CULTURA

Rileggiamo: Quello che ho amato di Siri Hustvedt

Il dramma borghese, quando nasconde qualcosa di oscuro, diventa morboso e affascinante.

È come se facesse contemplare a chi lo legge (o lo guarda – tecnicamente nasce in teatro) che la vita quotidiana cela infinite, incredibili, possibilità. La nostra, anche.

Così quando si ha sotto gli occhi Quello che ho amato di Siri Hustvedt (Einaudi, 2003) è impossibile seguire la trasformazione dei protagonisti e gli imprevisti delle loro esistenze senza domandarsi se qualcosa di simile potrebbe accadere anche a noi. Se, cioè, l’andamento borghese (o quotidiano, ampliando il termine per affinità) dell’esistenza non contenga in nuce lsempre o sconvolgimento. 

Un po’ come accade con l’arte, che produce “un attacco ai sensi” anche quando sembra solo raffigurare una natura morta. 

Come il quadro che apre la storia e si fa movente degli agiti dei protagonisti: “Di notevoli dimensioni, circa un metro e ottanta di altezza per due e mezzo di larghezza, ritraeva una giovane donna distesa sul pavimento di una stanza vuota. Appoggiata a un gomito, sembrava assorta in qualcosa al di là del bordo del dipinto, da dove una luce brillante si diffondeva nella stanza, a illuminarle il viso e il petto. La mano destra era appoggiata sul pube e, nell’esaminarla da più vicino, notai tra le dita un minuscolo taxi, una versione in miniatura della vettura gialla perennemente in corsa lungo le strade di New York. Mi ci volle un minuto buono per comprendere che in realtà le persone raffigurate erano tre: alla mia destra, sul margine più buio, scorsi una donna nell’atto di uscire di scena. […]Questa donna non era meno importante della protagonista. La terza persona era solo un riflesso. Per un attimo pensai che si trattasse della mia ombra, poi capii che faceva parte dell’opera. […] Sulla destra, il cartoncino dattiloscritto a caratteri minuscoli recitava. Autoritratto di William Wechsler”.

A narrare la storia, in prima persona e in retrospettiva, è l’artista Leo Hertzberg che ricorda come tutto cominciò da lì. Da quel quadro visto in una galleria di SoHo nel 1975, un quarto di secolo prima di cominciare a raccontare; dal suo autore, Bill per gli amici (come in effetti i due divennero), e dalle sue donne, la prima moglie Lucilla e poi Violet, che prepotentemente entrarono anche nella vita di Leo, che con Erica si trovò a vivere esattamente nell’appartamento sottostante a quello del collega.

Niente di più ordinario e di più borghese, ordunque. Due artisti benestanti e le loro belle mogli. Un divorzio, una nuova routine, le cene a quattro condite da riflessioni artistiche, le opere in fieri, le esposizioni.

Ma Siri Hustvedt introduce l’elemento scardinante già mentre dissemina la narrazione di descrizioni e dettagli delle opere di Bill, quando ancora nulla è successo ed è demandata alla sola arte la capacità di alterare (o celare del tutto) il grado di verità dell’esistente. O, di contro, di svelarlo in toto.

“Nonostante quelle fugaci incursioni nell’esistenza reale, i dipinti comunicavano un che di astratto, un fondo di vacuità connesso alla stranezza della mortalità stessa, la sensazione che, anche se ogni pezzetto appartenuto a una persona viene conservato, accatastato in un enorme cumulo e poi attentamente passato il setaccio per estrarne ogni possibile significato, alla fine non ne ricompone comunque la vita. Bill aveva coperto ogni tela con uno spesso plexiglas […] sigillati da quella parete trasparente, l’immagine dell’uomo e i detriti della sua esistenza diventavano irraggiungibili”.

Et voilà. Nelle prime cinquanta pagine c’è già tutto: fascino, amori e sistemazioni borghesi, insieme a intellettualismi giustificati dalla cultura e dal canone, che però possiedono – tutti insieme, tutto insieme – la capacità di presagire la discesa, l’orrore, la disfatta. Come se la scelta di portare in esposizione qualcosa di artefatto, che diviene a tratti provocatorio, e Bill Wechsler lo fa, o addirittura di violento (non ad opera sua ma di un artista avversario), non possa non ripercuotersi sulla vita vissuta.

Che procede canonicamente, e poi svergola. Nascono i figli: Mark da Bill e Lucille, che però poi si trasferisce e viene “sostituita” da Violet, e Matt da Leo ed Erica. E i figli crescono, coetanei, insieme, come i relativi genitori. Apparentemente tutto si tiene. Finché non arriva la rottura fragile, inaspettata, irreversibile, come quella del vetro quando si cricca.

Il punto è sempre lo stesso: saper vedere. “Essere e conoscere sono due cose diverse” come “le bugie hanno sempre un doppio: quello che dici coesiste con quello che non hai detto ma avresti potuto dire”.

La tragedia insomma non si presenta annunciata. Soprattutto quando non immagini che stia per accadere e non ne riconosci le avvisaglie.

“La settimana scorsa mi sono versato in un bicchiere quello che immaginavo fosse succo d’arancia e invece era latte. Per alcuni secondi non mi accorsi di che cosa stessi davvero bevendo, ma solo che il succo aveva un sapore disgustoso. Il latte mi piace molto, ma non importa. Il punto è che mi aspettavo una cosa e ne ho avuta un’altra”.

Chi si aspetta di perdere un figlio di soli undici anni? Chi di vedere annegare nella droga l’amico superstite, figlio, figliastro, nipote acquisito, vittima, a suo modo, dell’arte e di chi –  in vario modo e con diversi scopi –  la fa?

Ci sono dei colpevoli? Possono essere rintracciati anche dentro i salotti buoni con le pareti costellate di quadri? Può l’amore (filiale, amicale o romantico che sia) – o la sua negazione (Leo amerà Violet, la donna dell’amico, per tutta la vita) – farci salvi?

“Ogni storia vera ha parecchi finali possibili”. 

Come le interpretazioni di un quadro.

Le bugie hanno sempre un doppio: quello che dici coesiste con quello che non hai detto ma avresti potuto dire Siri Hustvedt

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