CULTURA

Cinema, l’eterna tentazione di un Veneto immutabile

Nel maggio 1966 il Festival di Cannes assegnò il massimo premio a Signore e signori, un film di Pietro Germi ambientato a Treviso e dintorni. La rassegna cinematografica più prestigiosa al mondo, la più snob, la più cosmopolita attribuiva il Grand Prix a una commedia parlata in prevalenza in dialetto veneto, che raccontava goliardate, corna, bevute, feste, vicende boccaccesche di un gruppo di amici di mezza età che avevano come universo e orizzonte invalicabile le piazze, i bar, gli alberghetti, le botteghe di una cittadina piccola e pettegola, benestante e un po’ gretta, gaudente e ipocrita. Germi, da geniale ritrattista satirico dell’Italia del suo tempo, aveva realizzato un capolavoro nel suo genere: partendo dall’osservazione del territorio, del substrato socioeconomico, della temperie culturale, religiosa, politica della regione aveva creato una commedia di maschere. Come un Goldoni al contrario, aveva cristallizzato l’analisi del reale in una serie di personaggi-archetipo che riteneva rappresentativi di quell’ambiente: il professionista ricco e amante del bel vivere, la servetta di facili costumi, la moglie timorata e baciapile, l’impiegatino che sogna la trasgressione, il contadino avido e senza scrupoli, il prete faccendiere.

Pietro Germi e la grande satira

Su tutto apparivano regnare alcuni valori supremi: gli schei, il denaro onnipresente e onnipotente; l’ipocrisia che governa ogni livello delle relazioni, coniugali, clericali, d’amicizia, sentimentali; una morale “elastica” pronta a ossequiare i più forti; il cattolicesimo ostentato, arma di potere piegata a un’etica degli affari falsamente antilaica; il sesso come chiave di volta e, sopra ogni cosa, l’ombra (il bicchiere di vino) come rito collettivo e unificante, quintessenza della socialità, passatempo e simbolo di una comunità intera. Signore e signori fu la consacrazione, ai massimi livelli, di un’immagine del Veneto che si era fatta largo al cinema dal Dopoguerra in poi. Se in passato i ruoli “veneti” erano incarnati nelle brevi apparizioni del contadino pittoresco, dell’oste avvinazzato, della “casalinga di Treviso” (in seguito resa immortale da Nanni Moretti), con il boom economico il cuore del Nord-Est diventa sempre più un mondo a due facce: ricco, industriale, godereccio, ma sempre immerso in quel provincialismo un po’ rozzo e barbarico, nel moralismo bigotto e falso che nasconde corruzione, sfrenatezza sessuale e, talora, vera perversione, nella religione del profitto annegata in un oceano di vino.

Gli esempi di Scola e Brass

Dovessimo scegliere un solo personaggio-capolavoro in rappresentanza dell’infinita galleria di maschere cinematografiche venete voteremmo Nicola Parigi, il clochard ubriacone e mutilato di guerra che, nel film il commissario Pepe di Ettore Scola (1969) gira per le piazze di Vicenza in carrozzina urlando ai quattro venti le malefatte e i vizi sommersi (soprattutto sessuali) della “gente perbene”, i maggiorenti che il poliziotto Ugo Tognazzi tenta invano di inchiodare alle loro responsabilità. Senza dimenticare, poi, un piccolo classico del genere “modernità versus Veneto”, l’ottimo Il disco volante (1964) di un giovane Tinto Brass non ancora specializzato in amplessi: la descrizione dell’impatto dell’atterraggio, nelle campagne vicentin-trevigiane, di un’astronave di marziani è il pretesto per un’altra infornata di personaggi spassosi quanto macchiettistici: il prete ubriacone, l’infedele moglie del sindaco, i nobilastri sfaccendati, i contadini ignoranti. Una metafora farsesca di come un’intera comunità riesca a negare l’evidenza di un evento che potrebbe rompere lo status quo e sconvolgere gli equilibri di un microcosmo immutabile: un’autodifesa che si compie isolando e neutralizzando chi si oppone a questa autocensura collettiva. Negli anni, la ricetta del Veneto al cinema si è aggiornata, modernizzata, ma gli ingredienti base rimangono gli stessi; ci sono eccezioni importanti, talora si trattano con sensibilità temi nuovi come l’immigrazione, la criminalità organizzata, il consumo di suolo, ma più volte la tentazione è troppo forte: la formula vincente non si cambia, salvo rare eccezioni, così il pubblico sa cosa aspettarsi e ripaga il tradizionalismo degli chef.

L'inatteso successo di Sossai

Nelle scorse settimane ha fatto rumore la vicenda di una commedia a basso budget, Le città di pianura, diretta da Francesco Sossai. Il film, storia venetissima ambientata tra il Bellunese, il Trevigiano e Venezia, ha debuttato a fine settembre con una distribuzione pilota in poche piazze del Triveneto. Il buon successo e le recensioni entusiastiche hanno portato a farlo uscire in tutta Italia, incassando ad oggi oltre un milione e mezzo di euro. È incentrato sul vagabondare di due amici spiantati di mezza età, Doriano e Carlobianchi, due relitti di buon cuore, perennemente impegnati a girare per bar e osterie per far festa con la malandata vecchia Jaguar che ricorda il loro periodo di splendore. Il cuore narrativo è l’incontro con Giulio, un giovane studente napoletano che è il loro opposto: riservato, colto, un po’ inibito. Si costituisce un trio improbabile eppure coeso, che percorre il Veneto a caccia di vino e di vita, tra ville palladiane, trattorie in disarmo, memorie di un passato legato al lavoro che c’era e non c’è più, al verde che ha ceduto il passo ai capannoni, a una truffa andata bene ma con un finale amarissimo. È nata una grande amicizia. Le città di pianura è stato lodato come esempio di ottimo cinema italiano finalmente fuori dagli schemi, una rappresentazione del Nord-Est toccante ed efficace, dura ma brillante, che unisce lo sguardo sulle contraddizioni del Veneto contemporaneo, il confronto generazionale, l’analisi umanissima delle fragilità e dei sentimenti. Cerchiamo, allora, di analizzarne il soggetto, per capire se vi siano reali elementi di innovazione. 

