SOCIETÀ

Cosa significa decolonizzare la comunicazione della scienza?

“Oggi c’è ancora chi si chiede che senso abbia parlare di colonialismo in un mondo in cui le colonie non esistono più. Ebbene, il colonialismo sarà anche finito, ma la mentalità coloniale è viva e vegeta e si riproduce attraverso il dominio di una parte del mondo su un’altra, per sfruttarne la forza lavoro, le risorse naturali, il territorio”.

Con queste parole Yurij Castelfranchi – fisico, giornalista scientifico e sociologo all’Università Federale di Minas Gerais, in Brasile – anticipa alcuni degli argomenti che saranno al centro del suo intervento dal titolo: È possibile decolonizzare la comunicazione della scienza? Modelli, esperimenti e prospettive dal Sud Globale, in programma per martedì 2 dicembre al Convegno nazionale di comunicazione della scienza della Sissa di Trieste.

“La mentalità coloniale influenza non solo il modo in cui pensiamo, comunichiamo, educhiamo e legiferiamo, ma anche l’attività scientifica”, racconta Castelfranchi a Il Bo Live. “Ciò avviene, in particolare, quando l’Occidente considera le persone che abitano nel Sud globale come oggetti da studiare o sfruttare, e non come soggetti in grado di produrre conoscenza.
Queste convinzioni si manifestano anche attraverso l’idea – diffusa anche all’interno della comunità scientifica – che ciò che accade in Europa e Nord America sia naturale, neutrale, equo e giusto per ogni persona, mentre ciò che riguarda il resto del mondo viene considerato locale, folkloristico, esotico, irrazionale o sottosviluppato.

Lo stesso vale anche per il sapere scientifico, che viene prodotto e diffuso all’interno di un sistema che giudica neutrali e universali i risultati raccolti dagli studiosi occidentali, considerando invece i dati provenienti dal resto del mondo come una “deviazione” dalla norma. Ciò accade in particolare in ambito medico, in cui la maggior parte dei trial clinici coinvolge solo persone bianche occidentali; eppure, i valori tratti da questi studi vengono utilizzati come parametri standard sulla base dei quali si valutano diagnosi, rischi e condizioni cliniche di persone appartenenti a ogni etnia e provenienza”.

L’abitudine di spacciare per universale un dato parziale ostacola il processo diagnostico dei pazienti appartenenti alle popolazioni sottorappresentate dai dati in questione. “Può accadere, per esempio, che a una donna brasiliana incinta venga detto che la sua gravidanza è a rischio perché gli esami del sangue risultano “fuori scala”, quando in realtà quei valori sono stati confrontati con parametri elaborati negli anni Settanta su un campione limitato di poche decine di donne bianche inglesi”, spiega Castelfranchi.


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“Inevitabilmente, quindi, anche la comunicazione della scienza tende – in maniera più o meno esplicita e cosciente – a riprodurre questa mentalità coloniale, raccontando la scienza dei Paesi occidentali come qualitativamente neutrale e assoluta, quasi come se provenisse da “menti senza corpi”, al contrario di quella prodotta da ricercatori e ricercatrici del Sud Globale”, continua il ricercatore.

Il giornalismo e l’editoria scientifica fanno inoltre parte di un sistema che svantaggia la ricerca prodotta nei Paesi non occidentali non solo dal punto di vista qualitativo, ma anche quantitativo. “Nella divulgazione scientifica c’è un problema strutturale: la quasi totale invisibilità della scienza proveniente dai Paesi del Sud del mondo”, osserva Castelfranchi. “I lavori condotti da studiosi del Sud globale, infatti, vengono pubblicati raramente sulle riviste scientifiche più prestigiose, che solitamente vantano un alto fattore di impatto (un indicatore bibliometrico che misura quanto spesso gli articoli di una rivista vengono citati da altri ricercatori, influenzandone quindi l’autorevolezza e la visibilità, ndr). Un esempio concreto? Ho imparato che quando propongo un articolo a una rivista scientifica ho molte più probabilità di vederlo accettato se mi presento come fisico laureato a Roma, piuttosto che come sociologo dell’Università di Minas Gerais”.

Di conseguenza, la scienza prodotta nel Sud del mondo non ottiene, neppure nel giornalismo scientifico internazionale, la stessa risonanza di quella condotta da ricercatori europei o nordamericani, che hanno molte più probabilità di finire nelle prime pagine di grandi testate come il New York Times. Questo squilibrio, puntualizza Castelfranchi, “non dipende semplicemente da pregiudizi individuali o da forme di razzismo interiorizzato, ma da un intero sistema che considera una ricerca svolta in un’università del Sud globale come intrinsecamente meno rilevante rispetto a una condotta in un’accademia europea o nordamericana, escludendola quasi automaticamente”.


