Rileggiamo: Il gabbiano di Čechov in teatro per la regia di Filippo Dini
Immagine del manifesto dello spettacolo
Il 21 ottobre del 1895 Anton Čechov racconta per lettera al suo editore di stare scrivendo un lavoro teatrale: "È una commedia, ci sono tre parti femminili, sei maschili, quattro atti, un paesaggio (veduta sul lago); molti discorsi sulla letteratura, poca azione e tonnellate d’amore".
Questa commedia è Il gabbiano. Quando debutta la prima è un fiasco (ma – dice il drammaturgo – la maggior parte dei miei lavori ha fatto fiasco, e ogni volta ne ero venuto fuori asciutto come un’anitra dall’acqua), invece in seguito è stata considerata uno dei capolavori dello scrittore russo e, se a leggerne la breve descrizione autografa sembra quanto di più distante dal nostro presente (discorsi sulla letteratura?! poca azione?! tonnellate d’amore?!), nel vederne la messa in scena fatta dal regista Filippo Dini (la prima nazionale al Teatro Verdi di Padova lo scorso 4 novembre e ora in tournée in tutta Italia) non si può non comprendere quanto quel testo, che racconta l’umanità in crisi, sia evidentemente universale.
Entriamo in teatro e il sipario è alzato, una ragazza non troppo ben vestita si arrotola una sigaretta seduta sulla scena, le luci sono accese, un portatile Apple è appoggiato su un tavolino. Un largo drappo scende dall’alto e si poggia sul palco, scivola addirittura giù. È il lago, capiremo poi. O forse una porta, un accesso, una connessione, una via. Tra qui e lì. Tra allora e adesso. Dentro e fuori. Tra loro e noi.
Le luci restano accese anche quando tutto comincia e già, nella testa di chi guarda, un confine è valicato e una domanda s’insinua: qual è la distanza?
Non a caso il primo personaggio a parlare (anzi a cantare: proprio così, in questa rilettura si canta, persino la musica degli U2) arriva dal fondo della platea, indossa abiti che riconosciamo, sulle spalle ha uno zainetto e parla una lingua ch’è Čechov ed è la nostra insieme.
È questo il modo in cui incontriamo il maestro, innamorato di Maša, la figlia degli amministratori della tenuta di campagna in cui tutto avviene. Solo che lei non lo ricambia, perché il suo cuore batte per Kostantin, giovane aspirante drammaturgo a sua volta ingaggiato con Nina, che vuol fare l’attrice e a cui lui farà interpretare un monologo dai tratti “metafisici” (Kostja vuole rifondare il concetto di teatro e Dini fa fare la regia di questo metateatro al più giovane regista Leonardo Manzan). Tutto accade proprio sulle rive del lago, sotto una luna piena cocente: “Sono innamorati, e le loro anime oggi si fonderanno nell’ansia di creare un’unica immagine d’arte” dice il maestro alla ragazza.
Invece, spiega il regista, in questa commedia Čechov pare dimostrare che l’adagio dantesco secondo cui “amor ch’a nullo amato amar perdona” non vale. C’è infatti in questa storia una catena di “tensioni verso l’altro” che non trova mai pace. Tutti amano ma non sono riamati, o non lo sono da chi lo desidererebbero.
Nina infatti s’innamorerà dello scrittore di grido (interpretato da Dini stesso) cui s’accompagna la madre di Konstantin, Arkadina, attrice navigata e prima donna (Giuliana De Sio ne veste i panni), verso la quale si muove (uno degli) interessi del medico condotto, Dorn, amante a sua volta della moglie dell’amministratore della tenuta (Polina), madre di Maša, la ragazza che vediamo entrando a teatro mentre prendiamo posto. C’è però un uomo in più, Sorin, fratello di Arkadina, escluso da queste rincorse amorose e capace di vedere e comprendere tutto. Come quel gabbiano che inavvertitamente sorvolava la tenuta, quando poi Kostantin lo impallinava e lo faceva impagliare.
Ma se poco importano queste dissimmetrie (e invece molto contano perché dicono di noi lo streben e l’irrazionalità dell’agire), fortissimo è lo schianto emotivo che il regista provoca scegliendo di farci specchiare in quel lago, di alterare il tempo portandolo a una dimensione sospesa che ha dell’eterno – attraverso l’uso di costumi tendenzialmente anni Settanta, dialoghi con riferimenti al presente (l’era del lexotan!), canzoni pop e proiezioni tecnologiche – e mostrandoci come “allunare” non è cosa di tutti i giorni anche se ciascuno di noi ha un sogno così luminoso da finire, ariostescamente, proprio lassù. Anzi, non è proprio possibile. I sogni restano a terra. Falliscono miseramente.
Čechov qui è stato accarezzato dallo sguardo pieno di cura di Filippo Dini che non lo tradisce anche quando lo forza (il personaggio che lui stesso interpreta, lo scrittore di successo Trigorin, per esempio, diventa un paria balbuziente, quasi a dire che non se ne può più dei boriosi convinti) e lo spettatore – che immagina di calarsi in un’atmosfera ottocentesca lontana anni luce – sente di stare lì, con tutti gli altri, a soffrire, ridere a denti stretti, rinunciare all’amore: non gli è dato insomma di sottrarsi.
Dini nelle sue note di regia infatti scrive: “Le somiglianze con la nostra epoca sono straordinarie e sconfortanti, come se il nostro Anton ci guardasse da lontano con quel sorriso e quell’ironia che gli sono certamente congeniali, nell’attesa che anche la nostra società, il nostro mondo, il nostro folle modo di condurre le nostre esistenze, arrivi all’esplosione”.
E nell’ultimo atto – quello invernale, al chiuso, dove la tragedia temuta infine si compie – Nina (fuggita con Trigorin e poi abbandonata) dirà a Kostantin: “Adesso io so, io capisco, che nel nostro lavoro – poco importa se recitiamo o scriviamo – l’essenziale non è la gloria, non è il lustro, non è ciò che sognavo ma la capacità di soffrire”.
Ma in questa sofferenza, in questo viaggio verso l’abisso, chi scrive è certa che la luce dell’arte ci illumini. Non a caso opere come Il gabbiano vengono messe in scena e trasfigurano, non a caso noi stessi, assistendovi, catarticamente risorgiamo. Proprio come quella figura (quell’uomo? quella donna?) che nella locandina – dentro uno scafandro giallo e la maschera per respirare – ci guarda e, comunque, vive.
“ Le somiglianze con la nostra epoca sono straordinarie e sconfortanti, come se il nostro Anton ci guardasse da lontano Filippo Dini