CULTURA

Venezia 82: Bugonia, tra complottismo e paranoia Lanthimos convince meno

Ai festival internazionali Yorgos Lanthimos è ormai di casa: dal 2009, quando con Dogtooth scosse la sezione Un Certain Regard di Cannes, il regista greco non ha mai smesso di portare nei festival le sue parabole disturbanti o intelligentemente divertenti. Al Lido ha presentato Alps nel 2011, ha conquistato pubblico e critica con La favorita nel 2018, ha vinto con Povere creature nel 2023. All’82esima Mostra del Cinema di Venezia torna con Bugonia, insieme a Emma Stone alla quarta collaborazione con lui e Jesse Plemons, di nuovo al suo fianco dopo Kinds of Kindness.

Bentornato al Lanthimos inquietante

Bugonia si presenta come una commedia nera sul complottismo, ma non si limita a questo: due cugini, Teddy (Plemons) e Don (l’esordiente Aidan Delbis) rapiscono Michelle (Emma Stone), una CEO potente e impenetrabile, convinti che sia un’aliena infiltrata sulla Terra per distruggere gli esseri umani, la rinchiudono in uno scantinato e le chiedono un incontro con l’imperatore della sua gente.

L’intero film gioca sul dubbio: i due sono svalvolati come sembrano o lei è davvero un’aliena? Il punto è che Lanthimos, fedele al suo stile, non costruisce mai il racconto come un thriller classico. I rapitori non hanno l’aura minacciosa dei villain, ma quella ridicola dei fanatici da forum online; il senso di catastrofe imminente, cifra stilistica del Lanthimos in versione perturbante (quello di The lobster, per intenderci), però, non abbandona mai gli spettatori, perché si sa che i complottisti sanno essere più pericolosi che sagaci.

Complottismo e capitalismo: un connubio esplosivo

La sceneggiatura inserisce a tratti anche una satira dell’aziendalismo più becero: Michelle, parlando ai suoi dipendenti, annuncia che possono uscire alle 17.30, a meno che non ci sia ancora lavoro da fare: anche in quel caso potrebbero uscire a quell’ora, l’importante è tenere sempre presente i bisogni dell’azienda, quindi in coscienza ognuno potrà fare ciò che vuole. E che decida per il meglio.

Quando gli alieni e l’alienazione capitalistica si fondono, nascono personaggi come Michelle, che cerca di trattare con i rapitori come lo farebbe con un dipendente che chiede l’aumento: tanta assertività vuota, che finge di accontentare la controparte per renderla più malleabile, come fa con Teddy, quando gli fa credere di aver contattato il quartier generale, ma lui non ci casca, perché non lo aveva fatto nella loro lingua aliena.

Le api e il senso del grottesco

Il film si apre e si chiude con le api. Teddy, che le alleva, le usa come prova definitiva della minaccia aliena: la loro scomparsa sarebbe un piano esterno per annientare la Terra, ma il sottotesto della sceneggiatura è chiaro: non servono extraterrestri per sterminarle, bastano le azioni degli esseri umani. 

Lanthimos non lascia che la metafora resti sospesa fino alla fine: quando le api riappaiono nell’ultima sequenza, il cerchio si chiude con un’amara ironia: il mondo che i complottisti cercano malamente di proteggere è in realtà già condannato da chi lo abita.

Complottisti sempre meno credibili

È anche qui che emerge il nucleo ironico del film: il complottismo è diventato talmente grottesco che, anche se per una volta ci azzeccasse, nessuno ci crederebbe più: Teddy e Don sono personaggi talmente caricati da sembrare figure da farsa, non importa quanto insistano, quanto cerchino di smascherare Michelle: la loro stessa immagine li condanna all’irrilevanza. È un paradosso contemporaneo che Lanthimos coglie bene: in un mondo saturato di fake news e teorie deliranti, persino un complotto reale passerebbe inosservato, infatti lo spettatore non prende mai sul serio le loro teorie.

