Obesità tra cura e stigma: quanto influisce la narrazione?
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Lo scorso ottobre il nostro Paese ha approvato una legge che riconosce l’obesità come malattia cronica e istituisce un programma nazionale per la prevenzione, la cura e l’inclusione sociale di chi ne soffre. A poco tempo di distanza, il primo dicembre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) pubblica le prime linee guida per l’uso dei farmaci analoghi di GLP-1 come opzione terapeutica.
Già nel 1948 l’OMS riconosceva l’obesità come patologia – dunque non solo come fattore di rischio – e più recentemente diverse società mediche e vari Paesi. Nonostante ciò, oggi non tutti convergono su questa posizione: i sostenitori ritengono che riconoscere un’entità patologica autonoma possa migliorare l’accesso alle cure e contribuire a ridurre lo stigma; i critici invece temono il rischio di sminuire la responsabilità individuale e osservano soprattutto che l’obesità è una condizione molto eterogenea e che molte persone con eccesso di adiposità non presentano alcun segno di malattia. Il dibattito interseca evidentemente più piani, da quello clinico, a quello culturale a quello socioeconomico.
In questi giorni tra i molti interventi a cui abbiamo assistito al convegno nazionale di comunicazione della scienza della Sissa di Trieste, uno in particolare ha affrontato questo tema: Anna Rita Longo, docente e divulgatrice scientifica, e Roberta Villa, medica e scrittrice, con la moderazione di Anna D’Errico, si sono confrontate su Obesità tra cura e stigma: quanto influisce la narrazione? Con Roberta Villa, che discute di questo tema in un capitolo del suo ultimo libro Cattiva prevenzione (Chiarelettere 2025), abbiamo approfondito l’argomento anche nel corso di un’intervista condotta qualche giorno prima.
Canoni estetici, fattori socioeconomici e discriminazione
Ci sono innanzitutto due piani che è importante distinguere: uno è il piano culturale ed estetico, l’altro è quello della salute. Villa osserva che lo stigma nei confronti delle persone con obesità affonda le sue radici nel Novecento, quando i canoni estetici iniziano a cambiare, soprattutto nel campo della moda. “Vanno considerati poi anche i fattori socioeconomici che via via hanno contribuito a connotare negativamente il concetto di sovrappeso e obesità. Le persone più benestanti, che possono permettersi di riservare maggiore attenzione alla propria salute, tendono a essere più magre. Viceversa, l’obesità è diventata un segno più caratteristico delle fasce socioeconomiche fragili. La malnutrizione oggi non si manifesta tanto in termini di carenza calorica, ma di carenza di qualità delle calorie assunte. Naturalmente, con le eccezioni del caso”.
Sulla stessa linea, Anna Rita Longo osserva che non si diventa grassi per scelta individuale: il peso corporeo è profondamente segnato dai determinanti sociali della salute. Appartenere a una classe sociale svantaggiata significa avere meno tempo, meno risorse e meno accesso a cibi sani, e questo aumenta in modo significativo la probabilità di sviluppare obesità. Eppure, secondo Longo, si continua a leggere l’obesità come una responsabilità esclusivamente personale: uno stigma che finisce per essere espressione di classismo, proprio perché vengono ignorate disuguaglianze di tipo strutturale.
La studiosa invita anche a uno sguardo intersezionale, cioè a considerare che lo stigma nei confronti di persone con problemi di obesità non colpisce tutti allo stesso modo – si pensi per esempio a uomini o donne di pelle bianca o nera – perché il pregiudizio si somma ad altre forme di discriminazione preesistenti, come quelle di origine etnico-culturale o economiche. Il “peso” del giudizio cambia, dunque, in base alla posizione sociale di partenza: chi appartiene a un gruppo meno marginalizzato può contare su una sorta di tutela sociale che attenua lo stigma.
Ebbene nel dibattito pubblico, come si è detto, c’è chi ritiene che definire l’obesità una malattia possa sottrarre le persone che ne soffrono ai forti pregiudizi che minano l’autostima, le relazioni e talora la carriera.
