CULTURA

Il coraggio di contare. Un libro di Natascha Lusenti

Sofia

io:
ero in maternità
volevo:
godermi il mio bambino
mi hanno cercata per dirmi che:
ero necessaria
per:
il controllo di gestione
la visione d’insieme della contabilità
[…]
adesso: 
stanno andando in utile
sono contenta per loro
ma nel frattempo:
io non ci sono più
[…]
siccome: mentre lo dicevo mi veniva da piangere
la giornalista mi ha chiesto:
perché mi veniva da piangere
e io ho detto:
perché: mi piaceva l’idea di salvarci tutti insieme

Silvia

e poi la giornalista mi ha fatto la domanda:
cosa si aspettava da te tuo padre?
e io ho detto:
che dovevo essere sempre la più brava
e poi ho detto:
e mi sembrava quasi un lavoro
e poi ho detto:
e intanto dovevo lottare con la paura di non essere accettata
e la giornalista mi ha chiesto:
perché quella paura?
e io ho detto:
perché se non portavo il massimo mio padre non mi amava

Mariangela

volevo: 
fare la magistrata
ma poi ho capito che:
se devi fare:
tre lavori per campare
non puoi fare la magistrata
e quindi:
non mi sono laureata
ho lasciato l’università prima degli ultimi due esami
e ho cominciato a lavorare a vent’anni
[…] 
poi la giornalista mi ha chiesto se:
ho un fondo pensione
e io ho detto:
no
e lei ha detto:
pensaci
e io ho detto:
è un ottimo suggerimento
e ho aggiunto:
ci ho anche pensato
ma non l’ho fatto.

Sofia, Silvia, Mariangela e ancora Cristina, Barbara, Paola, Tiziana, Gaia, Giuditta, Tai, Vega, Vittoria, Clara, Elisa, Irene, Mariarosa sono (alcune delle) donne che la giornalista ha intervistato restituendocele “in voce” come le leggiamo qui sopra, a metà tra il testo narrativo e poetico. Nella loro verità. Nella scomodità della confessione, nell’inquietudine della contraddizione, nel sollievo di dire, per una volta almeno, anche ciò che non suona bene sentire.

La giornalista in questione è Natascha Lusenti, storica speaker di radio2 e abilissima intervistatrice, che con la parola scritta ha un legame d’elezione (ha pubblicato anche un romanzo: Al mattino stringi forte i desideri per Garzanti, nel 2018) e non è un caso che il saggio dove prendono vita le donne di cui sopra, Il coraggio di contare. Storie di donne, finanza ed etica nell’Italia contemporanea (Il Saggiatore, 2025), abbia infatti la forza di un libro ibrido, che spesso è quella di saper parlare a un pubblico ampio e di restituire la complessità di un tema perché lo guarda da tutte le angolazioni.
Non è prettamente una riflessione di stampo economico, ma parla di soldi; non è un’indagine giornalistica; non è un romanzo; non è un memoir; non è un saggio di psicologia o di sociologia… eppure è tutto questo insieme, nel tentativo (riuscito) di raccontare una serie di dati di fatto che vanno però ben oltre a ciò che può essere misurato. Lusenti racconta (con l’ausilio di una potente bibliografia) il rapporto complicato che le donne hanno con il danaro, entra nel merito della violenza economica, affronta l’annoso tema della cura, della discriminazione di genere (ma addirittura di regno – una parte della riflessione verte anche sulla nostra relazione con il mondo animale), mette a fuoco gli archetipi che ci definiscono da millenni e che cerchiamo con fatica di smontare mentre definiamo il presente, e non ha paura di chiamare le cose con il loro nome.

La abbiamo intervistata (e chi scrive suggerisce di far caso, per esempio, a quanto – in prima persona Lusenti inizi con lo scardinare i tabù sul danaro, sulle questioni di genere e sul linguaggio).

1. Perché e per chi hai scritto “Il coraggio di contare”? 

In quel periodo avevo bisogno di soldi, e quando mi è stato chiesto di scrivere il libro, e con la certezza che avrei avuto carta bianca, ho accettato il lavoro e affrontato con la scrittura e con le interviste a più di sessanta donne una questione su cui stavo ragionando nella mia vita personale, e nell’analisi junghiana, da un po’. L’ho scritto per chiunque abbia voglia di approfondire la propria relazione con i soldi, in particolare le donne che troppo spesso pensano che la cosa non le riguardi o che hanno un complesso di inferiorità. Non è il libro di un’economista, è un libro d’autrice su un tema solitamente lasciato agli economisti e per questo è per tutte (uso volutamente il plurale femminile sovraesteso).

