CULTURA
Venezia 82: Duse di Marcello, un mito che non ne vuole sapere di spegnersi

Crediti: Erika Kuenka
Ci sono artisti che diventano icone perché sanno incarnare un’epoca, e altri che lo diventano perché resistono a essa: Eleonora Duse appartiene alla seconda categoria. Nel film che Pietro Marcello le dedica, presentato in concorso all’82esima Mostra del Cinema di Venezia, non vediamo la Divina che il pubblico del primo Novecento idolatrava, ma una donna che sceglie di restare artista anche quando tutto sembra spingerla verso la resa, continuando a bruciare di passione fino all’ultimo, in un rifiuto ostinato di lasciarsi inghiottire dal buio.
Cosa c’è dopo la fama?
Marcello non firma un biopic tradizionale, non si interessa a una ricostruzione lineare della vita dell’artista, ma concentra lo sguardo sugli ultimi anni, quelli più fragili, segnati dalla malattia, dai rovesci economici, da un paese che si avvia verso l’oscurità. Camus diceva che la bellezza è dove qualcuno resiste senza speranza: è proprio qui che Duse appare più viva, come una stella che sta per spegnersi in un tripudio di luce, quando non ha più nulla da dimostrare, ma sceglie di continuare nonostante tutto. La sua è una ribellione silenziosa e radicale: recitare non è un mestiere, non è un lusso, non è neppure un obbligo economico, è l’unica forma di vita possibile per lei.
L’arte oltre il denaro
All’inizio di questa storia Eleonora Duse confida che vuole organizzare un ultimo spettacolo solo per pagare i debiti: un gesto di chiusura dignitoso, un modo per rimettere a posto le cose, ma non è la verità, infatti quando Mussolini le offre un vitalizio, togliendole di mezzo i problemi economici, lei insiste a voler recitare, anche se è piegata dalla malattia. Perché? Perché non è mai stato solo denaro, né desiderio di fama: la sua è una necessità profonda di esistere attraverso l’arte.
La luminosità della stella
Valeria Bruni Tedeschi, nei panni della protagonista, appare fragile e luminosa allo stesso tempo: un corpo che trema e si piega, ma anche un volto che si illumina di quella luce naturale che il regista sa catturare come un’aura che va oltre l’immagine concreta. Gli occhi azzurri di Bruni Tedeschi, spesso inondati da chiarori morbidi, diventano il simbolo visivo del mito che non si spegne: il corpo può cedere, ma lo sguardo brilla ancora; è una grammatica visiva che traduce l’idea della resistenza come unica scelta: il corpo esita, la luce resiste a dispetto di tutto. È giusto arrivare allo stremo, trascurare ogni cosa, anche la famiglia e gli affetti per la propria arte? Marcello non ce lo dice, ma del resto nemmeno importa, perché è quello che Duse era nata per fare.
Il confronto con Martin Eden
La regia è radicalmente diversa da quella che Marcello aveva adottato in Martin Eden. Lì si lasciava trascinare dal romanticismo e dall’affettazione, costruendo un film pieno di ambizione ma anche di pesantezza. Qui invece tutto scorre più fluido: l’attenzione non è sulla costruzione estetizzante di un mito letterario, ma sull’ostinazione quotidiana di una donna che non si lascia piegare: Duse non ha bisogno di solennità forzate, la forza sta già nella decisione di non fermarsi, nel rifiuto di accettare la resa.
Eleonora Duse possiede già in sé una forza narrativa che basta da sola a sostenere il film e così Marcello può essere più scorrevole, meno compiaciuto rispetto a Martin Eden. Evita di costruire quadri barocchi o allegorie ridondanti, e lascia che siano i gesti della protagonista a parlare: un respiro corto dietro le quinte, una lettura domestica trasformata in performance, un rifiuto pronunciato sottovoce che pesa più di un proclama. È in questa economia di mezzi che Duse trova la sua grandezza, riuscendo laddove Martin Eden si inceppava: non ci sono manierismi a sovrastare la storia, ma una narrazione che procede con naturalezza, come il respiro ostinato di chi non vuole arrendersi, non serve altro per capire quanto costi a Eleonora restare Eleonora.
