SOCIETÀ

Una breve storia dei droni, da Tesla alla Global Sumud Flotilla

Dai cieli dell’Ucraina a quelli degli Stati Uniti, passando per il Mediterraneo e gli attacchi alla Freedom Flotilla. I droni fanno ormai parte della quotidianità delle notizie che leggiamo o sentiamo in televisione. L’ultima in ordine di tempo è di un investimento di 500 milioni di dollari deciso dall’amministrazione Trump per rafforzare la sicurezza dello spazio aereo statunitense in vista dei prossimi Mondiali di calcio, che si terranno la prossima estate negli Stati Uniti. L’intenzione è quella di prevenire una minaccia aerea, nel Paese che appena ventiquattro anni fa temeva solo gli aerei dell’11 Settembre. Ma se nel lato più fortunato del mondo si punta a prevenire, in altri ci si preoccupa di mitigare: è lo scenario del conflitto russo-ucraino, nel quale il popolo invaso ha dimostrato fin da subito un’importante capacità di adattamento alla situazione, modificando droni per uso commerciale in modo da compiere ogni tipo di attività, dall’intelligence al trasporto e sgancio di bombe sui bersagli nemici. Come vedremo, la reazione della Russia è stata tecnica e industriale: creare droni più potenti e militari - non certo adattamenti di mezzi commerciali - per compiere i propri attacchi sul territorio ucraino senza esporre in prima linea i propri uomini. Curiosamente, così come gli ucraini hanno utilizzato droni acquistabili online trasformandoli in armi micidiali, è probabile che mezzi del tutto simili siano stati impiegati contro le imbarcazioni della Freedom Flotilla, impegnate nel tentativo di rompere l’assedio illegale imposto da Israele su Gaza. Tante storie che hanno in comune una direttrice: porre quanto più spazio possibile tra chi preme il grilletto e chi viene colpito, trasformando la guerra in un videogame i cui esiti sono purtroppo fisici, reali e micidiali.

Cosa sono realmente i droni

Il termine Uav (Unmanned Aerial Vehicle), letteralmente “velivolo aereo senza pilota”, racchiude una vasta gamma di dispositivi che vanno ben oltre i droni da hobby. Questi si distinguono principalmente in base al tipo di struttura, alla modalità di volo e all’impiego operativo. I più comuni e noti sono i cosiddetti multirotore, dotati di eliche e ideali per riprese video, fotografia aerea, ispezioni industriali e soccorsi. Il loro limite principale è l’autonomia: la batteria dura in genere pochi minuti. Poi ci sono i droni ad ala fissa: ricordano gli aeroplani e sfruttano la portanza aerodinamica per volare. Grazie a questa caratteristica, possono coprire lunghe distanze e restare in aria per ore, ma necessitano di una pista o catapulta per il decollo e di un’area di atterraggio. Sono molto usati per ricognizioni militari, monitoraggio ambientale e mappature territoriali. 


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Cercando una sintesi tra i due modelli, nel tempo si sono sviluppati droni che combinano le caratteristiche dei multirotori con quelle dei droni ad ala fissa. Si chiamano Vtol (Vertical Take-Off and Landing) e possono decollare e atterrare verticalmente, ma in volo passano alla configurazione ad ala fissa, guadagnando autonomia e velocità. Questa versatilità li rende perfetti per missioni di sorveglianza, ricerca e soccorso in aree difficili da raggiungere.

Alcuni droni sono identificati per le caratteristiche strategiche che li caratterizzano piuttosto che per il tipo di volo che possono performare. Ci sono i nano droni, minuscoli UAV spesso utilizzati per ricognizioni ravvicinate, spionaggio o operazioni urbane e i droni autonomi e swarm che, grazie all’intelligenza artificiale, possono navigare in modo autonomo oppure coordinarsi in gruppo. In futuro, sciami di droni potrebbero essere impiegati per operazioni militari complesse, ma anche per gestione di disastri o agricoltura di precisione. 

Un secolo di innovazione

Come visto, il termine “drone” non è affatto sufficiente a contenere la complessità di apparecchi che, per uso civile o militare, solcano i cieli per ogni tipo di attività, da quelle amatoriali alla sorveglianza all’offensiva. Curiosamente la storia dell’evoluzione tecnologica che porta a questo prodigioso risultato tecnico è di molto precedente - addirittura prima dell’invenzione del volo.

