L'orbita contesa: la battaglia degli scudi tra Washington, Pechino (e Bruxelles)
Una riproduzione artistica del Golden Dome americano in una grafica realizzata da Lockeed Martin
Chi non ha uno scudo stellare non conta. Si potrebbe riassumere così, la corsa – perdoneranno i fan della pellicola cinematografica di George Lucas – alle Star Wars, a quelle guerre stellari tanto care all’ex presidente americano Ronald Reagan. Perché, in questo complesso scacchiere che sta diventando l’orbita terrestre, agli annunci di un sistema di difesa spaziale, ne arrivano molti altri. Così non si è fatta attendere la risposta cinese al Golden Dome annunciato da Donald Trump pochi mesi fa. A distanza di un po’ di mesi, dai media e dai centri di ricerca della Repubblica Popolare Cinese sono giunte le descrizioni di una nuova architettura nazionale di allerta precoce basata su radar distribuiti, sensori multilivello e un’infrastruttura di fusione dati progettata per sostenere il momento più delicato di un conflitto: i primi cinque minuti. È una finestra temporale brevissima, ma sufficiente a determinare chi avrà il controllo delle informazioni e, di conseguenza, della capacità di risposta.
Il tema dell’orbita come nuova frontiera della difesa è stato al centro anche della Defence in Space Conference di Londra, organizzata con il contributo del Council on Geostrategy, think tank specializzato in analisi di sicurezza e difesa. In un panel dedicato alle implicazioni del Golden Dome americano e al rapido rafforzamento delle capacità missilistiche e orbitali cinesi, il vicedirettore del Think Tank, Gabriel Elefteriu, ha spiegato che lo spazio non può più essere considerato un dominio di supporto, ma il vero “centro di gravità della deterrenza e del conflitto”, perché la Golden Dome rappresenta – nelle sue parole – un vero e proprio «reset strategico» che sposta l’architettura di difesa in orbita. Collegando questa evoluzione alla costellazione di sensori e satelliti cinesi, Elefteriu ha aggiunto un avvertimento: il prossimo conflitto ad alta intensità, ha sostenuto, rischia di non iniziare nel Pacifico o in Europa, ma direttamente in orbita.
La valutazione è stata condivisa da altri analisti presenti al convegno. James Black, analista senior di RAND Europe specializzato in sicurezza e tecnologie militari, ha richiamato l’attenzione sulla finestra di pochi minuti che separa il lancio di un missile dalla sua rilevazione, una fase ormai affidata quasi interamente ai sensori in orbita e ai sistemi di tracciamento collegati a terra. Nella stessa sessione, Kate Devlin, ricercatrice del King’s College di Londra con competenze sulla resilienza delle infrastrutture critiche, ha evidenziato il nodo più fragile della catena: la capacità di mantenere operative osservazione e comunicazioni in quei minuti iniziali definisce i margini complessivi del confronto, militare ma anche civile. Il messaggio emerso dal panel è stato unanime: vedere per primi, integrare i dati e proteggere le comunicazioni non è più un vantaggio, ma la condizione stessa della deterrenza.
In questo scenario, accanto alla competizione tra Stati Uniti e Cina entra anche l’Europa, che sta accelerando proprio sull'European Space Shield e si prepara al Consiglio ministeriale dell’Agenzia spaziale europea di fine novembre, dove si decideranno budget e priorità.
Il Golden Dome americano e il nuovo centro di gravità del conflitto
Il Golden Dome è stato presentato come una cupola antimissile multilivello: radar ad alta sensibilità, una rete di sensori in orbita, intercettori progettati per colpire minacce sia balistiche sia ipersoniche e una catena di comando in grado di reagire quasi in tempo reale. Nella retorica politica, lo scudo viene descritto come un elemento di protezione del territorio nazionale; nella lettura degli esperti, rappresenta soprattutto un tentativo di spostare il baricentro della sicurezza strategica nello spazio e nella sua infrastruttura.
La somiglianza con la Strategic Defense Initiative degli anni Ottanta è evidente, ma il contesto è diverso. All’epoca, l’idea di uno “scudo spaziale” era legata soprattutto a concetti ancora sperimentali, in un ambiente orbitale meno affollato e meno integrato con l’economia civile. Oggi, invece, il Golden Dome si inserisce in un ecosistema saturo di satelliti commerciali, costellazioni, servizi di osservazione della Terra su cui si appoggiano filiere industriali e catene logistiche. Un attacco o una difesa in orbita non restano confinati al livello militare, ma possono riflettersi immediatamente su economia, finanza, trasporti.