La storia di una scelta
Alla luce di questo, si può dire che il film diventa una dichiarazione di poetica: si racconta la Duse non come attrice del passato, ma come artista che, 100 anni dopo, continua ad affascinarci e a riempirci di domande. Cosa saremmo disposti a sacrificare per rimanere fedeli a quello in cui crediamo? Quando sarebbe giusto ascoltare il corpo e fermarsi, e quando invece fermarsi significherebbe morire?
Il film, coerente con questa immagine, fa di quel no al vitalizio un atto di libertà: un rifiuto elegante ma fermo di farsi “possedere” dal potere.
“ Mussolini ti ha sepolto sotto un'elemosina D'Annunzio a Duse nel film
L’ottusità delle buone intenzioni
Le persone intorno a lei cercano di proteggerla: familiari e collaboratori invocano prudenza, provano a “metterla via” gelosamente, come si fa con le cose preziose. La risposta di Eleonora, nel film, è una frustata che riassume un carattere: «Volete seppellirmi mentre sono ancora viva». Non è un semplice rifiuto: è una definizione perfetta di cosa significhi per lei vivere, perché restare viva equivale a restare in scena, e toglierle il palcoscenico significa toglierle il battito vitale.
Sempre sul palcoscenico
In controluce scorre un’altra scena solo apparentemente minore: la lettura di Pinocchio ai nipoti. Potrebbe essere un momento domestico, tenero, invece Duse ci si getta come in una “prova generale”: i toni, i tempi, la metamorfosi della voce fanno spaventare i bambini, perché Eleonora non “fa finta di”, è la Divina, e quindi anche la stanza dei giochi diventa palcoscenico. Non esiste una Duse pubblica e una privata, esiste un’unica fiamma che divampa ovunque, dal teatro alla casa.
In questo senso la Duse filmata da Marcello si contrappone a molte icone femminili della sua epoca, a partire da Sarah Bernhardt, la grande rivale, che aveva incarnato la teatralità enfatica, fatta di declamazioni e gesti grandiosi. La Duse invece vive di sottrazione: i critici del tempo la descrivevano come un’attrice che “recitava col silenzio”, che sapeva rendere l’intensità con mezzi minimi, come in una favola. Marcello raccoglie questa tradizione e la rilancia sullo schermo: la sua Duse non si esaurisce in un ruolo, ma resta fuoco vivo anche quando la scena sembra vuota.
L’arte come resistenza alla Storia
Pietro Marcello intreccia la parabola personale dell’attrice con la grande Storia, e mostra come l’arte, per Eleonora, fosse un atto politico, anche quando non voleva esserlo.
Sullo sfondo si agitano i segni di un paese in bilico: la Grande Guerra che ha lacerato l’Italia, il dopoguerra segnato da miseria e tensioni sociali, l’ascesa del fascismo. In questo scenario la Duse appare come una figura pubblica di cui tutti cercano di appropriarsi, a partire da Mussolini stesso quando le offre il vitalizio: un gesto che è insieme omaggio e tentativo di inglobarla nell’orbita del regime, facendone un monumento vivente.
Il rifiuto di Eleonora, nel film, è tanto semplice quanto radicale: accettare significherebbe rinunciare alla sua identità di artista, mentre preferisce recitare, anche malata, anche quando ogni respiro costa fatica. È un atto di libertà che pesa più di mille discorsi: Eleonora Duse non si lascia spegnere e sceglie di non piegarsi alla propaganda.
È qui che Duse trova il suo nucleo politico: Marcello mostra come l’arte possa opporsi al potere semplicemente insistendo su se stessa, senza proclami, come lei aveva detto a proposito di d’Annunzio del film (ha sbagliato, non si è fidato abbastanza della sua poesia, avrebbe dovuto insistere). Eleonora non arringa, non protesta: recita, e in quella ostinazione c’è la sua forma più alta di resistenza.
Duse non consola e non celebra, ma lascia nello spettatore un senso di ammirazione profonda, un desiderio di essere all’altezza portando la grandiosità nella propria vita quotidiana, nel sacrificio che non ci piega, ma va a definirci come persone. E questo accade non tanto per le sue prove d’attrice, quanto per l’idea che trasmette: l’arte non è un mestiere, è un destino, e si muore davvero solo quando si smette di recitare.