SOCIETÀ

Clima, i problemi irrisolti del fondo loss and damage

Secondo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) circa 3,6 miliardi di persone, quasi la metà della popolazione globale, sono altamente vulnerabili agli effetti dei disastri climatici. Lo scorso novembre alla Cop 28 di Dubai è stata approvata la nascita del fondo loss and damage, che dovrebbe risarcire (almeno in parte) i danni causati sia dalle conseguenze immediate di eventi meteorologici estremi come precipitazioni intense, sia quelle più a lungo termine come l’innalzamento del livello dei mari.

Il fondo si somma ad altri già esistenti, come il Green Climate Fund e l’Adaptation Fund dedicati a misure di mitigazione e adattamento, ma da questi si differenzia per il marcato principio di giustizia climatica che dovrebbe caratterizzarlo: i Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico sono spesso quelli che hanno contribuito meno alle emissioni che riscaldano il pianeta, eppure sono quelli che ne subiscono le più gravi conseguenze. I Paesi industrializzati e più emissivi sono dunque tenuti a finanziare il fondo e risarcire i danni e le perdite che più o meno indirettamente hanno causato, magari in regioni dall’altra parte del mondo.

La nascita del fondo è stata considerata una vittoria del Sud del mondo, che da almeno tre decenni ne chiedeva l’attivazione. Molti problemi però sono ancora lontani dall’essere risolti. A Cop 28 sono stati raccolti circa 660 milioni di dollari, quando invece l’ordine di grandezza delle risorse necessarie è delle centinaia di miliardi di dollari.

Per i primi 4 anni il nuovo strumento finanziario sarà gestito dalla Banca Mondiale, il cui presidente viene nominato dagli Stati Uniti, Paese che storicamente ha prodotto più emissioni di tutti e che secondo la logica di giustizia climatica dovrebbe essere il maggiore finanziatore. A Dubai invece si è impegnato solo con 17 milioni di dollari.


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Oltre ai problemi già noti, se ne aggiungono altri, sottolinea un articolo su Nature, che hanno a che fare con la governabilità del fondo: tra questi ci sono le difficoltà nel misurare il ruolo del cambiamento climatico in un disastro ambientale, l’identificazione di chi è più vulnerabile e la quantificazione delle perdite da risarcire.

Come distribuire le poche risorse

Il comitato direttivo che verrà istituito presso la Banca Mondiale sarà composto da 12 membri delle economie avanzate e 14 rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo che dovranno stabilire la logica con cui distribuire i soldi.

L’Adaptation Fund ad esempio, a prescindere dal grado di vulnerabilità, fissa un tetto massimo di 20 milioni di dollari per ciascun Paese. Il Green Climate Fund invece stabilisce una priorità in base proprio al grado di vulnerabilità, destinando metà dei fondi per l’adattamento a piccole isole, Paesi più poveri e continente africano.

Il sistema di allocamento sarà cruciale, “perché il fondo non si avvicinerà nemmeno alla scala di risorse realmente necessarie” riporta Nature. Al momento le nazioni sono solo “invitate” a finanziare il fondo.

Come misurare le perdite

Solitamente le analisi economiche che servono a stabilire le risorse da distribuire conteggiano i punti di Pil persi o i danni alle infrastrutture e alla vivibilità in seguito a un disastro climatico. È molto più difficile misurare danni immateriali che il fondo loss and damage dovrebbe risarcire, come la perdita di pratiche culturali e religiose, di aree considerate sacre ad esempio dalle popolazioni indigene, danni alla salute mentale, la perdita di affetti, siano un famigliare o un luogo.

Invece di ragionare a disastro avvenuto, un approccio alternativo potrebbe essere quello basato sulla valutazione dei rischi ex ante. L’indice di rischio INFORM ad esempio raggruppa 50 indicatori come la frequenza di siccità, il grado di disuguaglianza, la spesa sanitaria pro-capite. Solo 14 Paesi su 191 però nel 2020 avevano dati per tutti gli indicatori. I dati degli Stati delle piccole isole presentano enormi lacune, alcuni hanno dati non aggiornati, mentre altre nazioni ancora non dispongono nemmeno della capacità di raccogliere i dati che servono alla valutazione. Seguendo un simile criterio, alcuni tra i Paesi più fragili finirebbero in fondo alla classifica di vulnerabilità.

La scienza dell’attribuzione

La conoscenze scientifiche che consentono di stabilire se il cambiamento climatico ha aumentato la probabilità di occorrenza di un singolo evento meteorologico estremo sono cresciute rapidamente negli ultimi anni. Di recente ad esempio, il gruppo guidato da Friederike Otto ha stabilito che la siccità registrata nel 2023 in Amazzonia è responsabilità del cambiamento climatico e non di El Niño.

Tuttavia, secondo Andrew King, climatologo dell’università di Melbourne, la scienza dell’attribuzione non sarebbe ancora pronta per essere usata come strumento di supporto alle decisioni politiche e finanziarie. Attribuire al cambiamento climatico la responsabilità di un evento estremo è possibile infatti solo quando si ha a disposizione una sufficiente quantità di dati storici sull’andamento del clima in una data regione. Solitamente questa abbondanza di dati si ha per i Paesi economicamente più avanzati, ma non per quelli più a basso reddito che sono anche i più vulnerabili.

La World Weather Attribution ad esempio è riuscita a stabilire che il cambiamento climatico ha reso più probabile l’alluvione che ha allagato un terzo del Pakistan nel 2022, ma non è stata in grado di dire con certezza di quanto abbia intensificato le precipitazioni.

Le conseguenze di una distribuzione dei fondi basata sui risultati degli studi di attribuzione sarebbero paradossali: i Paesi benestanti potrebbero chiedere risarcimenti per i disastri climatici associati al riscaldamento globale, mentre quelli più poveri, non avendo le stesse certezze, spesso non potrebbero farlo.

Concessioni, non prestiti

La maggior parte della finanza climatica che arriva dai Paesi ricchi a quelli poveri è stata erogata finora nella forma di prestiti, senza nemmeno tassi di interesse particolarmente agevolati. Il Sud del mondo invece chiede concessioni (grants), che arrivino non solo ai governi nazionali dei Paesi bisognosi, ma anche alle comunità locali più colpite e che spesso si sentono escluse dai processi decisionali.

Nei prossimi mesi la Banca Mondiale dovrà prendere importanti decisioni che delineeranno il funzionamento e l’efficacia del fondo loss and damage. La preoccupazione di diversi osservatori è che il fondo replichi gli schemi della finanza climatica già esistente, che finora largamente disatteso le promesse fatte.

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