SOCIETÀ

Manuale minimo per manifestare (senza farsi male)

Dopo l’attacco in acque internazionali alla Global Sumud Flotilla, l’Italia è tornata in piazza come non accadeva da anni. A Roma, il 3 ottobre, la Cgil ha parlato di circa 300.000 partecipanti: non si vedeva una folla simile dai tempi delle grandi mobilitazioni pre-pandemia. Andando al di là dei numeri, ma forse proprio in virtù di questi, colpisce il profilo dei partecipanti: moltissimi giovani, spesso alla prima esperienza di manifestazione, e altri cittadini che fino a poco fa non si sarebbero immaginati dietro uno striscione.

È un segnale importante, che suggerisce che il desiderio di impegno civile non si è spento, ha cambiato forma, procedendo su binari separati rispetto a quelli tradizionali (che prevedevano spesso l’iscrizione a un partito, per dirne una). Questa partecipazione, però, ha portato con sé anche un piccolo effetto collaterale: la perdita delle “istruzioni per l’uso”. In passato erano i partiti, i sindacati, le associazioni o semplicemente i genitori a spiegare come comportarsi durante un corteo. Oggi, con la disaffezione alla piazza, molti rischiano di arrivare in manifestazione come a un evento qualsiasi, senza sapere bene cosa aspettarsi o cosa evitare.

Gli aneddoti su questo si sprecano, ne ricordiamo solo uno: un adolescente si stava preparando a partecipare al suo primo corteo indossando un passamontagna, non perché aveva intenzione di creare tafferugli, ma perché aveva paura che la sua professoressa, che doveva interrogarlo il giorno dopo e che aveva delle idee diverse, lo riconoscesse da eventuali video sui social. Per fortuna, il nonno, sessantottino di lungo corso, lo ha fermato in tempo, chiedendosi cosa aveva sbagliato con quel ragazzo.

Oggi, con molte manifestazioni organizzate in tempi brevi e un’attenzione pubblica tornata improvvisamente alta, vale la pena ripassare qualche regola non scritta, per ricordare che una piazza pacifica è nell’interesse di tutti: di chi manifesta, di chi garantisce l’ordine pubblico e, soprattutto, del messaggio stesso che quella piazza vuole portare, e che quindi è il caso di evitare equivoci dovuti all’inesperienza.

Il lessico della piazza

Si fa presto a dire “manifestazione", ma spesso diventa un termine ombrello per indicare cose diverse: corteo, presidio, sit-in, a volte persino flash mob.
“Un corteo – spiega Michele Iandiorio, segretario generale della Fiom-Cgil di Padova – è una manifestazione mobile, che attraversa la città secondo un percorso stabilito. Deve essere concordato con la questura: si comunica dove inizia, dove finisce, quante persone ci si aspetta che partecipino”. È la forma più classica, quella che in Italia fa pensare alle bandiere, agli striscioni e alle vie piene di cori, ma è anche la più complessa da gestire, perché implica il movimento di migliaia di persone in spazi pubblici.

Diverso è il presidio, più statico, che consiste nel concentrarsi in un luogo per un tempo definito. “Nel caso del presidio – continua Iandiorio – si comunica solo il luogo e l’orario di inizio e di fine”. Poi ci sono le forme ibride, per esempio in alcune città i presìdi annunciati subito dopo la notizia dell’attacco alla Flotilla si sono trasformati in cortei. “In quel caso” – racconta Iandiorio – “sono nate iniziative di ogni tipo, organizzate da gruppi di persone, movimenti, associazioni senza il tempo materiale per coordinarsi. Anche in casi come questo, comunque, viene avvisata la forza pubblica, è una questione di buon senso”.

