CULTURA

Rileggiamo: Casa di bambola di Henrik Ibsen

Ci sono (fortunati) testi che non smettono di parlare. Che dicono ben di più di quello che l’autore aveva intenzione di dire quando li ha scritti; che s’accucciano nelle pieghe del tempo e periodicamente entrano in risonanza con qualcuno o qualcosa. Ci sono libri che trascendono, che sono senza tempo, potentissimi; e li chiamiamo classici.

Uno di questi è Casa di Bambola, la pièce teatrale del norvegese Henrik Ibsen, vissuto per ben 27 anni “in esilio volontario”, messa in scena per la prima volta a Copenaghen nel 1879, che valse al suo autore la fama che, grazie a quest’opera, ancora gli è riconosciuta. 

Benedetto Croce racconta che sui cartoncini d’invito alle cene delle famiglie scandinave dopo di allora veniva specificato: “Si prega di non discutere di Casa di bambolae non però perché non si parlasse d’altro per la bravura del suo autore, bensì perché il capolavoro di Ibsen fu considerato scandaloso. Gli fu chiesto persino di cambiarne il finale, riportandolo nell’alveo della “decenza”, e lui lo fece, definendo lui stesso quella versione modificata “una barbarie”.

Tutti ne conosciamo la storia, anche solo per sentito dire la pièce viene ancora messa in scena anche se non spessissimo: in Italia le versioni recenti più note sono quelle di Filippo Dini nel 2021 e di Alessandro Marinelli nel 2022. Nora, la “moglie bambina” di Torvald Helmer, la sua “lodoletta”, il suo “scoiattolino”, la sua “passeretta”, la sua “creaturina”, la sua “ghiottoncella” (e si potrebbe continuare l’elenco di vezzeggiativi che nel libro sono innumerevoli), complice la scoperta di aver compiuto un’azione illegale nel tentativo di aiutare il marito, mette in discussione se stessa e il suo matrimonio e finisce con l’andarsene, solo dopo però aver avuto la prova che “il prodigio” (una sorta di redenzione di Torvald) non si compie.

La commedia ha inevitabilmente parecchi piani di lettura. È stato considerato un testo femminista ante-litteram soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento; è sicuramente un dramma esistenziale perché mette in scena la decostruzione di una coppia e, in realtà, anche la decostruzione (e contemporanea formazione) di un io consapevole – quello di Nora, la lodoletta, che apre la gabbia dorata per canarini dentro cui è rinchiusa e spicca il volo; infine è il ritratto della crisi del matrimonio borghese.

Di acqua sotto i ponti ne è passata dal 1879, e alle cene oggi nessuno si scandalizzerebbe perché una moglie lascia d’emblée marito e figli (ma siamo proprio sicuri?), il matrimonio borghese non è più un’istituzione così salda con buona pace di tanti, eppure questo testo ancora ci muove. E lo fa perché probabilmente, nonostante ci sembri di aver scavallato, di aver imparato a definire uomini e donne mettendoli sullo stesso piano, anche all’interno della relazione matrimoniale o d’amore più in generale, in realtà sentiamo che tutto è ancora piuttosto fragile. Uscire dai “ruoli” – che di fatto sono stereotipi ma molto ben congegnati, come cubi di Rubik senza soluzione – è una fatica quotidiana che tanto somiglia a quella di Nora, che prima di poter dismettere l’abito che le è stato cucito addosso deve riuscire a capire di indossarlo, quell’abito.

“Io non ti vorrei diversa da quel che sei, mia cara piccola allodola canterina…” le dice il marito all’inizio del primo atto. 

Come si fa a volersi sfilare ciò che ci viene detto calzarci a pennello? Come si fa a vedere quello che mai si è conosciuto prima?

È il talento dello scienziato. Uscire dallo schema e “creare”, ossia finalmente vedere, qualcosa che prima era opaco. E Ibsen riesce a riprodurre questo processo, insieme tanto naturale e straordinario, attribuendolo a una moglie-bambina, chiusa dentro le mura domestiche a badare ai figli, a cucire e intrattenere gli ospiti del marito (che guarda caso, però, s’innamorano di lei). Una donna giovane e apparentemente ingenua, ma dotata in realtà di una intelligenza vivida e di un coraggio che non è sventato ma fortemente intenzionale.

E se dimentichiamo per un momento quei riferimenti (che Torvald fa) per esempio al senso morale che oggi non costituirebbero l’obiezione di un marito alla moglie che all’improvviso lo lascia perché lui non è stato all’altezza, il senso di opposizione alla scelta di lei, però, è ancora qui. E non serve citare gli oltre 70 femminicidi già compiuti nel solo 2025. Questa sensazione d’imbarazzo o di sgomento, quando leggiamo o vediamo a teatro Ibsen, ci fa sentire fragili, temere di essere ancora lì, ancora quelli. 

“Vedi Torvald” spiega Nora “Ho le idee molto confuse. Una cosa è certa, che di tutto ciò ho un concetto diverso dal tuo. Adesso vengo per giunta a sapere che le leggi non sono quelle che io credevo; ma non riesco a convincermi che siano giuste […]”.

Allora Torvald: “Tu parli come una bambina; non capisci la società a cui appartieni”.

Ma Nora non ha paura: “No, non la capisco. Ma ora cercherò di capirla. Voglio scoprire chi ha ragione, io o la società”. 

Una strada lunga quella di cui Ibsen ha segnato un caposaldo, una rivoluzione che deve sovvertire un ordine millenario quella che si deve compiere (perché non s’è ancora compiuta). E la letteratura (il teatro, qui) è più affilata della ghigliottina.

Torvald: “Tu parli come una bambina; non capisci la società a cui appartieni”; Nora: “No, non la capisco. Ma ora cercherò di capirla. Voglio scoprire chi ha ragione, io o la società” Henrik Ibsen

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