2. Perché la parola “soldi”, per le donne specialmente, è un tabù?

È una questione storica e culturale che va molto all’indietro nel tempo. Nel libro ho insistito soprattutto sulla mole di lavoro gratuito che le donne compiono da secoli, dentro una narrazione che purtroppo ancora oggi, troppo spesso, sembra assegnare loro quel lavoro faticoso come un destino di gioia e compiutezza: la cura della famiglia, della casa, dei parenti. Non siamo nate per farlo e dovremmo essere pagate, cosa che infatti accade quando lo si delega a una persona non di famiglia, un professionista (perlopiù una professionista). I dati, però, per restare all’Italia, dicono che ancora oggi quel carico è delle donne. Come possiamo aspettarci che, con una storia del genere, letteralmente sulle spalle, le donne che entrano nel mercato del lavoro retribuito si sentano a loro agio? Parlo del clima culturale, naturalmente. Per stare a un caso individuale, invece, una delle donne che ho intervistato, una psicologa trentenne, alla domanda “Che lavoro fa tua madre?” mi ha risposto “Niente”. Questa risposta ci riguarda tutte e tutti.

3. “La finanza rende felici”: questa è la frase (che riporti come citazione) con cui apri il libro. Cos’è la felicità? E in relazione al denaro? C’è un proverbio che ironicamente (ma non tanto) dice: “Il danaro non rende felici, figuriamoci la miseria…”

Ho scelto il tema della felicità perché era importante aprire il libro in modo anche leggero, per convincere chi legge a seguirmi nel percorso che è inedito rispetto al tema trattato: basta scorrere l’indice per rendersene conto. E poi perché ci sono molte ricerche interessanti che ragionano sulla relazione tra i soldi e la felicità, un’equazione che stiamo ancora cercando di risolvere, vista la disparità di accesso alla ricchezza globale. Infatti, nell’ultimo paragrafo del libro definisco con un aggettivo preciso la “finanza” con cui ho cominciato la mia storia, ma niente spoiler!

4. In questo libro racconti molte storie di donne. In che modo secondo te la stereotipizzazione della figura femminile incide sul loro destino (anche finanziario, ma non solo)?

Credo che il tema più importante sia quello, come ho già detto, del cosiddetto lavoro di cura, che altro non è che duro lavoro gratuito dentro casa. Molto spesso le donne non ricevono neanche un grazie: ci si aspetta che siano loro a farlo e questo provoca uno strabismo nella capacità di immaginare la propria vita, il proprio posto nel mondo, di esprimere persino i propri desideri. A questo si aggiunge l’aspettativa riguardo alla maternità, che è ancora una pressione sociale, e familiare, fortissima sulle donne.

5. Ragioni anche intorno alla dedica del libro Chthulucene di Donna Haraway: “A tutti coloro che generano parentele nell’imprevidibilità della parentela”. In che misura e in che modo l’altro è salvifico? E in che modo questa riflessione c’entra con “la finanza che rende felici”?

Generare parentele oltre la famiglia e oltre la specie mi ha salvato la vita. I dati dimostrano che, nel mondo, una donna su tre subisce violenza solo per il fatto di essere una donna, come se fosse anche questo un destino assegnato da dover portare con rassegnazione. E la maggior parte di queste violenze avviene dentro la famiglia. E l’antropocentrismo dimostra che, mettendoci al di sopra di tutte le altre creature, abbiamo combinato un disastro, agendo violenza e soprusi e provocando sofferenze anche atroci. Perciò parlo anche di veganesimo, nel mio libro, oltre che delle storie che raccontiamo alle donne e sulle donne, per esempio nel cinema dove, come dice la regista francese Céline Sciamma, a cui ho dedicato la mia tesi di laurea, mancano ancora troppi pezzi di storia delle donne, perché per troppo tempo sono stati gli uomini a scrivere e dirigere film e perché, ancora oggi, in tutta Europa, i soldi per film scritti e diretti da donne sono pochi. In Italia le donne, non solo nel cinema, sono ancora considerate poco “bancabili” come si dice nel gergo del settore. È un’espressione della misoginia strutturale in cui ci muoviamo, dalla famiglia al mondo là fuori, quando non ce la portiamo addosso, introiettata dentro di noi più o meno consapevolmente. Credere alla parola delle donne, nei casi di molestie o violenze sessuali, per esempio, o finanziare i loro progetti, da un punto di vista strutturale intendo, del sistema, sono scelte che hanno una radice comune. Quella radice è ancora troppo piccola per garantirci davvero pari opportunità.

6. Hai cercato (e trovato) una forma narrativa di tipo poetico per raccontare le tue “protagoniste”: ogni capitolo “saggistico” è preceduto da un capitolo in cui in forma di poesia racconti la vita e il sentire delle donne che hai intervistato. Quanto potente è la parola – la narrazione – e quanto può aiutarci a trovare una via?

Le donne che hanno letto il libro e che mi scrivono o con cui parlo mi dicono tutte di essersi ritrovate in almeno una delle storie che ho raccolto perché parlando di soldi con le donne si parla della loro vita, tutta intera, degli affetti più profondi, delle relazioni più intime, non soltanto di lavoro o di risparmi. Quasi tutte quelle che ho intervistato l’hanno capito davvero solo al termine dell’intervista e anche io, lo so da non molto tempo, visto che, come dicevo all’inizio, il denaro ora è un tema della mia riflessione all’interno delle sedute analitiche, ma sono in analisi da più di vent’anni! Ce n’è voluto di tempo prima che mi rendessi conto di cosa parliamo davvero, noi donne, quando parliamo di soldi

“Che lavoro fa tua madre?” “Niente”. Questa risposta ci riguarda tutte e tutti Natascha Lusenti

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