CULTURA

A House of Dynamite: Bigelow riscrive (meglio) il disaster movie

Kathryn Bigelow ha sempre amato raccontare il potere e la violenza attraverso i meccanismi della tensione. Con A House of Dynamite, presentato in anteprima mondiale a Venezia e in uscita su Netflix il 24 ottobre 2025, prende di nuovo in prestito l’estetica dei grandi blockbuster americani, da Armageddon a Air Force One, fino a Independence Day, e la svuota dall’interno. Qui non ci sono eroi pronti a sacrificarsi (o meglio, se ci sono non ce lo fanno sapere), né esplosioni spettacolari che risolvono tutto all’ultimo minuto. L’unica cosa che accade davvero è che vengono avvistati dei missili, probabilmente nucleari.

Il film infatti si svolge in un arco temporale ristretto, quasi in tempo reale, e segue i punti di vista di diversi personaggi chiusi nei centri di comando. Il rischio atomico aleggia su ogni scena, ma la regista preferisce sospendere lo spettatore in una tensione continua piuttosto che dire tutto, costringendolo a condividere l’angoscia di chi deve prendere decisioni irreversibili con dati incerti a disposizione.

Dentro la macchina della tensione

Guardando A House of Dynamite ci si accorge subito che la tensione non nasce da quello che accade, ma da quello che sappiamo potrebbe accadere. Bigelow ci porta dentro le war room con la stessa precisione con cui in passato ci aveva fatto vivere l’adrenalina dei soldati in Iraq in The hurt locker o le cacce all’uomo di Zero dark thirty. Ma qui cambia la prospettiva: non siamo più in prima linea sul campo, ma in spazi chiusi, claustrofobici, dove la guerra si gioca a distanza con mappe, monitor e segnali radar. È una guerra senza nemici precisi e senza spari, eppure ogni decisione pesa come un colpo di mortaio.

La fotografia di Barry Ackroyd contribuisce in modo decisivo a questa sensazione: la macchina da presa si muove nervosa tra i tavoli delle sale operative, indugia sui volti dei militari e dei politici mentre cercano di interpretare segnali incomprensibili, alterna dettagli minimi a campi larghi: Ackroyd viene dal cinema realista e documentario, e qui trasforma gli spazi di potere in ambienti saturi di tensione, più simili a gabbie che a uffici di governo.

Un altro elemento fondamentale per sostenere la tensione, è il suono: il terrore nucleare è invisibile, e per renderlo tangibile vengono usati i bip intermittenti dei radar, il brusio costante delle comunicazioni radio, i silenzi improvvisi che parlano senza dire: tutto è studiato per amplificare il senso di attesa, e ogni spettatore finisce per sentirsi parte di quel sistema nervoso in fibrillazione, prigioniero di un ritmo che non dà tregua.

“Non è un altro stupido”… disaster movie

Sono questi meccanismi che rendono il film molto diverso da quello che ci si potrebbe aspettare guardando solo il trailer. Di solito un disaster movie regge la tensione alternando momenti di calma apparente a grandi scene d’azione. In A House of Dynamite, invece, la tensione è continua, senza clamori ma più subdola. Non ci sono sequenze “spettacolari” nel senso classico, ma una lunga immersione in cui il tempo si dilata e ogni minuto sembra eterno. Lo spettatore diventa parte di tutto questo: non può fare altro che aspettare, come i personaggi, che qualcosa accada. È un cinema che ribalta le regole hollywoodiane, e proprio per questo funziona.

La sceneggiatura di A House of Dynamite è costruita come un mosaico di punti di vista: non c’è un unico eroe che guida la narrazione, non c’è un presidente che sale sull’aereo per pilotare la nazione verso la salvezza, non ci sono scienziati pronti a sacrificarsi all’ultimo minuto per deviare la traiettoria del missile. Quello che vediamo è un coro di voci: militari, politici, consiglieri, tecnici, tutti impegnati a interpretare segnali ambigui.

Bigelow sceglie di sottrarre invece che aggiungere: se Armageddon o Independence Day facevano della catastrofe il motore dell’azione, qui la catastrofe è solo una possibilità, un’ombra che incombe. Il film non si muove verso la grande esplosione finale, ma resta sospeso, trattenuto in un presente che non si scioglie mai. La tensione nasce proprio da questa rinuncia: il cinema hollywoodiano ci ha abituati a pensare che ogni disastro contenga già in sé la sua catarsi, mentre A House of Dynamite ci lascia in una condizione di incertezza che è molto più inquietante.

