CULTURA

La superstizione resiste, oltre i progressi della conoscenza

C'è chi si agita quando accidentalmente rompe uno specchio, chi lancia il sale alle proprie spalle, chi non appoggia mai il cappello sul letto e chi, per evitare un matrimonio breve e infelice, non si sposerebbe mai di venerdì o martedì, del resto, si sa: "Di Venere e di Marte non si sposa, non si parte né si dà principio all'arte". E se al venerdì affianchiamo pure il numero 17, o se ci ritroviamo in 13 seduti attorno a una tavola imbandita, la sfortuna potrebbe essere proprio dietro l'angolo. 

"La superstizione è l'arte di mettersi in regola con le coincidenze", diceva Jean Cocteau. Oltre la scienza e il tempo, nonostante i progressi dell'alfabetizzazione e della tecnologia, le piccole o grandi superstizioni non sono scomparse, anzi, lasciano ancora segni e tracce nella quotidianità di molti, spesso insospettabili, scaramantici. Ma perché? A questa domanda prova a rispondere l'agile saggio Gatti neri e specchi rotti. Perché siamo superstiziosi (Einaudi). Le superstizioni ci aiutano a "controllare le nostre ansie, paure, insicurezze dando loro un volto, una forma e persino un numero". Da ciò che si crede porti male, e che andrà quindi evitato attentamente, ai talismani ricevuti in dono, caricati per attrarre la buona sorte - un corno rosso, un ferro di cavallo, un quadrifoglio -, "quelle che chiamiamo comunemente superstizioni sono in realtà sistemi di credenze, simboli e comportamenti che vengono da molto lontano - si legge nel saggio -. Spesso neanche ne conosciamo l'origine. Le usiamo e basta, come facciamo con il linguaggio. Ignoriamo l'etimologia di ogni parola che usiamo, eppure continuiamo a parlare. In realtà più che un residuo prelogico del pensiero, come vorrebbe un facile evoluzionismo sociologico, si tratta di una pulsione istintiva a scongiurare possibili situazioni avverse. Come se la mente mettesse le mani avanti per avere l'impressione di poter esercitare un controllo sull'esistenza". 

"Simboli e credenze che sembrano solo una paccottiglia superficiale, e che spesso vengono condivisi con la religione, in realtà hanno ragioni storiche molto interessanti". Su Il Bo Live una conversazione con Elisabetta Moro, co-autrice del libro con Marino Niola, docente di Antropologia culturale all'Università di Napoli Suor Orsola Benincasa, esperta di mitologie antiche e moderne, pratiche simboliche e religioni. "Questo libro nasce con l'obiettivo di riflettere sul in cui noi pensiamo la realtà e la ragione è una modalità attraverso cui noi facciamo esperienza della vita. Poi però c'è il pensiero simbolico, che resiste oltre l'illuminismo, oltre la spinta verso la scienza: non si tratta solo di retaggio, ma di un'altra forma del nostro pensiero. È come se il pensiero funzionasse attraverso due app, quella razionale e quella simbolica, da aprire a seconda di quel dobbiamo fare".

Il danese Niels Bohr manteneva una posizione intermedia. Premio Nobel per la fisica nel 1922, tra i padri della meccanica quantistica, esponente eccellente del pensiero scientifico, "Bohr aveva appeso un ferro di cavallo alla porta del suo studio di Copenaghen - racconta Moro -, e per questo tutti lo prendevano in giro, dicendo: Com'è possibile che un uomo razionale come te abbia un ferro di cavallo sulla porta? E lui rispondeva: Avete ragione, infatti io non ci credo, ma funziona. Io e Niola abbracciamo il suo pensiero. Ed ecco il tema: funziona come un placebo, che in qualche modo contribuisce a rassicurarci, mettendo in moto una sorta di pensiero positivo. In fondo, il superstizioso non crede che il rituale, l'amuleto, il portafortuna funzioneranno al cento per cento, ma alleggerisce un po' la propria coscienza: quest'attitudine è utile perché ridimensiona la nostra idea di onnipotenza. Siamo tutt'altro che onnipotenti, le cose possono andar bene o male per ragioni che non dipendono da noi, il superstizioso lo sa e non ha paura di dirlo e manifestarlo. Dentro questo mondo si possono trovare anche elementi per vivere meglio, non solo per impaurirsi. Siamo assolutamente contrari a maghi e fattucchiere, che approfittano delle debolezze umane per abbindolare la gente - perché nessuno può controllare la fortuna, né noi né un mago -, invece, possiamo comprendere l'esigenza di usare il pensiero simbolico per cercare di mettersi un po' al sicuro e creare le condizioni affinché la fortuna trovi spazio". In questo senso, nel saggio vengono citati due studi, uno dell'Università di Chicago e l’altro dell'ateneo di Padova (quest'ultimo condotto da Mariselda Tessarolo), secondo cui scaramanzia e scongiuri sarebbero convenienti: “Essere superstiziosi significa essere più preparati alle incognite della vita", spiega Moro.