Che una manifestazione rimanga pacifica è nell’interesse di tutte le persone e le istituzioni in buona fede. Dietro le poche e semplici regole non c’è un tentativo di limitare la libertà di manifestare, ma di proteggerla. Sapere che un corteo è autorizzato, che ha un percorso, un referente, un servizio d’ordine significa sapere che esistono strumenti per tutelare chi partecipa. È un modo per evitare equivoci e per impedire che la protesta si trasformi in rissa. E anche chi sceglie, legittimamente, di non seguire queste procedure dovrebbe almeno conoscerle. Come dice Iandiorio, “le regole ci sono, poi uno può anche scegliere di non rispettarle, ma deve sapere che ci sono”.

Il lessico della piazza, insomma, è anche una grammatica civile. Sapere come si dice (e come si fa) è il primo passo per non trovarsi nel panico, quando la folla si muove e nessuno capisce più dove stia andando.

La manifestazione inizia prima di uscire

Ancora prima di varcare la soglia di casa, si può fare qualcosa: capire dove si sta andando e con chi. “Bisogna informarsi su chi ha organizzato la manifestazione – spiega Michele Iandiorio – per capire se ci si trova in un contesto affidabile o improvvisato, se l’iniziativa è stata comunicata alle autorità o se si tratta di un raduno spontaneo, dove può bastare un equivoco per far degenerare la situazione. Le manifestazioni organizzate da sindacati o associazioni riconosciute di solito hanno un servizio d’ordine interno, persone identificate da pettorine, foulard o bandiere che hanno il compito di delimitare e proteggere lo spazio del corteo. Ci sono compagni e compagne che formano un cordone di sicurezza davanti allo spezzone, ai lati e dietro: camminano uno accanto all’altro, si tengono sotto braccio, e si occupano di respingere o isolare chi tenta di entrare con intenzioni poco pacifiche”. È un gesto che ricorda che la piazza è di chi ci va per esprimersi, non per provocare.

Scarpe comode, idee chiare

Prepararsi a una manifestazione significa anche vestirsi in modo funzionale. Le scarpe devono essere adatte a camminare, e possibilmente chiuse e resistenti, gli zaini piccoli, i vestiti non devono intralciare i movimenti. Meglio evitare oggetti che, in un contesto teso, potrebbero sembrare qualcos’altro. Un ombrello di ferro o una bottiglia di vetro, per esempio, sono pessimi compagni di corteo.

E poi c’è la questione del volto: come ogni nonno sessantottino insegnerebbe, mascherarsi non è mai una buona idea, anche perché, come conferma Iandiorio, chi arriva a volto coperto e di solito in gruppo andrebbe subito isolato dal servizio d’ordine, anche prima che intervenga la polizia. Vale per i passamontagna ma anche per sciarpe e cappucci tirati su fino agli occhi, gesto istintivo in inverno ma potenzialmente fraintendibile in piazza.

Quanto a cosa portare, l’essenziale basta e avanza: acqua, documento d’identità, un fazzoletto di stoffa per coprire bocca e naso se venissero usati i lacrimogeni. Qualcuno infila nello zaino un power bank o un foglietto con il numero di un avvocato, ma per ora per fortuna sembra ancora eccesso di zelo (in Italia, in altri Paesi è quasi la norma). E sempre nell’ottica del “non si sa mai”, può essere utile un k-way o un impermeabile leggero, provvidenziale se piove ma anche nel caso che l’acqua arrivi dagli idranti.

È nell’interesse di tutti che una manifestazione rimanga pacifica Michele Iandiorio

Trovare il proprio posto in mezzo alla folla

Una volta arrivati in piazza, il primo istinto è lasciarsi trascinare dal gruppo: è naturale, la manifestazione è una forma di energia collettiva: si canta, si applaude, ci si muove insieme, ma proprio per questo è importante capire dove ci si trova, perché ci sono zone più tranquille e altre più esposte.

La testa del corteo è la parte più delicata: è dove si concentrano i rapporti con la stampa, i contatti con la polizia, gli imprevisti logistici. Lì si trovano anche gli organizzatori più esperti, ma per un neofita può essere una posizione complicata: meglio stare nel mezzo o ai lati, dove si respira di più e si può defluire facilmente se dovesse servire.

