentati porterà a una riduzione che sarà di 3 o 6 GtCO2eq. Così mancherebbero ancora 15 GtCO2eq per avere una probabilità del 66% di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C e 23 GtCO2eq per stare al di sotto di 1,5°C.

Se le cose rimarranno come sono adesso la temperatura del pianeta salirà di 2,8°C. Se si farà una parte o tutto quello che ad oggi si promette di fare il riscaldamento globale a fine secolo sarà comunque cresciuto di 2,6°C o 2,4°C rispetto all’era preindustriale. Con un mondo più caldo di 1,2°C un terzo del Pakistan quest’estate è già finito sott’acqua travolto dalle alluvioni.

Chi emette di più: una questione di giustizia climatica

I Paesi del G20 sono responsabili di circa i tre quarti delle emissioni annuali, mentre a 7 Paesi soltanto sono ascrivibili più della metà delle emissioni globali annuali: Cina (quasi 15 GtCO2eq), USA (quasi 6), India (circa 4), UE (quasi 4), Indonesia (2), Russia (2), Brasile (1,5).

Storicamente, dalla rivoluzione industriale in poi, sono state emesse circa 2500 GtCO2eq e ogni 1000 miliardi di tonnellate di CO2 accumulate in atmosfera corrispondono circa a 0,45°C di riscaldamento globale. Oggi il pianeta è più caldo di quasi 1,2°C rispetto a 200 anni fa.

Nord America, Europa e Asia sono responsabili di circa un terzo ciascuno delle emissioni storiche, mentre l’intero continente africano ha contribuito con meno del 3%. Eppure è una delle aree che più subisce le conseguenze di un clima che ha contribuito solo in minima parte a riscaldare.

Se si guarda invece alle emissioni procapite, oggi gli Stati Uniti sono in testa con quasi 15 tonnellate di CO2 equivalente emesse ogni anno da ogni suo abitante. Seconda la Russia a quasi 13 e terza la Cina a quasi 10. Ogni europeo ne emette circa 7, brasiliani e indonesiani 8. Un indiano poco più di 2.

Se a fine secolo volessimo stare al di sotto dei 2°C di riscaldamento globale le emissioni procapite dovrebbero arrivare nel 2050 a 2,2 tCO2eq, a 0,9 tCO2eq se volessimo stare sotto 1,5°C. Oggi la media mondiale supera le 6 tCO2eq ma la distribuzione è tutt’altro che equa: metà della popolazione mondiale ha 1,6 tCO2eq di emissioni procapite, contribuendo al 12% delle emissioni totali. L’1% più ricco ha emissioni procapite pari a 110 tCO2eq ed è da solo responsabile del 17% delle emissioni globali.

Un quarto rapporto da poco pubblicato dalla World Meteorological Organization mostra che le concentrazioni di gas climalteranti in atmosfera non sono mai state complessivamente così alte come adesso. Quelle di CO2 nel 2021 hanno raggiunto le 415,7 ppm (parti per milione), il metano è arrivato a 1908 parti per miliardo (ppb), l’ossido di diazoto è a 334 ppb.

“C’è preoccupazione riguardo al fatto che la capacità degli ecosistemi terrestri e degli oceani di assorbire la CO2 possa diminuire in futuro” si legge nel rapporto. Questo diminuirebbe anche la capacità di tamponare l’aumento delle temperature: “in alcune parti del mondo la transizione degli ecosistemi terrestri da assorbitori a emettitori di CO2 sta già avvenendo”.

La stragrande maggioranza della CO2 accumulata in atmosfera è figlia delle emissioni del settore energetico dominato dai combustibili fossili.

In questo scenario sconfortante, una nota di ottimismo viene dalla International Energy Agency (IEA), che ha pubblicato il suo World Energy Outlook in concomitanza con gli altri rapporti delle agenzie delle Nazioni Unite.

Nel 2022 le emissioni del settore energetico cresceranno, rispetto al 2021, solo di 0,3 GtCO2eq, molto meno di quanto sono cresciute l’anno precedente (circa 2 GtCO2eq). L’aumento di quest’anno equivale a circa l’1% di quanto di solito viene emesso dal settore energetico, che pesa per circa tre quarti (33,8 GtCO2eq) di tutte le emissioni globali.

Questo risultato è dovuto principalmente allo sviluppo record delle rinnovabili e dei veicoli elettrici, nonostante la guerra in Ucraina abbia fatto complessivamente consumare più carbone in sostituzione al gas russo. Il ricorso al carbone tuttavia sarebbe solo una soluzione temporanea, sostiene la IEA, mentre l’invasione russa dell’Ucraina ha fatto complessivamente accelerare la transizione verso fonti di energia rinnovabile.

Fotovoltaico ed eolico hanno rappresentato da soli i due terzi (66%) della nuova produzione di elettricità rinnovabile nel 2022, più di 700 TWh (nel 2020 aveveamo prodotto 7500 TWh di elettricità da rinnovabili), facendo risparmiare circa 0,6 GtCO2eq di emissioni.

Secondo quanto scrive la IEA una delle principali ragioni per cui quest’anno si è dovuto ricorrere a più carbone è stata la diminuzione di produzione elettrica dalle centrali nucleari, che hanno prodotto 80 TWh in meno. La maggior parte di questo calo è dipeso dai reattori francesi, oltre la metà dei quali si è dovuta fermare per buona parte dell’anno a causa di una serie di imprevisti che hanno richiesto costosi interventi di manutenzione.

L’incertezza nei mercati del gas naturale continuerà a modellare diversi trend energetici anche nel 2023, avverte la IEA. Tuttavia, “segnali promettenti di cambiamento nell’intensità carbonica del sistema energetico globale sono evidenti nel 2022 e sono in linea per essere rafforzati da notevoli investimenti governativi nelle energie pulite, in particolare l’Inflation Reduction Act statunitense, il pacchetto Fit For 55 dell’Unione Europea, il pacchetto Green Transformation del Giappone e gli obiettivi per le energie pulite di Cina e India”.

Queste misure porteranno l’investimento globale annuo nella transizione energetica a 2.000 miliardi di dollari nel 2030, quasi il doppio di quello attuale. Tuttavia, per essere in linea con il mantenimento del riscaldamento globale al di sotto dei 2°C tale investimento non è sufficiente: dovrebbe arrivare al doppio, a 4.000 miliardi di dollari all’anno nel 2030.

Occorrerà investire massicciamente nelle nuove filiere produttive delle fonti di energia rinnovabile, delle batterie (e dei minerali necessarie ad assemblarle), delle pompe di calore elettriche per il riscaldamento e dei veicoli elettrici per il trasporto, tutte basate sui principi dell’economia circolare.

Siamo vicini alla fine di un’era: entro il 2030 le rinnovabili supereranno le fonti fossili nella percentuale di generazione mondiale di energia elettrica e la domanda globale complessiva di combustibili fossili raggiungerà un picco, secondo le proiezioni della IEA, per poi iniziare progressivamente a scendere. “Il consumo globale di combustibili fossili è sempre cresciuto assieme al PIL mondiale fin dall’inizio della rivoluzione industriale nel 18esimo secolo” ricorda la IEA. Disaccoppiare questi trend “sarà un momento cruciale per la storia dell’energia”. Lavorare affinché questo accada è uno dei compiti in cima alla lista delle azioni che ci si attendono dalla COP27.

 

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