Come ricostruito da un’inchiesta di IrpiMedia, le origini risalgono al 1898 quando, in piena guerra ispano-americana, Nikola Tesla inizia a perfezionare una tecnologia in grado di muovere a distanza dei piccoli natanti. Già allora erano perfettamente chiare le applicazioni militari che sarebbero potute derivare da questi primi rudimentali tentativi. In particolare, le sperimentazioni prima di Tesla e poi di un altro inventore, William J. Clarke, miravano a creare un radiocomando con il quale si potesse trasportare da remoto un carico di esplosivo. Mancano ancora pochi anni al 1903, quando i fratelli Wright inventarono il primo prototipo di aereo. 

Dall’unione di tali invenzioni, fu l’ingegnere britannico Archibald Montgomery Low ad approfondire il campo dei velivoli radiocomandati durante la Prima guerra mondiale. Sebbene non applicati in battaglia, questi aprirono la strada ai giroscopi e ai sistemi di stabilizzazione che oggi rendono possibile il volo dei droni. Durante la Seconda guerra mondiale, la Germania trasformò quelle idee nella bomba volante V-1, madre dei missili da crociera. Tra le due guerre nacquero i “target drones”, velivoli radiocomandati usati come bersagli nelle esercitazioni, antesignani dei moderni droni militari.

 

 

L’impiego operativo su larga scala arrivò negli anni Sessanta con la Guerra del Vietnam, quando gli Stati Uniti usarono i droni per ricognizione, propaganda e guerra psicologica. Israele ne comprese presto il potenziale strategico: durante la Guerra dello Yom Kippur (1973) li impiegò come “esche” per logorare le difese egiziane, e nel 1982, nella guerra del Libano, li usò per individuare le postazioni siriane prima dei bombardamenti. Le stesse tattiche riappariranno nel 2020 nel conflitto del Nagorno-Karabakh, dimostrando la longevità di un’idea militare che unisce ingegno e disumanizzazione.

L’uso e il commercio dei droni rientrano nelle norme internazionali sulle armi convenzionali, come previsto dall’Accordo di Wassenaar del 1996. Ma la regolamentazione fatica a tenere il passo: molti modelli e componenti restano al di sotto delle soglie di controllo, permettendo il fiorire di un mercato grigio di tecnologie dual use, spesso dirette verso Russia, Iran o Bielorussia. Nonostante le sanzioni, aziende europee e statunitensi continuano a esportare parti essenziali, come ha documentato IrpiMedia.

Nel XXI secolo il mercato globale dei droni da guerra vale circa 10 miliardi di dollari, con una crescita prevista verso il raddoppio nei prossimi anni. Stati Uniti, Cina, Russia, India e Regno Unito dominano la spesa militare mondiale, ma nel settore dei droni emergono nuovi protagonisti. L’Iran, nonostante le sanzioni, ha sviluppato una filiera autonoma e fornisce alla Russia modelli kamikaze come gli Shahed-136, nati da motori tedeschi e convertiti per l’attacco. La Turchia, con i suoi Bayraktar TB2, ha costruito un successo globale: droni modulari usati come ricognitori o bombardieri, protagonisti delle prime fasi della resistenza ucraina. L’efficacia è poi diminuita con il rafforzarsi delle contromisure russe, ma il TB2 resta un simbolo di efficienza bellica low-cost.

Nel 2023 Ankara ha inaugurato la TCG Anadolu, la prima nave portadroni del mondo, trasformando un fallimento – il mancato acquisto degli F-35 statunitensi – in un primato tecnologico. Dalla barca radiocomandata di Tesla alla flotta autonoma turca, la traiettoria dei droni racconta un secolo di innovazioni nate dalla volontà di separare sempre più l’uomo dalla violenza che esercita. Un percorso che, lungi dal realizzare l’utopia pacifista del suo inventore, ha reso la guerra più invisibile, automatizzata e mediatica: uno spettacolo di morte trasmesso in diretta sui social network.

Il fronte ucraino

Oggi a fare la storia sono invece i conflitti in corso, a partire da quello tra la Russia e l’Ucraina, dove la tecnologia Uav unisce le forze con i social network, portando la disperata resistenza del Paese invaso a diventare un simbolo di lotta e resistenza. L’episodio forse più significativo risale a luglio del 2022 - l’invasione dell’Ucraina inizia pochi mesi prima, a febbraio - quando su X (ex Twitter) viene pubblicato il video di un drone commerciale multirotore sganciare una granata all’interno dell’alloggiamento di un carro armato russo. Quello che si vede nel video, e nelle centinaia di contenuti simili pubblicati successivamente, non è un drone militare, bensì uno strumento commerciale del tutto simile a quelli che vengono venduti nei negozi di elettronica, modificato in modo da trasportare un piccolo carico utilizzando come contenitore un pasturatore per la pesca alle carpe.

