CULTURA

Scrivere sotto una pioggia di droni: intervista ad Andrei Kurkov

“Non abbiamo dormito bene stanotte, per colpa delle sirene…” risponde così Andrei Kurkov in collegamento da Kyiv all’innocua domanda “Come va?”. E la conversazione prende subito una piega più seria, nonostante il suo sorriso e il sottile senso dell’umorismo che permea molte delle riflessioni dello scrittore ucraino. Abbiamo intervistato Kurkov in occasione dell’uscita in Italia del suo ultimo libro La nostra guerra quotidiana (tradotto da Elisabetta Venturini e pubblicato da Keller editore) in cui lo scrittore ucraino attinge dai suoi diari per raccontare come si convive con la guerra.

Nato a Leningrado – oggi San Pietroburgo – nel 1961, Andrei Kurkov è uno degli autori ucraini più conosciuti a livello internazionale, scrive principalmente in russo e suoi libri sono tradotti in decine di lingue. I suoi romanzi mescolano ironia, malinconia e surrealismo, raccontando le contraddizioni dello spazio post-sovietico e le fragilità della contemporaneità; come nel delizioso Picnic sul ghiaccio (Keller, 2018) con protagonista l’inquieto Viktor e un buffo pinguino di nome Miša. Ma fin dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina nel febbraio del 2022, Kurkov ha assunto anche il ruolo di osservatore attento e voce della società civile del suo Paese. 

Il suo ultimo libro è un diario allo stesso tempo intimo e collettivo scritto tra Kyiv e altre città ucraine in cui era sfollato assieme alla sua famiglia: tra sirene d’allarme, blackout e momenti di inaspettata serenità, l’autore racconta come la guerra si insinua nei gesti più semplici e trasforma la vita quotidiana in qualcosa di sospeso, precario, ma incredibilmente umano. In questa intervista ci parla di scrittura in tempo di guerra, del ruolo della cultura in una nazione ferita, e di come si può raccontare l’Ucraina senza retorica ma con lucidità e amore.

Nel tuo ultimo libro “La nostra guerra quotidiana” descrivi non solo episodi dolorosi, ma anche momenti di solidarietà, creatività e piccoli gesti di resistenza quotidiana: c’è un episodio a cui sei particolarmente legato che ci vuoi raccontare?

«Ci sono molti episodi, ma la prima storia che mi viene in mente è quella dell’Associazione ucraina dei sommelier e dei produttori di vino, e di come abbiano lottato contro l’Associazione russa dei sommelier riuscendo praticamente a fermare l’esportazione di vino della Crimea da parte della Russia come se fosse vino russo. La Russia cercava di venderlo all’estero, in Moldavia e in Kazakistan, ma l’Europa non l’ha accettato e alla fine nemmeno la Moldavia. Inoltre, l’associazione ucraina ha raccolto firme in una petizione per far sospendere l’iscrizione dell’associazione russa nell’Association de la Sommellerie Internationale.

Questa è una storia economica, certo, ma anche culturale. E la cosa importante è che la persona dietro tutte queste attività, Ivan Percheklii, è nell’esercito e ha portato avanti questa “guerra del vino” mentre era ferito e ricoverato a Kyiv. Percheklii è vicepresidente dell’associazione ucraina, ma si è arruolato subito all’inizio dell’invasione su larga scala. Finché non è stato ferito e portato in ospedale, non poteva fare molto, ma poi ha iniziato una nuova forma di guerra per conto dell’associazione e ora è tornato al fronte. L’ho conosciuto di persona quando era ferito e ci siamo visti diverse volte, siamo ancora in contatto.»

 

Dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina hai dichiarato che ti è diventato difficile lavorare a opere di narrativa: pensi che la guerra abbia cambiato anche il tuo modo di scrivere, oltre ai temi che affronti nei tuoi libri?