E poi c’è la voce, soprattutto quella degli organizzatori, che arriva da un megafono o da un piccolo impianto. Non sempre si capisce tutto, ma conviene ascoltare. “Le indicazioni – dice infatti Iandiorio – servono per favorire la sicurezza. Se viene chiesto di fermarsi, di cambiare direzione o di lasciare spazio, è meglio farlo: è anche un modo per evitare di trovarsi involontariamente nel posto sbagliato, per esempio a ridosso del cordone della polizia.”

"Le manifestazioni - continua - funzionano quando chi partecipa si riconosce in un clima di rispetto, verso gli organizzatori e verso gli altri manifestanti, perché è nell’interesse di tutti loro che la manifestazione sia pacifica”.

Quando la piazza si scalda

Anche le manifestazioni più tranquille possono attraversare momenti di tensione. A volte basta poco: una frase al megafono fraintesa, un gruppo che decide di deviare dal percorso, un agente che reagisce in modo eccessivo.

“Nel momento in cui al megafono senti dire “forziamo il blocco” o “entriamo dentro” – consiglia Iandiorio – sarebbe meglio rimanere più defilati”, del resto difendere il carattere pacifico di una piazza è un modo di proteggerne il senso, oltre che la sicurezza. Gli episodi recenti di Padova lo confermano. Il 3 ottobre all’interporto – racconta Iandiorio – qualcuno al microfono ha detto: “Adesso entriamo dentro e blocchiamo”. Non aveva nemmeno finito di parlare che è partito l’idrante, e mentre la folla già si disperdeva sono arrivati anche i lacrimogeni”. Una sequenza che descrive bene quanto la tensione possa crescere in modo improvviso e in quei momenti la cosa più intelligente da fare è defluire, senza correre ma con decisione, cercando gli spazi laterali o le vie di fuga, se possibile individuate in anticipo. Se si è in gruppo, meglio tenersi per mano o darsi un punto di ritrovo, se si è da soli, basta seguire il flusso principale e non ostinarsi a restare per vedere come va a finire.

Chi vede nascere disordini può anche contribuire a isolarli: “Chi crea violenza – ribadisce Iandiorio – danneggia tutti: si finisce per parlare di più di quaranta facinorosi che di migliaia di persone pacifiche”.
E poi, un consiglio pratico: non reagire alle provocazioni. Non urlare, non spingere, non rispondere a ordini urlati. La calma è contagiosa quanto il panico, e spesso più efficace: la libertà di scendere in piazza non è meno forte solo perché si sceglie di fare un passo indietro, anzi. A volte, è proprio in quel passo indietro che si difende davvero il senso di una piazza.

Che i nonni sessantottini siano fieri di noi

Le manifestazioni servono, ancora. Non solo perché rendono visibile ciò che altrimenti resterebbe confinato nei commenti online, ma perché ricordano che la democrazia è fatta di corpi oltre che di opinioni e ogni volta che una piazza si riempie, si salvaguarda un pezzo di libertà. Ma perché quella piazza continui a essere uno spazio di espressione, e non di paura, serve la responsabilità di tutti: di chi organizza, di chi controlla, di chi partecipa.

“La libertà di manifestare è un diritto - dice Iandiorio -, ma come tutti i diritti va esercitato nel rispetto delle regole che lo rendono possibile”. È una frase semplice, quasi ovvia, eppure oggi va ripetuta, perché non c’è contraddizione tra passione e prudenza, tra rabbia e rispetto.

Forse è questa la vera eredità da recuperare: la capacità di stare insieme nello spazio pubblico senza trasformarlo in un ring, e di non confondere la forza di una folla con la violenza di uno scontro. Chi scende in piazza lo fa perché crede che conti ancora qualcosa dire “noi”, e questo “noi” funziona solo se resta pacifico, e se si riesce a rendere fieri eventuali nonni sessantottini, che si ritroveranno a sorridere constatando che i nipoti stanno ritrovando la voce senza perdere la testa.

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