Per Elefteriu, il Golden Dome rappresenta “il più importante spostamento degli equilibri strategici da una generazione”. L’architettura punta a integrare sensori orbitanti, algoritmi di analisi basati su intelligenza artificiale e un sistema di comando distribuito capace di intervenire in una finestra temporale minima, misurabile in decine di secondi. Al di là delle ambizioni tecnologiche, resta un punto fermo: senza una rete di satelliti affidabile, nessun sistema antimissile terrestre può funzionare.
La risposta di Pechino: uno scudo radar “distribuito”
La Cina ha scelto un approccio diverso, almeno nella narrazione pubblica. Non ha presentato nuovi intercettori, né immagini di sistemi d’arma spettacolari. Ha invece messo al centro una rete di radar distribuiti e sensori multimodali in grado di costruire un’immagine coerente e continua dello spazio di battaglia. Prima ancora del missile, conta la capacità di sapere chi l’ha lanciato, in quale direzione e con quali possibili bersagli.
Il progetto è descritto in un articolo pubblicato sulla rivista Modern Radar, collegata al gruppo statale China Electronics Technology Group Corporation, interamente controllato dal governo cinese. Il paper parla di una “piattaforma di China Electronics Technology Group Corporation distribuita su larga scala” capace di fondere dati provenienti da satelliti, radar terrestri, sensori ottici, piattaforme marittime e velivoli.
La rete si basa su protocolli a bassa latenza progettati per resistere a interferenze e cyber-attacchi e per continuare a funzionare anche in condizioni di forte congestione elettromagnetica. Il modello teorico indica la capacità di tracciare fino a un migliaio di oggetti in arrivo in simultanea, un numero che dà la misura della scala a cui Pechino pensa l’eventuale saturazione dei propri sistemi. Commentatori cinesi citati dal quotidiano Asia Times sostengono che un primo prototipo della piattaforma sarebbe già stato testato a livello militare. Il Golden Dome, nella loro narrazione, avrebbe “cervello, nervi e pugno”; la Cina rivendica di avere già il “pugno” dei missili ipersonici e di inseguire ora il “cervello”, ossia la superiorità di rete e di fusione dati. È un modo per ribaltare il racconto statunitense e presentare il Paese come più vicino all’operatività di quanto non siano gli Stati Uniti con il loro scudo ancora in fase di definizione.
I primi cinque minuti che decidono tutto
Il ragionamento presentato a Londra converge su un punto: la prossima crisi internazionale potrebbe aprirsi in orbita. La finestra critica è quella iniziale, quando tutto dipende dall’affidabilità della catena di allerta spaziale. Se un satellite viene accecato o isolato, se una costellazione è saturata da interferenze, l’intero ciclo decisionale si riduce a pochi minuti, esponendo decisori politici e vertici militari a un rischio di errore elevatissimo.
In questa fase si concentrano almeno tre vulnerabilità. La prima è l’accecamento dei satelliti, ottenuto non necessariamente distruggendoli, ma disturbando i sensori o saturando le immagini. La seconda è l’interferenza sulle comunicazioni, che può interrompere il flusso di dati tra le piattaforme in orbita e le stazioni a terra. La terza è la saturazione dei radar terrestri e dei centri di comando, costretti a gestire un numero sproporzionato di tracce in arrivo.
Un danneggiamento anche parziale dell’infrastruttura orbitale avrebbe effetti diretti sui servizi civili: telecomunicazioni, navigazione satellitare, osservazione della Terra, sincronizzazione dei network energetici e finanziari. Lo spazio, che per anni è stato raccontato come un dominio “lontano”, è ormai parte dell’infrastruttura critica globale. Toccare i satelliti significa toccare la vita quotidiana di interi Paesi.
Non è un caso che il cinema abbia intercettato questa transizione prima della politica. In A House of Dynamite, l’ultimo film di Kathryn Bigelow, la crisi esplode proprio in orbita: satelliti neutralizzati, reti che cedono, centri di comando costretti a prendere decisioni in assenza di una visione completa. È fiction, ma sempre più vicina alle analisi strategiche discusse nelle conferenze internazionali. Il film restituisce, in forma narrativa, la sensazione di precarietà che gli addetti ai lavori descrivono con il linguaggio dei grafici e dei diagrammi.
Leggi anche: A House of Dynamite: Bigelow riscrive (meglio) il disaster movie
Il cartone cinese che inquieta Washington
Il clima è alimentato anche da prodotti culturali come il progetto Nantianmen, una serie animata promossa da media e aziende legate all’aerospazio cinese. Nelle sequenze compaiono stazioni orbitali armate, sciami di droni, laser, spazioplani ipersonici che entrano ed escono dall’atmosfera come se il confine tra cielo e spazio fosse un semplice passaggio di livello in un videogioco.