Anche i personaggi rispecchiano questa logica. Non ci sono eroi puri, ma figure contraddittorie, ognuna con il proprio carico di paure e di responsabilità. Il presidente, interpretato da Idris Elba, non è un comandante carismatico alla Harrison Ford: è un uomo costretto a prendere decisioni sproporzionate rispetto alle informazioni che ha. La comandante Olivia Walker (Rebecca Ferguson) non è la super-soldata invincibile: è un’ufficiale che lotta contro il tempo, contro i limiti della tecnologia e con la paura per la sua famiglia. Persino i personaggi minori, come il generale di Tracy Letts o il segretario della difesa di Jared Harris, sono tratteggiati come uomini sotto pressione, non come pedine pronte al sacrificio per la bandiera.

In questo modo il film rovescia i cliché del cinema catastrofico americano: non ci offre il conforto della vittoria né la commozione del sacrificio eroico, ma ci consegna un’umanità fragile, smarrita, costretta a navigare nel buio, e ci obbliga a guardarla da vicino, senza scappatoie, senza l’illusione che qualcuno arriverà a salvarci all’ultimo minuto.

Una paura mai sopita

Se A House of Dynamite funziona è anche per la lucidità con cui Kathryn Bigelow affronta un tema politico scomodo: la normalizzazione della minaccia nucleare. L’idea che la possibilità dell’annientamento reciproco sia diventata parte della nostra quotidianità, accettata come “difesa” e interiorizzata fino a sembrare naturale.

Bigelow attinge a un ricordo personale, raccontato anche nelle interviste: da bambina, durante la Guerra Fredda, le insegnavano a nascondersi sotto i banchi in caso di bombardamento atomico: un gesto ridicolo, se visto con occhi adulti, ma allo stesso tempo rivelatore di come intere generazioni abbiano imparato a convivere con l’assurdità. A House of Dynamite riattiva quella memoria, ma la spinge nel nostro presente, dove i radar e i sistemi antimissile sembrano offrire protezione, ma in realtà ci ricordano che basta un errore per far precipitare il mondo nel baratro.

Il film è costruito proprio su questo paradosso: gli sforzi titanici di centri di comando ipertecnologici per difendersi da un attacco che, se arrivasse davvero, sarebbe quasi impossibile da fermare. I missili avvistati restano in volo per tutto il film, e la macchina del potere si agita per ore, è un racconto che smaschera l’assurdità della “deterrenza”, mostrando che l’unico esito possibile di una strategia simile è il collasso.

Raccontare la paura in modo diverso

Una parte della forza di A House of Dynamite sta nel pensiero laterale con cui Bigelow costruisce le sue storie. La regista, prima donna a vincere l’Oscar per la miglior regia (The Hurt Locker, 2010), ha costruito la sua carriera smontando i generi dall’interno: in Point Break aveva trasformato l’azione in un racconto di ossessioni, in Strange Days aveva usato la fantascienza per parlare di memoria e violenza, in Zero Dark Thirty aveva raccontato la caccia a Bin Laden senza mai cedere alla retorica patriottica. Qui compie un passo ulteriore: prende l’estetica hollywoodiana dei disaster movie e la priva della catarsi, lasciando solo la tensione e la paura sospesa. È un gesto radicale, ma perfettamente coerente con la sua poetica.

Il cinema ha raccontato spesso la paura atomica: negli anni Sessanta Kubrick aveva scelto la satira con Il dottor Stranamore, mentre Fail safe di Sidney Lumet puntava su un realismo spietato, ambientato anch’esso nelle sale di comando, poi negli anni Ottanta The day after aveva scioccato gli spettatori mostrando gli effetti di un conflitto nucleare su una città americana. Bigelow sceglie una strada diversa: non mostra né la satira né la catastrofe, ma l’attesa stessa, quella sospensione in cui tutto può accadere e niente accade.

Tra Netflix e la sala

Il film arriva nelle sale l’8 ottobre, mentre l’uscita su Netflix il 24 ottobre garantisce al film una visibilità globale, ma la dimensione sonora e visiva rendono la sala il luogo ideale per viverlo: è lì che i bip dei radar e i silenzi improvvisi diventano davvero opprimenti. Detto questo, se proprio si dovesse scegliere uno solo dei titoli della Mostra del cinema da godere sul grande schermo, forse la priorità andrebbe data a Frankenstein, che punta tutto sulla potenza visiva e scenografica, concepita come un quadro dopo l’altro. A House of Dynamite resta comunque un’esperienza forte, ma il suo impianto claustrofobico regge benissimo anche su uno schermo domestico.

In ogni caso, Bigelow ci consegna un film che non offre soluzioni né catarsi. L’apocalisse nucleare resta in sospeso, e con essa resta sospesa la nostra sicurezza. Il cinema, qui, diventa specchio di un presente che non promette salvezza, ma che ci ricorda che viviamo costantemente in bilico.

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