L’arrivo dei farmaci analoghi di GLP-1
Se questo è il contesto, ciò che è cambiato negli ultimi anni, secondo Villa, è la possibilità di trattare l’obesità in un modo che non si era mai visto prima, con la chirurgia bariatrica ma soprattutto con i farmaci analoghi di GLP-1. La Food and Drug Administration e l’European Medicine Agency, approvano la liraglutide rispettivamente nel 2014 e nel 2015. Negli ultimi anni gli studi si sono concentrati sulla semaglutide e sulla tirzepatide, molecole che risultano avere maggiore efficacia.
Villa osserva che prima di allora, sul piano sociale e mediatico, l’obesità non veniva trattata come una malattia, solo negli ultimi tempi il racconto pubblico si è spostato sempre più verso la medicalizzazione. “La definizione di obesità come malattia – scrive anche nel suo ultimo libro Cattiva prevenzione – è stata fortemente alimentata a suo tempo dal boom della chirurgia bariatrica”. E ciò in particolare negli Stati Uniti: se una condizione non viene riconosciuta come patologica, le assicurazioni non pagano. “Questa linea si è accentuata con l’introduzione sul mercato dei GLP-1: si è cominciato a parlare di obesità in un modo molto insistente, mentre prima non c’era questo tipo di narrazione”. E, secondo Anna Rita Longo, la possibilità di acquistare e assumere semaglutide diventa via via nel tempo una sorta di status symbol, un indicatore di vantaggio sociale.
Villa osserva che le aziende produttrici di questi farmaci hanno adottato una comunicazione sempre più aggressiva sul piano emotivo. “Nel nostro Paese non potendo fare pubblicità diretta ai farmaci con obbligo di prescrizione (come avviene invece negli Stati Uniti) agiscono in modo più sottile, alternando campagne televisive cariche di messaggi che fanno leva sulla vulnerabilità delle persone. Parallelamente, spingono molto sulla divulgazione scientifica e sul dibattito politico, affinché l’obesità venga riconosciuta a tutti gli effetti come una malattia cronica”.
Prima che la comunicazione delle aziende diventasse così martellante e pervasiva, il discorso pubblico sull’obesità era dunque molto diverso: “Circolavano inviti a mangiare meglio e muoversi di più, ma l’obesità non veniva quasi mai raccontata come una malattia a tutti gli effetti”. Era considerato un tema inerente gli stili di vita, più che un problema da medicalizzare.
L’obesità come malattia cronica, la legge italiana
Come abbiamo anticipato, la legge italiana definisce l’obesità come una malattia cronica, progressiva e recidivante, ma in proposito Roberta Villa sottolinea: “Le principali società scientifiche definiscono l’obesità come una malattia cronica e recidivante, cioè caratterizzata dalla possibilità di riprendere peso: un concetto condivisibile. La legge italiana, però, aggiunge l’aggettivo progressiva, che rimanda a patologie come Alzheimer e sclerosi multipla, di cui cioè si può rallentare l’evoluzione, ma che non possono essere guarite. Applicarlo all’obesità è scientificamente scorretto, perché molte persone obese dimagriscono e mantengono nel tempo il peso raggiunto. Inoltre suggerisce, implicitamente, che senza farmaci non sia possibile dimagrire, mentre l’esperienza ci dice il contrario. È umiliante per la persona, depotenziante. È un messaggio che, invece di ridurre lo stigma, rischia di amplificarlo”.
Continua: “Molte persone riescono a dimagrire, per esempio, con l’aiuto della psicoterapia, di un bravo nutrizionista”. Ovviamente, poi, dipende dai casi. Viviamo in un ambiente obesogeno, secondo Villa, che favorisce cioè l’aumento di peso attraverso una serie di fattori come la sedentarietà, legata alla scarsa attività fisica, o a un tipo di alimentazione poco salutare su cui spinge anche molta pubblicità. Ebbene, servirebbe intervenire anche su questi aspetti: “Si dovrebbero ristabilire abitudini alimentari più corrette; aiutare le persone, quando serve, anche con un sostegno psicoterapico; diffondere le linee guida. Ancora, prevedere più spazi verdi in città significa avere più possibilità di uscire e muoversi. In questo modo andiamo ad agire non solo sul sovrappeso, ma anche sulla salute mentale e sul benessere complessivo”.