«La guerra cambia la percezione della vita, ti cambia le priorità e i valori. Ora sono una persona molto diversa da quella che ero prima del 2022, sotto molti aspetti. Per esempio, da bambino ero un collezionista: collezionavo francobolli, monete antiche, distintivi, vecchie cartoline, vinili d’epoca... Ma dopo l’inizio dell’invasione su vasta scala ho perso completamente il senso del valore di qualsiasi cosa materiale. Quando abbiamo dovuto lasciare il nostro appartamento, ho semplicemente pensato di aver detto addio a tutto ciò che ci stava dentro. E ho ancora questa sensazione: che il mondo materiale non significhi più molto. Né le mie collezioni, né il nostro appartamento, né altro.

Inoltre, per me la violenza non è mai stata accettabile nella letteratura. Ora invece sì, perché fa parte della vita quotidiana: guardo le notizie su YouTube, o Telegram, e quasi tutti i video sono pieni di violenza. Di recente sono riuscito a finire il romanzo che avevo iniziato prima di febbraio 2022 e che non ero riuscito a scrivere per due anni e mezzo. Finalmente, lo scorso novembre, l’ho terminato. E alla fine del romanzo c’è un episodio molto violento, che non avrei mai scritto prima della guerra. Quindi ora non ho più problemi a scrivere scene violente, cruente, scioccanti
 

Che ruolo pensi possano avere intellettuali, scrittori e scrittrici in tempo di guerra?

«Ci sono scrittori che sono figure pubbliche e altri che non lo sono, che non vogliono mai mostrarsi o essere presenti. Ebbene, tra gli scrittori pubblici in Ucraina, quasi tutti sono diventati molto attivi politicamente e socialmente con l’inizio della guerra. Molti di loro hanno iniziato a raccogliere fondi per l’esercito o a mantenere alto il morale della popolazione civile, cercando di motivare le persone.

Un altro aspetto molto importante, soprattutto nel primo anno e mezzo, è stato che alcuni scrittori hanno contribuito con articoli per i media internazionali sulla storia dell’Ucraina e sui rapporti storici tra Russia e Ucraina. Di fatto, facendo contro-propaganda, perché la Russia sta falsificando la storia e diffondendo ovunque narrazioni manipolate.

In ogni caso, in Occidente la gente non sapeva quasi nulla dell’Ucraina e della sua storia. Non sapevano neanche che l’Ucraina non è mai stata un regno: già nel XVII secolo era una sorta di repubblica. Gli ucraini sceglievano i propri leader, non avevano una famiglia reale. Ed è per questo che preferiscono la libertà alla stabilità.

La vita politica in Ucraina è simile a quella in Italia: abbiamo più di 400 partiti politici registrati al Ministero della Giustizia. Perché anche l’anarchia fa parte della nostra tradizione: il più grande esercito di anarchici è nato in Ucraina nel 1918 grazie a Nestor Machno

Che rapporto c’è tra memoria, identità e lingua nella resistenza del popolo ucraino contro l’aggressione russa?

«Ho detto che gli ucraini sono molto spesso anarchici. Quindi, se si discute la questione dell’identità con ogni ucraino, avrà un’idea leggermente diversa di cosa significhi identità. Prima di tutto, bisogna capire che in epoca sovietica la parola “ucraino” significava che qualcuno apparteneva al gruppo etnico ucraino (come armeni e azeri). Quando il Paese è diventato indipendente, la parola “ucraino” ha iniziato a significare cittadino dell’Ucraina, di qualsiasi origine.

Ma per alcuni intellettuali, gli ucraini etnici sono considerati più “ucraini” di chi fa parte di altri gruppi etnici. Tuttavia, in generale, l’identità ucraina – non quella etnica, ma quella politica – è stata confermata e rafforzata dall’invasione su larga scala. E quest’invasione ha spinto anche quegli ucraini che erano più legati a un’identità etnica ad aprirsi e accettare anche gli ucraini di altre origini. Per loro, il segno distintivo principale ora è che una persona parli o conosca la lingua ucraina, conosca la nostra storia e si consideri patriota dell’Ucraina.»