Nel conflitto, i droni commerciali – facilmente reperibili e modificabili – sono diventati il simbolo della resistenza ucraina: un esercito “leggero”, flessibile, capace di colpire e documentare al tempo stesso. Pur non potendo cambiare le sorti di una battaglia, questi velivoli hanno avuto un impatto psicologico e comunicativo enorme, unendo i sostenitori della causa ucraina e diffondendo immagini di vittorie sui social.

Accanto all’esercito, un vasto movimento di volontari e Ong ha sostenuto la produzione e l’uso dei droni. Tra le più attive c’è Dignitas Foundation, fondata da Liuba Shypovych, che ha formato decine di migliaia di operatori all’uso di droni e tecnologie civili. Dignitas, insieme a organizzazioni come Come Back Alive e Serhii Prytula Foundation, ha trasformato l’assistenza umanitaria in supporto tecnico e logistico al fronte, in un’integrazione inedita tra società civile e apparato militare.

Parallelamente, il governo ucraino ha lanciato il progetto Army of Drones, una campagna di raccolta fondi e donazioni di droni civili (“dronation”) gestita tramite la piattaforma United24. Entro la metà del 2023 erano stati spesi oltre 116 milioni di dollari per l’acquisto di circa quattromila droni, militari e commerciali.

La reazione russa

La guerra ha accelerato la nascita di un’industria ucraina dei droni: decine di aziende producono o assemblano velivoli per il fronte. Tra le più note, UA Dynamics, autrice del drone “The Punisher”, e One Way Aerospace, produttrice dello “Scalpel”. Entrambe collaborano con il governo attraverso l’Army of Drones. Anche altre imprese, come Twist Robotics o AeroDrone, stanno sperimentando droni autonomi e applicazioni di intelligenza artificiale.

Questa nuova economia bellica è sostenuta da agevolazioni fiscali e da un sistema semplificato per l’importazione di componenti dall’estero, grazie soprattutto alla cooperazione con la Polonia. L’interazione tra settore civile e militare è diventata così stretta da ridefinire il ruolo stesso delle Ong, ora parte integrante dello sforzo bellico.


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È stata inevitabile la reazione russa, che all’inizio del conflitto si è trovata completamente impreparata di fronte alla difesa Uav ucraina. Questo è avvenuto in primis perché la Russia ha sottovalutato il pericolo dei mezzi radiocomandati omettendo di portare al fronte tecnologie in grado di disturbare il segnale dei droni. In seconda istanza, la Russia fino al 2022 non aveva una vera e propria industria di produzione Uav. 

In suo soccorso è intervenuto l’Iran, grazie al quale Mosca ha potuto prima comprare Uav dalla Repubblica Islamica e, poi, convertire le proprie industrie nazionali basandosi proprio sul know-how di Teheran. Analisi sui campioni recuperati (Shahed-136) rivelano che gran parte dei componenti proviene da aziende di Cina, Svizzera e Stati Uniti, evidenziando come pezzi occidentali — spesso non pensati come materiali bellici — finiscano nel circuito militare nonostante le sanzioni. Documenti e inchieste segnalano un accordo di cooperazione Russia-Iran per copiare e migliorare i modelli iraniani nella ZES di Alabuga (Tatarstan), con l’obiettivo di produrre migliaia di droni kamikaze entro l’estate 2025. Le difficoltà principali restano l’approvvigionamento di microchip e altri componenti, largamente prodotti all’estero; per aggirare le restrizioni si usano società di comodo, transiti via paesi terzi e fornitori terzisti. 

Infine, aziende specializzate nella produzione di droni agricoli - per il monitoraggio delle coltivazioni e l’irrorazione di pesticidi - sono state convertite in produzioni militari e inserite nelle sanzioni: assemblano velivoli e software di visione artificiale che possono essere riadattati dalla raccolta dati agricola alla sorveglianza e al targeting. Il risultato è una catena d’approvvigionamento ibrida — tecnologia iraniana, componentistica globale e capacità industriale russa — che rende più difficile frenare la diffusione di droni d’attacco a basso costo e alto impatto operativo.

