MONDO SALUTE

In Salute. Due gambe per Gertruda: quando la cura non è un diritto, ma una missione

“L'abbiamo incontrata per la prima volta all’inizio degli anni 2000 in Tanzania. Erano le nostre prime spedizioni da volontari. La piccola aveva un grave forma di varismo delle ginocchia che comportava una deformità sia a livello dell'anca, che a livello del ginocchio e delle caviglie. Aveva due gambe a parentesi con le quali non riusciva a stare in piedi, e nemmeno a camminare. Bisognava operarla attraverso delle osteotomie, cioè sezionare l'osso, romperlo, metterlo dritto e farlo guarire in una posizione migliore. Ci siamo organizzati a staffetta: un primo gruppo ha eseguito l'intervento all'anca; un altro gruppo in una spedizione successiva, dopo aver controllato gli esiti del primo intervento, ha effettuato quello al ginocchio; poi alla caviglia e infine al secondo arto. In un anno e mezzo di lavoro abbiamo regalato a Gertruda due gambe nuove con le quali affrontare la vita”. 

Nonostante sia trascorso molto tempo, il ricordo di quell’esperienza è ancora vivo nella mente di Cesare Faldini, presidente dell’organizzazione di volontariato Ortopedici.org e direttore della clinica ortopedica e traumatologica I dell’istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. Dopo una prima esperienza in Perù da studente, ormai da più di vent’anni si sposta in Africa per curare gravi problemi ortopedici, insieme ad altri volontari e volontarie dell’associazione che lavorano nel campo dell’ortopedia, della chirurgia, della riabilitazione, dell’infermieristica.  

Quando l’assistenza sanitaria è un lusso per pochi

La sanità, così come la conosciamo nel mondo occidentale, in particolare in Europa, è un lusso che i Paesi in via di sviluppo non si possono permettere. Noi siamo abituati a pensare che di fronte a un problema di salute si può andare in ospedale e ricevere cure gratuite, grazie al sistema sanitario nazionale che finanzia l’assistenza. Negli Stati più poveri invece ci sono per lo più ospedali privati che operano tramite sistemi assicurativi, e a cui riescono ad accedere tipicamente solo le persone benestanti. Poche dunque. Per la fascia medio-bassa della popolazione le cure risultano molto costose. In questo contesto è complicato per una famiglia che ha un bimbo o una bimba con una deformità poter pagare i trattamenti necessari”.  

Faldini sottolinea che oltre alle professionalità, servono anche mezzi di sintesi come viti, placche, chiodi, fili metallici. Questo materiale viene prodotto in Europa in un mercato globale, e quindi ha un prezzo competitivo, ma molto superiore al potere d’acquisto di gran parte della popolazione dei Paesi a basso reddito. “Si consideri il caso di un bambino che necessiti di un intervento di osteotomia o di protesi: in Italia il sistema sanitario sostiene i costi per ogni paziente operato, nei Paesi in via di sviluppo invece la spesa può corrispondere anche a due anni di stipendio solo per l’impianto. Poi ci sono i costi dell’intervento”.

L’ortopedico spiega dunque che è fondamentale riuscire ad abbattere i costi delle cure e a fornire la strumentazione utile a costo zero, per rendere l’assistenza sanitaria fruibile anche alla fetta della popolazione che si colloca sotto la soglia del benessere. Ed è altrettanto importante trasferire competenze al personale sanitario locale. Con questi intenti lavora l’organizzazione Ortopedici.org, una delle associazioni attive nel campo dell’ortopedia a livello nazionale.  

Intervista completa a Cesare Faldini, presidente di Ortopedici.org. Servizio e montaggio di Monica Panetto. Video delle spedizioni in Africa di Emanuele Di Luccio, Ortopedici.org

Le prime missioni in Tanzania

“Siamo partiti con due valigie cariche di un po' di materiale di sala operatoria sfuso, perché non sapevamo cosa ci aspettasse – racconta Faldini –. Abbiamo trovato un piccolo ospedale popolato di bambini e bambine con problemi motori che non riuscivano a stare in piedi, curati da fisioterapiste senza competenze chirurgiche. C’era chi aveva il piede torto, chi l'anca displasica, chi ancora il ginocchio varo, cioè tutte deformità nell'ambito dell'ortopedia. Abbiamo lavorato per 20 giorni a far funzionare la sala operatoria per collegare e testare tutti gli strumenti e alla fine eseguimmo anche qualche intervento”. 