Ufficialmente, Nantianmen è presentato come un concept futuristico ed educativo, pensato per avvicinare i più giovani alla scienza e alla tecnologia. Molti analisti americani lo interpretano però come un indicatore culturale: un modo per normalizzare nella popolazione l’idea di un conflitto orbitale e, al tempo stesso, per anticipare possibili linee di sviluppo che uniscono dominio aereo e dominio spaziale.
L’Europa cerca un proprio scudo
Anche l’Europa ha compreso che la sua dipendenza dai servizi orbitanti è diventata troppo critica per essere ignorata. Accanto all’European Sky Shield tedesco, nato per la difesa antimissile terrestre e per la messa in comune di sistemi come Patriot, SAMP/T o Arrow, Bruxelles sta lavorando allo European Space Shield, dedicato alla protezione delle reti satellitari e alla resilienza delle infrastrutture critiche che da esse dipendono.
L’Agenzia spaziale europea sta cercando di rafforzare il programma European Resilience from Space, pensato per integrare osservazione, comunicazione e risposta alle crisi. Nel linguaggio tecnico, si parla di “resilienza dei servizi”; nella realtà, significa garantire che, in caso di conflitto o disastro, l’Europa possa continuare a utilizzare i propri satelliti per coordinare soccorsi, monitorare frontiere, gestire flussi energetici. È un cambio di prospettiva: lo spazio non è più solo un laboratorio scientifico o un’industria in crescita, ma un elemento della sicurezza collettiva.
Il Consiglio ministeriale dell’ESA: la partita del budget
La discussione entrerà nel vivo a fine mese, quando i ministri europei si riuniranno a Brema per definire il budget triennale dell’ESA. L’agenzia chiederà un aumento significativo per sostenere i programmi di osservazione, resilienza e sicurezza, inclusi quelli potenzialmente collegati allo European Space Shield e alle future costellazioni “di sicurezza” a supporto delle politiche dell’Unione.
Per riuscirci, però, l’Europa dovrà riconoscere lo spazio non come semplice capitolo della politica industriale o della ricerca, ma come componente a tutti gli effetti della propria sicurezza strategica. Questo implica affrontare anche il problema della frammentazione tra politiche nazionali, forze armate, agenzie civili e strutture europee. Il Consiglio ministeriale di Brema non risolverà da solo questi nodi, ma segnerà la direzione di marcia: se i governi saranno disposti a investire in programmi che hanno una chiara componente di sicurezza, o se continueranno a considerare lo spazio soprattutto come un volano economico e tecnologico.
Norme deboli, minacce rapide: manca il quadro giuridico
Su questo sfondo, emerge la fragilità del quadro giuridico internazionale. Il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967 non affronta le minacce oggi più rilevanti: laser, jammer, sistemi antisatellite, cyber-attacchi diretti a segmenti spaziali o alle infrastrutture di terra. Mancano meccanismi condivisi di trasparenza e di notifica degli incidenti, così come canali di de-escalation rapida per gestire malintesi e incidenti in orbita.
Il paradosso è evidente: scudi formalmente difensivi possono essere percepiti come strumenti offensivi, soprattutto se integrano capacità di “negazione di servizio” nei confronti dell’avversario. Una costellazione in grado di interferire con le comunicazioni o la navigazione di un altro Paese può essere considerata, di fatto, un’arma. In assenza di regole chiare, cresce il rischio di reazioni a catena e di errori di valutazione in un ambiente in cui le decisioni devono essere prese molto rapidamente e spesso sulla base di informazioni incomplete.
L’orbita come nuovo fronte, tra immaginario e realtà
La convergenza tra dottrina militare, cultura popolare e sviluppo tecnologico rende lo spazio un terreno sempre più instabile. Film come A House of Dynamite e progetti come Nantianmen non prefigurano il futuro, ma intercettano un cambiamento di percezione: la crisi potrebbe iniziare in un luogo che per decenni abbiamo considerato neutrale, lontano, quasi astratto.
Mentre Stati Uniti e Cina accelerano, l’Europa deve decidere quale ruolo intende giocare. Le scelte dei prossimi mesi — dal budget dell’ESA alle politiche nazionali su Sky Shield e Space Shield, fino ai programmi di sorveglianza dello spazio profondo — diranno se il continente resterà spettatore o diventerà attore nel nuovo teatro orbitale. Perché il confine tra immaginario e geopolitica, oggi, non è mai stato così sottile. E la linea lungo la quale potrebbe rompersi passa sempre più spesso sopra le nostre teste, nello spazio che finora abbiamo considerato soprattutto come una promessa di progresso e che, invece, rischia di diventare il primo terreno di un confronto armato.