CULTURA

Venezia 82: Grand Ciel, alienazione horror di un lavoro che inghiotte anche le persone

Ci sono film che promettono molto e finiscono per perdersi nelle proprie ambizioni, e altri che invece riescono a tenere fede al patto con lo spettatore. Grand ciel, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 82, appartiene a questa seconda categoria: la scrittura è ambiziosa, ma regge fino alla fine e Akihiro Hata costruisce un racconto che parte dal realismo operaio e scivola progressivamente nell’horror, senza mai tradire la logica interna della storia.

Vita operaia sul filo dell’ambiguità

Niente mostri o teschi senza occhi, tutta la tensione del film nasce dall’ambiguità: siamo nel cantiere dove sorgerà un nuovo polo abitativo e commerciale, Grand Ciel, con torri di vetro e cemento che promettono appartamenti di lusso, uffici moderni e negozi scintillanti, un quartiere-modello pensato per il futuro, ma costruito sul sudore e sull’invisibilità di chi lo mette su pietra su pietra per i pochi che potranno permetterselo. Gli operai lavorano, fanno squadra, si frequentano anche al di fuori, fanno battute, ridono nonostante la paura di incidenti e controlli (molti di loro non hanno documenti). A un certo punto alcuni di loro spariscono e sorgono i primi dubbi: né i colleghi né gli spettatori capiscono se sono stati uccisi e gettati nel cemento per nascondere inadempienze o se abbiano semplicemente scelto di fuggire e tutto il resto siano solo paranoie di chi fa un lavoro usurante con tempistiche impossibili da rispettare.

La storia del protagonista, interpretato da Damien Bonnard, segue l’escalation della sceneggiatura e verso metà del film, quando è diventato caposquadra, la realtà si incrina insieme al suo equilibrio psicologico, fino a farsi incerta, perturbante.

Una precarietà senza speranza

È proprio il passaggio tra l’immaginazione e l’angoscia del reale a rendere il film così efficace. Non offre spiegazioni, non cerca di chiudere il cerchio, ma lascia lo spettatore nello stesso stato di precarietà e di sospetto in cui vivono i personaggi, che non sanno mai se avranno un lavoro il giorno dopo, e se chi dà gli ordini si farà scrupoli a sacrificarli per salvare sé stesso: in Grand ciel il lavoro è una forza che aliena, che divora, che fa perdere il senso stesso di ciò che è reale.

Vincent è per certi versi diverso dagli altri: è francese, eppure si sporca le mani nei turni di notte e accetta i weekend di lavoro che i suoi connazionali lasciano agli immigrati. Non si tira mai indietro e anzi, sembra convinto che solo attraverso i sacrifici potrà migliorare la propria condizione e quindi quella della compagna e del figlio di lei. È la logica del lavoro come riscatto, che però perde colpi ogni giorno di più, il film lo mette bene in evidenza.

Fare torti o subirli?

L’ascesa stessa di Vincent dentro Grand Ciel è costruita con precisione: da semplice operaio che si mescola ai colleghi stranieri diventa via via una figura di riferimento per i superiori, e quando ottiene un ruolo da caposquadra, il film lo porta davanti a un bivio già visto molte volte: lottare per quello che è giusto o chinare il capo di fronte ai soprusi per fare ancora più strada?
Quello di Vincent è un ruolo archetipico, che rimanda all’Adelchi manzoniano, perché la scelta è tra far parte del gruppo dei potenti che calpestano i più deboli o schierarsi con questi ultimi, sapendo che sarà vano. Lui è ambizioso, vuole scalare la piramide del comando uno scalino per volta, ma questo gli fa perdere sé stesso, e, cosa più grave, lo trascina in un dissidio morale che lo distacca dalla realtà.

Godi che re non sei, godi che chiusa All'oprar t'è ogni via: loco a gentile Ad innocente opra non v'è: non resta Che far torto, o patirlo Alessandro Manzoni, Adelchi

Vincent non è un eroe, né un martire, è un uomo che si piega alla logica del sistema: come ne La fattoria degli animali di Orwell, chi prende il potere finisce per assomigliare al padrone che voleva rovesciare. Così anche lui, da sfruttato, diventa parte dell’ingranaggio che sfrutta. Non c’è catarsi né salvezza: c’è solo il riconoscimento che il meccanismo è più forte dell’individuo, e che l’unico modo per restare a galla è accettare di diventare simile a chi prima odiavi.