Un’estetica quasi plastica

Dal punto di vista visivo, Bugonia alterna due registri: da una parte l’estetica patinata degli spazi di Michelle: la villa con vetrate e piscina, la scenografia del potere che si mette in mostra senza pudore. Dall’altra, lo scantinato claustrofobico in cui i due cugini rinchiudono la donna: corridoi stretti e una luce che isola i volti più che illuminarli. È il contrasto tra grandiosità e miseria, tra la superficie scintillante del capitalismo e l’angustia paranoica del complottismo.

La fotografia di Robbie Ryan sfrutta l’ampiezza del formato VistaVision per rendere ironicamente monumentale ciò che in realtà è piccolo e patetico, come fa con il volto del protagonista in pieno delirio, che sembra scolpito nel marmo. È la stessa destrezza che Lanthimos aveva mostrato in La favorita, dove la corte inglese diventava un palcoscenico deformato da grandangoli quasi impossibili.

Un cast da 10 e lode che tiene su l’intero film

Se Bugonia regge, nonostante la criticità che vedremo, lo fa soprattutto grazie ai suoi personaggi. Lanthimos li piazza come pedine su una scacchiera claustrofobica, ognuno con un ruolo preciso. Teddy è la forza motrice: un complottista convinto con una sicurezza talmente granitica da diventare comica. Don (Aidan Delbis) è invece la brutta copia del cugino: lo segue per fedeltà, ma non ne condivide al 100% la convinzione. È un allievo imperfetto, e proprio per questo diventa la figura più tragicomica del film (più tragica che comica, alla fine).

Delbis, qui al suo esordio importante, regala un’interpretazione sorprendente per misura e credibilità: non è mai sopra le righe, ma è capace di trasmettere incredulità, paura e bisogno di approvazione. Non è il caso di evocare già adesso Coppe Volpi, perché il film è tra i primi sbarcati a Venezia, ma la sua presenza resta uno degli elementi più convincenti e, al di là dei premi, resta la sensazione che Delbis sia riuscito a tenere testa a due interpreti enormi come Stone e Plemons senza risultare fuori posto. È un equilibrio raro per un esordiente, e forse il dono più inaspettato che il film lascia.

Michelle (Emma Stone) è la vera antagonista, o forse il vero motore del film. È l’incarnazione di un capitalismo elegante e feroce, capace di travestire la violenza con sorrisi e concessioni apparenti. Stone, che con Lanthimos ha già attraversato registri diversissimi, qui torna a una recitazione fatta di ironia sottile, capace di trasformare anche le situazioni più degradanti (legata, rapata, cosparsa di crema, umiliata) in espressione di potere. È la sua cifra: non è mai vittima, neppure quando sembra esserlo: la sua ironia riesce sempre a trasparire anche nei momenti più drammatici.

L’atmosfera claustrofobica è, di nuovo, cifra registica

Insieme, questi personaggi compongono il mosaico tipico di Lanthimos: un gruppo chiuso, claustrofobico, regolato da dinamiche che oscillano tra il rituale e l’assurdo. In Il sacrificio del cervo sacro la claustrofobia era domestica, in La favorita era politica, in  The Lobster era distopica, in Povere creature era legata al genere. Qui diventa paranoica: lo spazio ristretto dello scantinato diventa il teatro dove capitalismo e complottismo si fronteggiano, senza che nessuno dei due appaia davvero più umano dell’altro.

Un film che non convince del tutto

Nonostante le ottime performance attoriali, la sensazione è che il regista cerchi un equilibrio instabile tra i suoi registri: il disagio glaciale dei primi film, la comicità grottesca di La favorita, la visionarietà di Povere creature. Bugonia vuole essere tutto insieme, e a tratti ci riesce, ma per il resto del tempo sembra un collage che non si ricompone del tutto.

Forse Bugonia non è il miglior film di Lanthimos, e forse il suo tentativo di fondere tutti i registri della sua carriera non funziona fino in fondo, ma vale la pena vederlo per il piacere della sua comicità paradossale, la prova impeccabile di Emma Stone e la rivelazione di Aidan Delbis. Bugonia è un’opera che costringe a guardare negli occhi l’assurdità contemporanea, in un tempo in cui i complotti si moltiplicano, i poteri si travestono, e la verità, come le api, sembra sempre più rara.

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