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Secondo Castelfranchi, la consapevolezza di questi problemi sta crescendo soprattutto nelle comunità scientifiche del Sud globale, che in molti casi si stanno mobilitando per ottenere riconoscimento e giustizia. “Pensiamo, per esempio, alle battaglie di diversi popoli indigeni sudamericani per ottenere la restituzione di fossili e reperti archeologici di enorme valore, sottratti in maniera illegittima dai loro territori da parte dei colonizzatori europei e oggi conservati nei musei occidentali, che spesso si rifiutano di renderli, senza che le comunità d’origine traggano alcun beneficio dalla loro esposizione”, spiega il ricercatore. “Nonostante ciò, molte di queste iniziative per la decolonizzazione della scienza e della divulgazione continuano a ricevere scarsa attenzione nei media scientifici occidentali, in cui c’è pochissima analisi critica del sistema coloniale che ancora oggi condiziona la produzione e la circolazione del sapere.

Eppure, giornalisti e divulgatori non sono semplici “megafoni” della scienza: sono gatekeeper, ovvero coloro che aprono e chiudono i cancelli della conoscenza, con il potere di decidere quali storie diventano notizia, oltre che cani da guardia della società, con il compito di raccontare la scienza mettendone in luce limiti e criticità.
Per questo, chi comunica la scienza dovrebbe riconoscere questo “punto cieco” morale ed epistemologico e impegnarsi a rivedere le relazioni di potere che attraversano scienza, giornalismo e divulgazione”.

Infatti, non solo la scienza del Sud del mondo è spesso invisibile, ma lo sono anche i suoi protagonisti. “Molte scoperte e innovazioni nate in Sudamerica, in Africa o in Medio Oriente sono state ignorate per decenni, per poi essere celebrate come rivoluzionarie quando annunciate tempo dopo da ricercatori europei o statunitensi”, continua Castelfranchi. “Inoltre, quando pensiamo ai più famosi divulgatori della nostra epoca, ci vengono in mente David Attenborough, Carl Sagan e altri ‘grandi saggi bianchi” che consideriamo gli unici legittimi portatori di conoscenza, ma raramente interpelliamo intellettuali non bianchi, indigeni o non europei quando siamo alla ricerca di pareri autorevoli”.

Oltre a coinvolgere nel dibattito scientifico internazionale anche esperti ed esperte del Sud globale, Castelfranchi sottolinea la necessità di includere anche le comunità locali nei processi di produzione e divulgazione scientifica, senza trattarle come oggetti da studiare e riconoscendole in quanto soggetti produttori di sapere.

Con questo principio sono stati condotti diversi studi nati dalla collaborazione alla pari tra intellettuali occidentali e indigeni e membri delle comunità amazzoniche, che sono riusciti a valorizzare sia le conoscenze provenienti dalle università e dagli istituti di ricerca, sia i cosiddetti saperi non esperti, come le conoscenze tradizionali delle comunità locali, promuovendo non un’idea di scienza da “portare” agli abitanti dell’Amazzonia, ma da raccogliere assieme a loro.

Un esempio, in questo senso, riguarda un progetto di ricerca sulla disinformazione sanitaria – in particolare riguardo ai vaccini e ai temi di salute mentale – tra i membri di alcuni gruppi indigeni dell’Amazzonia. Il lavoro - attualmente in corso - è coordinato da Luisa Massarani, nota divulgatrice scientifica latinoamericana, e Dzoodzo Baniwa, scienziato e leader del popolo Baniwa. “I due responsabili del progetto hanno definito insieme la metodologia di ricerca, dalla raccolta dei dati alla loro analisi”, racconta Castelfranchi. “Anche le azioni da intraprendere per il contrasto alla disinformazione sulla base dei dati raccolti vengono decise assieme ai membri delle comunità indigene coinvolte, tenendo conto delle loro conoscenze e delle evidenze mediche e scientifiche disponibili”.

Il ricercatore cita anche un altro studio, pubblicato nel 2008 a firma di autori occidentali e di intellettuali indigeni. “I risultati hanno smentito un’ipotesi diffusa da generazioni tra gli archeologi e i paleontologi che avevano lavorato in Amazzonia, secondo la quale le condizioni della foresta avrebbero reso impossibile la nascita di insediamenti stabili strutturati”, racconta Castelfranchi. “Secondo queste teorie, il suolo amazzonico era inadatto ad essere coltivato e avrebbe impedito quindi lo sviluppo dell’agricoltura, costringendo gli abitanti a mantenere uno stile di vita nomade, basato esclusivamente sulla caccia e sulla raccolta.

Il lavoro in questione ha ribaltato questa visione a partire dallo studio di alcuni resti di mura rinvenute in Amazzonia. Gli autori della ricerca hanno dimostrato l’esistenza di importanti insediamenti urbani in questa regione, poi abbandonati dopo l’arrivo dei colonizzatori. Hanno scoperto, anche, che gli antichi abitanti dell’area avevano progettato sofisticate tecniche di compostaggio per rendere il suolo adatto alla coltivazione”.

Gli esempi citati da Castelfranchi mostrano non solo che i lavori basati sulla collaborazione tra figure diverse permettono di ottenere risultati molto più interessanti e completi rispetto a quelli condotti da gruppi di ricerca solo occidentali, ma anche che è possibile “rendere la divulgazione scientifica un mezzo di appropriazione sociale della conoscenza, basata non sulla trasmissione verticale di nozioni dagli “esperti” a un pubblico considerato ignorante, bensì su una collaborazione paritaria che valorizza sia il sapere scientifico, sia altre forme di conoscenza”,  conclude il ricercatore.

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