Le immutabili maschere venete 

I protagonisti di Le città di pianura sono, dicevamo, due simpatici spiantati. Nel corso della narrazione apprenderemo che sono due ex operai che, in passato, erano riusciti ad arricchirsi in modo illecito ai danni dell’azienda dove lavoravano: ma hanno sperperato tutto, e ora vivono di espedienti. Se rispetto all’archetipo del tipico lavoratore veneto, umile e indefesso, accumulatore di risparmi centesimo su centesimo, Doriano e Carlobianchi vanno controcorrente, non altrettanto si può dire della loro caratteristica principale: sono due alcolisti. Non bevitori gaudenti, ma veri alcolisti che passano da una sbornia all’altra, con il pretesto del “bicchiere della staffa” che è, in realtà, la loro prima ragione di vita. Il loro ex datore di lavoro, il proprietario dell’impresa, è una maschera fin dal nome: il Cavalier Fadiga, cioè “fatica”, emblema del piccolo industriale operoso e paternalista, che arriva in fabbrica in elicottero per “premiare” con un Rolex d’oro il suo operaio che va in pensione dopo una vita e un infortunio in azienda (una specie di risarcimento in stile berlusconiano, laddove l’imprenditore-tipo nordestino come lo intende Sossai arriverebbe in trattore o al massimo in Suv, e regalerebbe all’operaio buoni benzina).

"Il sorpasso" non c'entra nulla

Doriano e Carlobianchi, però, non sono due semplici ubriaconi. Sono dipinti come veri maestri di vita, due spiriti liberi, autodidatti e ingegnosi, cui solo la sfortuna, la crisi del 2008 e una certa tendenza all’autodistruzione hanno impedito il successo: passano dalla soppressa alla teoria economica, dall’elegia per il Veneto rurale alle memorie di amori mercenari. Il loro incontro con Giulio, il giovane timido che non sa afferrare la vita, è dipinto come l’incrocio fatale con due saggi, due filosofi sotto mentite spoglie, che provvederanno non solo a un’accelerata educazione sentimentale dell’allievo (che passa, secondo un modello un po’ datato per uno studente dei nostri giorni, per l’iniziazione con una prostituta) ma soprattutto alla sua trasformazione in uomo maturo e consapevole del valore dell’esistenza. Molti critici hanno citato, con notevole imprudenza, Il Sorpasso di Dino Risi, non ravvisando una differenza fondamentale: nel capolavoro del ’62 c’erano sì l’incontro e la nascita dell’amicizia inaspettata tra un viveur perdigiorno e un giovane studente digiuno di vita, ma il risultato era la catastrofe. Qui, al contrario, i guru simbolo della “generazione perduta” veneta appaiono dei novelli Voltaire, e il loro discettare sul Veneto disumanizzato e rovinato dai capannoni, mentre fanno una marchetta per cinquanta euro o mendicano ospitalità dai vecchi genitori, è rappresentato come un distillato di sapienza di cui beneficerebbe l’inesperto Giulio. Ma davvero è questa la quintessenza del Veneto di oggi? Siamo così lontani dalle maschere che cinquanta o sessant’anni fa, con tutt’altra finezza, venivano eternate da Germi o Scola? 

Una ricetta datata e vincente

Le città di pianura è una ricetta che per il pubblico funziona: è recitato benissimo, ha musiche belle e struggenti, fa sorridere e commuovere. Ma gli ingredienti sono quelli dell’eterno Veneto al cinema, in versione un po’ ripulita dalla polvere. Il contadino credulone è divenuto il beone filosofo (ma perché un giovane colto e sensibile dovrebbe farsi indicare le priorità della vita e dell’etica da due ex ladruncoli alcolizzati? Forse perché è deliziosamente poetico?), l’aristocratico ricco e petulante è diventato il conte marchettaro e malinconico perché l’autostrada gli esproprierà il terreno della villa. E la tragedia del ladro gabbato, che scopre che il bottino sepolto anni prima è ormai perduto, è un classico visto mille volte. Alla fine, è il solito Veneto che al cinema piace vedere, tutto bicchieri della staffa, sesso, goliardate. Un Veneto a due dimensioni, in cui non esistono tecnologia, imprese internazionali, poli di ricerca d’eccellenza a completare un quadro che certamente comprende la devastazione del territorio, l’inquinamento abnorme, la corruzione endemica, la criminalità organizzata: ma che andrebbe, forse, raccontato con storie un po’ meno scontate e ridanciane. C’è un regista che si chiama Alessandro Rossetto. I suoi film raccontano crudamente un Veneto contemporaneo fatto di affarismo familiare, banche, imprenditori d’assalto, umanità perduta, senza bisogno di maschere, ammiccamenti o luoghi comuni. Per questo, quindi, lo conoscono in pochi.

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