 

I tuoi scritti descrivono la vita in Ucraina come un continuo adattamento, ma racconti anche la stanchezza, la difficoltà a mantenere l’ottimismo: cosa pensi (o speri) riguardo al futuro dell’Ucraina?

«Spero che l’Europa continui a sostenerci e ci aiuti effettivamente a difendere l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina, perché è difficile immaginare nel prossimo futuro si possa liberare i territori occupati, ma ciò che è sotto il controllo del governo ucraino ovviamente deve essere difeso e deve rimanere intatto. E la mia speranza è che non ci sia disperazione né pessimismo. L’Ucraina ora è, naturalmente, molto diversa dal Paese prima della guerra, perché adesso, se consideriamo la popolazione, abbiamo almeno quattro diverse “Ucraine”.

Ci sono sei milioni di rifugiati ucraini all’estero, per lo più donne e bambini, e molti di loro rimarranno purtroppo all’estero, perché mezzo milione di bambini ucraini frequenta le scuole in altri Paesi. E sono sicuro che le loro madri non li porteranno via da lì per tornare in Ucraina, poiché sono già integrati.

Poi ci sono ucraini che hanno dovuto trasferirsi, che hanno perso case e appartamenti, e si sono spostati in altre regioni del Paese. Per esempio, a Kharkiv (che dista 25 km dalla linea del fronte) vive quasi un milione di persone, ma un quarto di queste si è trasferito lì dal Donbas, da Zaporižžja, dalla regione di Kherson, quindi sono dei rifugiati interni. La stessa situazione si trova a Kyiv: almeno 200.000 persone che ora vivono nella capitale provengono da altre regioni. Nel resto del Paese ci sono centinaia di migliaia di persone che si sono trasferite e probabilmente rimarranno lì integrandosi; ma non sono registrati come elettori perché la maggior parte di loro non ha un domicilio permanente.

Ci sono altre persone che vivono ancora nelle loro case ma hanno perso membri della famiglia a causa dei missili o perché sono stati chiamati al fronte e sono morti. E c’è un milione di persone nell’esercito.

Quindi ogni gruppo è diverso dagli altri, ognuno ha sentimenti diversi riguardo alla guerra. Ovviamente chi ha perso tutto non è solo stanco, ma è arrabbiato, molto amareggiato e infelice. Poi ci sono ancora famiglie che non hanno perso né membri della famiglia né proprietà, che sono ancora a casa, e tra queste persone troverai più patrioti. Quindi è molto difficile parlare a nome degli ucraini in generale.»

 

L’ultimo capitolo del libro porta la data di fine aprile 2024: è cambiato qualcosa da allora nella convivenza con la guerra?

«C’è una cosa molto piccola, ma è qualcosa di nuovo che ho notato qualche giorno fa. A Kyiv e probabilmente in altre grandi città, solo quando suonano le sirene una minoranza di persone scende in metropolitana o nei rifugi antiaerei. Ma ho notato che adesso alcune persone vanno nelle stazioni della metro la sera, prima che suoni la sirena e che ci siano i bombardamenti, portano con sé letti e sedie pieghevoli e si sistemano sulle banchine. E alcune persone anziane hanno già il loro “posto” sul pavimento di marmo che occupano ogni sera: fanno così perché sono sicuri che ci sarà un nuovo bombardamento e vogliono essere certi di avere il loro posto, a cui ormai sono abituati. È come se avessero “privatizzato” due metri quadrati di una stazione della metropolitana.»

Il paragone è stridente ma non riusciamo a trattenere un sorriso (amaro) constatando che sembra quasi una scena simile a quella che si consuma in tanti luoghi di villeggiatura: quando trovi un buon posto sulla spiaggia e vuoi ritornarci. Un agosto ben diverso da chi vive in Ucraina o a Gaza o in altre città martoriate dalla guerra.

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