Dagli Urali al Mediterraneo

Ogni arma, operazione o singolo proiettile ha un costo. Non fanno eccezione i Uav, i cui prezzi possono evidentemente variare dalle centinaia di euro ai milioni, nel caso dei mezzi ad ala fissa e potenzialmente armati. Per questo chiunque debba gestire un arsenale deve fare i conti con le risorse economiche di cui dispone: centinaia di droni piccoli la cui “emivita” in uno scenario operativo è di poche ore prima che venga inevitabilmente abbattuto? Oppure droni da milioni di euro che possono durare più a lungo e schivare la contraerea più a lungo prima di essere colpiti e andare persi? È solo uno dei ragionamenti che il decisore militare deve affrontare. Poi ci sono le esigenze logistiche, date dal contesto operativo e dal bisogno di essere più o meno invisibili, più o meno identificabili, più o meno manovrabili a distanza. 

Un’innovazione apparentemente controintuitiva che sta venendo sempre più utilizzata in Ucraina è per esempio quella dei droni “filocomandati”: tecnicamente si tratta di Uav anomali, in quanto il radiocomando è sostituito da una vera e propria bobina di fibra ottica. Il pregio è che i jammer - termine che identifica le tecnologie che interferiscono con i segnali radio - non hanno effetto su questi droni. Il difetto è che sono inevitabilmente legati alla capacità del filo di stendersi senza incontrare ostacoli.

Un diverso ordine di decisioni dev’essere quello invece operato in uno scenario completamente diverso: quello della Global Sumud Flotilla, flotta di imbarcazioni da diporto che in più occasioni ha tentato di rompere il blocco navale imposto da Israele alla Striscia di Gaza. L’ultimo di una serie di episodi risale a settembre di quest’anno, quando i membri della flotta hanno denunciato e filmato esplosioni e liquidi mefitici rilasciati sulle imbarcazioni mentre navigavano in acque internazionali. Precedentemente, altre imbarcazioni erano state aggredite con modalità simili mentre erano ancorate in acque tunisine. Israele non ha mai ammesso gli attacchi, né è mai stato rinvenuto un drone o altre prove che potessero identificare il responsabile delle aggressioni pirata. Tuttavia i video dell’attacco avvenuto al largo della Tunisia mostrano un oggetto muoversi sopra una delle barche e rilasciare un composto infiammabile, con limitazioni tecniche dovute principalmente al fatto che l’episodio è avvenuto di notte. L’impressione, condivisa da numerosi ricercatori contattati da Il Bo Live, è che si sia trattato effettivamente di un drone di piccole dimensioni simile ai comuni multirotore, modificato per rilasciare un carico leggero sul bersaglio - per poi eventualmente inabissarsi senza lasciare traccia. Se fosse questo lo scenario, ricorderebbe in tutto e per tutto i primi Uav modificati dall’esercito ucraino, in particolare per due aspetti: l’adattabilità e la possibilità di “perderlo” senza lasciare traccia ma anche senza che questo comporti una spesa irragionevole.

Tirare amare somme

A differenza dell’impiego di Uav in Ucraina, perfettamente giustificato dall’invasione che il Paese ha subìto, l’impiego di droni contro la Global Sumud Flotilla in acque internazionali e tunisine costituisce un potenziale atto di pirateria, anche se non risultano al momento inchieste o indagini in corso per svelarne i responsabili. Certo è che l’uso di tali tecnologie è ormai sdoganato e ampiamente accettato a livello internazionale, nonostante i pericoli che rappresentano. 

Facendo un parallelismo con il periodo più buio della storia moderna, è ormai opinione consolidata che le camere a gas utilizzate dai nazisti fossero necessarie per proteggere i soldati nazisti dalle conseguenze psicologiche delle fucilazioni di massa. La violenza lascia cicatrici indelebili nella psiche delle persone e qualunque strumento o metodo in grado di aumentare il grado di separazione tra la vittima e il carnefice contribuisce a mitigare gli effetti di tale violenza. Allo stesso modo, l’impiego di droni permette una separazione chilometrica tra chi preme il grilletto e chi ne subisce la conseguenza, spesso mortali. Ed è importante sottolineare come questo non sia un effetto successivo e “gradito” dello sviluppo degli Uav, bensì si tratta dell’assioma alla base delle stesse tecnologie. Come scrisse Tesla nel suo “Sull’incremento dell’energia umana” (1900), il progresso “porterà alla continua diminuzione del numero di individui impegnati in battaglia”. Ma su una cosa sbagliava il genio serbo-statunitense, intuendo che l’automazione avrebbe finalmente “ridotto gli spargimenti di sangue”. Invero, ha creato un dominio in mano a chi, per inventiva o risorse economiche, dispone della mano vincente sul campo di battaglia.    

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