Secondo Villa dunque la soluzione contro lo stigma non è la medicalizzazione. E porta l’esempio dell’AIDS: in questo caso parlare di malattia non ha eliminato il pregiudizio, al contrario è stata fatta una battaglia culturale per definire le persone “portatrici di HIV” o sieropositive proprio per ridurre le discriminazioni.
Una nuova definizione di obesità
Il concetto di obesità come malattia è stato oggetto di revisione da parte delle società scientifiche negli ultimi anni. Fino ad oggi per stabilire se una persona è obesa è stato utilizzato l’indice di massa corporea (Body Mass Index, BMI): lo stesso valore può appartenere a un soggetto con eccesso di grasso addominale, pericoloso per la salute cardiovascolare, o a un giocatore di rugby in perfetta forma in cui il “peso” in eccesso è dovuto alla massa muscolare. Le attuali misure dell’obesità basate sul BMI possono dunque sia sottostimare che sovrastimare l’adiposità e non forniscono informazioni sufficienti sullo stato di salute individuale. Durante la nostra conversazione, Roberta Villa cita in proposito due studi, pubblicati entrambi nel 2025.
Il primo, uscito su The Lancet Diabetes & Endocrinology, introduce una definizione più precisa e articolata di obesità e nuovi criteri per la diagnosi, a cui ha lavorato una commissione internazionale composta da 58 esperti di diverse specialità mediche. La commissione descrive l’obesità come “una condizione caratterizzata da eccesso di adiposità, con o senza distribuzione o funzione anomala del tessuto adiposo, e con cause multifattoriali e ancora non completamente comprese”.
Gli studiosi distinguono poi tra obesità clinica e preclinica: “Definiamo l’obesità clinica come una malattia cronica e sistemica caratterizzata da alterazioni della funzione dei tessuti, degli organi, dell’intero individuo, o una combinazione di questi elementi, dovute all’eccesso di adiposità. L’obesità clinica può causare gravi danni d’organo, generando complicazioni che alterano profondamente la vita e potenzialmente la mettono a rischio (ad esempio infarto, ictus e insufficienza renale)”.
E aggiungono: “Definiamo l’obesità preclinica come uno stato di eccesso di adiposità con funzione preservata degli altri tessuti e organi e un rischio variabile, ma generalmente aumentato, di sviluppare obesità clinica e diverse altre malattie non trasmissibili (ad esempio diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari, alcuni tipi di cancro e disturbi mentali)”. La nuova definizione richiede dunque l'identificazione dell'eccesso di adiposità, che ora però non è più determinato solamente dal BMI (a meno che non superi i 40 kg/m²), ma anche da altre misurazioni corporee elevate (per esempio, circonferenza della vita o rapporto vita-fianchi).
Il secondo studio citato da Roberta Villa dimostra, invece, che la nuova definizione aumenterebbe in modo significativo la prevalenza dell’obesità.
Partire dai casi più gravi, senza costi a carico del paziente
A fronte di questi risultati Villa avanza qualche considerazione, partendo dal presupposto che nessun sistema sanitario può farsi carico di tutte le persone con obesità e sovrappeso, considerando soprattutto l’aspetto economico. Anche perché, secondo la divulgatrice, non tutti sono da considerare necessariamente malati. “Dal mio punto di vista la commissione Lancet propone un approccio corretto, anche in termini di priorità delle risorse. Prima di tutto, bisogna concentrarsi sui casi più gravi: le persone che avrebbero bisogno di un intervento, ma che magari non è possibile eseguire nell’immediato, o per le quali è da preferire un trattamento farmacologico. A queste persone il farmaco andrebbe garantito dal Servizio Sanitario Nazionale, senza costi a loro carico. In situazioni così severe, penso che questi farmaci potrebbero davvero fare la differenza. Solo in un secondo momento, e solo se disponiamo di risorse adeguate, senza sottrarle ad altri settori fondamentali, possiamo pensare di estendere il trattamento anche a persone con un’obesità meno estrema, ma che comporta comunque complicazioni importanti, come ipertensione, colesterolo alto e così via”. Secondo Roberta Villa, però, è fondamentale anche insistere sul cambiamento degli stili di vita.