"I riti scaramantici sono presenti in tutte le società, ma usano linguaggi diversi legati alle culture locali". In Italia si crede che se il gatto nero attraversa la strada, da sinistra verso destra, porti sfortuna (questione che mai riguarda i gatti domestici, considerati invece innocui), in Lapponia il felino dal manto scuro è invece molto amato e sempre presente, almeno in effigie, negli ambienti domestici dove viene interrogato quotidianamente come oracolo. Nell'antico Egitto era considerato addirittura una divinità. Dunque, “lo stesso simbolo può avere significati opposti in culture diverse, ma ciò che è universale è la pratica, cioè l'attribuzione a oggetti, persone, animali, numeri di una energia, una forza, un potenziale che va al di là della cosa stessa". 

Nel libro si fa riferimento anche a un galateo della superstizione: "Ci sono regole minime che non devono essere infrante", precisa Moro, che aggiunge: "Un po' come nel bon ton, è una questione di buone maniere", ci sono frasi che ricorrono nel vocabolario del superstizioso e di chi lo rispetta - in bocca al lupo, su tutte - e altre da non dire mai: "L'espressione Come ti invidio! è bandita dal lessico di chi ha un minimo di sensibilità verso i superstiziosi". Lo stesso vale per Come sei fortunato! o Andrà tutto bene! Gli auguri di compleanno o per un matrimonio, per festeggiare un successo o una vittoria, vanno pronunciati a cose fatte.

Moltissime le superstizioni che popolano la scena teatrale, dove per esempio bisogna evitare il colore viola, è proibito fischiettare o augurare buona fortuna agli attori prima dello spettacolo e in cui ogni artista crea riti scaramantici personalizzati: Luciano Pavarotti raccoglieva tutti i chiodi trovati sul palco, Eduardo De Filippo indossava solo orologi veri e funzionanti e non voleva vedere spettatori in sala con le gambe accavallate, durante le esibizioni Maria Callas indossava sempre i suoi gioielli portafortuna. 

Lo stesso vale per lo sport: il calciatore brasiliano Manoel Dos Santos, detto Garrincha, sistemava amuleti dietro la porta degli avversari per attirare la palla, il campione di tennis Rafa Nadal è famoso per l'incredibile talento e una sequenza interminabile di rituali scaramantici ripetuti in campo per tutta la carriera. Atleti ma anche studenti, perché la scaramanzia non risparmia il mondo universitario. "Io ho studiato e mi sono laureata in Lettere a Padova, con una tesi in Storia delle religioni, e ho sempre evitato di scavalcare la catena posta all'ingresso di Palazzo del Bo prima di laurearmi", racconta divertita Moro. Sembra infatti necessario passare per i varchi predisposti, seguire il percorso corretto, evitando dunque balzi e fughe in avanti. Quando nasce questa credenza? Nel secondo dopoguerra, in via VIII febbraio, nel tentativo di impedire il passaggio delle automobili, viene posta una catena all’ingresso del Bo. Inizia così una nuova tradizione inaugurata dalla goliardia: in occasione delle lauree, gli studenti venivano portati all’uscita e obbligati a correre attraversando un tunnel formato dagli amici stessi, fino al salto finale della catena. È a quel punto che si radica la superstizione: saltare la catena prima della laurea significa ritardarla o non arrivarci mai.

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