Erano i primi anni duemila. Faldini partiva per la Tanzania con il padre Alessandro, allora direttore della clinica ortopedica di Pisa. Alle spalle, ancora studente, aveva un’esperienza di volontariato nel nord del Perù nell’ambito di una campagna anticolera. Molti anni prima il nonno, Giulio Faldini, era emigrato proprio in quel Paese a causa delle leggi razziali e lì aveva progettato ed equipaggiato il servizio di ortopedia e traumatologia dell’Hospital Obrero di Lima, di cui poi era diventato primario. 

Nel 2001 in Tanzania ai Faldini si unì anche Francesco Traina, oggi direttore della struttura complessa di Ortopedia-traumatologia e chirurgia protesica e dei reimpianti d'anca e di ginocchio dell’Istituto Rizzoli, e via via il gruppo iniziò a infoltirsi. Da allora fino al 2017, anno in cui vennero sospesi i viaggi in quell’area, furono effettuate due o tre spedizioni ogni dodici mesi, per un totale di 80-100 interventi all’anno. Il gruppo ha aderito anche a progetti in altri Paesi, come quello in Eritrea in collaborazione con l’associazione Annulliamo la distanza

In Camerun, al lavoro insieme al personale locale

Oggi l’associazione Ortopedici.org è attiva in Camerun. Venantius Motsu, chirurgo generale e direttore del St. Alessandro University Institute and Hospital di Doual, ha affiancato il gruppo italiano fin dal suo arrivo, acquisendo in questo modo le competenze necessarie per affrontare alcuni interventi ortopedici in autonomia. 

Chi presenta una situazione più complessa viene riconvocato nei periodi in cui Faldini e il resto del team sono presenti sul posto. Durante la loro permanenza, volontari e volontarie lavorano insieme al personale locale: qualsiasi tipo di procedura infermieristica, riabilitativa, chirurgica viene eseguita a quattro mani, dunque da camerunensi e italiani. In questo modo si garantisce che l’assistenza sanitaria possa proseguire anche in momenti successivi. A seconda delle necessità, si prescrivono cure, tutori e nei casi più gravi si pianifica un intervento chirurgico: l’operazione viene svolta nel corso della spedizione stessa o rimandata a quella successiva, se emerge la necessità di strumentazione particolare che viene così acquistata e spedita dall’Italia.

Oltre a portare la propria professionalità, ogni anno l’associazione invia in quelle zone due container con il materiale che può risultare utile durante le attività di cura, come bende gessate, teleria sterile, mezzi di sintesi, suture, comprato con le campagne di raccolta fondi ma non solo. “Quando un ospedale cambia le attrezzature – spiega Faldini –, e alcune di queste sono ancora in buone condizioni e recuperabili, le andiamo a prendere e le portiamo nel nostro magazzino a Pianoro”. Può trattarsi di tavoli operatori, strumenti chirurgici, apparecchi di radiologia, sterilizzatrici, generatori di corrente. “In seguito facciamo intervenire i tecnici per il collaudo e spediamo la strumentazione in Africa”. Proprio recentemente l’ospedale Villa Erbosa di Bologna ha fatto una donazione di macchinari e apparecchiature sanitarie. 

“Di molti bambini e bambine operati non abbiamo più notizie – osserva l’ortopedico –, altri invece tornano a trovarci per sottoporsi a dei controlli e ci raccontano di loro, altri ancora vivono con deformità residue e dunque continuano ad avere bisogno di assistenza: gli interventi migliorano la loro qualità di vita, ma molte volte il problema non viene completamente risolto e dunque il nostro supporto continua a essere necessario”. 

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