È in questo passaggio che il film mostra tutta la sua ambizione: il cantiere diventa un laboratorio sociale, dove una persona deve decidere se restare umana o trasformarsi in ingranaggio.

La crisi privata e l’escalation horror

Se all’inizio Vincent sembra avere almeno un equilibrio nella vita privata, con una fidanzata che lo sostiene e condivide i suoi sogni, col tempo anche questa certezza si sgretola. Lei, inizialmente assunta in prova nel reparto marketing di Grand ciel, si ritrova presto senza prospettive: le assunzioni vengono congelate e, pur di portare a casa uno stipendio, accetta di sollevare casse per dieci euro l’ora. Una discesa sociale che, per Vincent, è un affronto personale.

La precarietà di lei diventa lo specchio della sua: dove prima c’era complicità, ora esplodono litigi: Vincent le rinfaccia di accontentarsi, di non ribellarsi, ma in realtà è lui che non sopporta di vedere riflessa in lei la stessa condizione che lo sta logorando, quella della paura di perdere tutto pur di fare la cosa giusta.,. È il momento in cui la frustrazione privata e l’alienazione lavorativa si intrecciano definitivamente.

È da qui che il film cambia passo, scivolando verso l’horror. La sparizione degli operai diventa un’ossessione che contamina la percezione di Vincent: non sappiamo se sia realtà o proiezione, e il punto è proprio questo: la precarietà non distrugge solo il corpo, ma erode la mente, e ogni frattura personale alimenta l’angoscia collettiva, fino a rendere indistinguibile ciò che accade davvero da ciò che Vincent vede nei suoi incubi.

La realtà che fa più paura dei film

La forza di Grand ciel sta nel non dare risposte. I rumori misteriosi, la polvere che avvolge tutto, le sparizioni non fanno paura perché sono soprannaturali, ma perché potrebbero essere reali. La condizione alienante del mondo del lavoro non avrebbe bisogno di una narrativa ulteriore in chiave horror, ma questa va ad evidenziare quello che già ora dovrebbe farci paura: lavoratori impegnati in cantieri dove la sicurezza è una formalità da eliminare perché rallenta il progresso, dove i legami non bastano per salvarsi e la solidarietà viene spazzata via da un homo homini lupus favorito dalle logiche del potere, ma che appare come una scelta obbligata per ogni singolo.In questo senso il soprannaturale non è un “di più” decorativo, ma una metafora della precarietà. Lavorare senza sapere se domani avrai ancora un posto, senza sapere se la tua fatica servirà a qualcosa, equivale a vivere nel dubbio perenne: ora ci sei, ma domani la sparizione, se non stai attento, potrebbe capitare a te. La forza oscura che aleggia nel cantiere è l’incarnazione cinematografica di questa condizione.

Hata costruisce così un film che procede come un’escalation: inizia come dramma sociale, diventa thriller, infine scivola nell’horror. Ma l’orrore non è mai spettacolare, è sempre allusivo, insinuato nelle pieghe della realtà quotidiana. L’ambiguità è il cuore della narrazione, perché mette lo spettatore nello stesso stato dei personaggi: l’incertezza costante, la precarietà come condizione esistenziale.

L’ambiguità, lungi dall’essere un limite, è la scelta più coerente: il film non cerca di spiegarci cos’è vero e cos’è falso, perché ciò che conta è l’effetto. Lavorare in condizioni di sfruttamento e precarietà significa non avere mai la certezza di cosa sia reale, e Grand ciel riesce a trasmettere questa sensazione con un rigore raro.

Un festival che pensa al mondo del lavoro

Grand ciel dialoga con altre opere che a Venezia 82 hanno messo il lavoro al centro delle loro storie. In concorso, ad esempio, Park Chan-wook con No other choice ha scelto una parabola tragico-comica per raccontare il precariato, trasformandolo in detonatore di violenza e frustrazione. Sempre nella selezione principale, Valérie Donzelli con À pied d’œuvre ha guardato al sacrificio quotidiano da una prospettiva più intima, scavando nelle fragilità della condizione contemporanea. E fuori concorso, alle Giornate degli Autori, il documentario Articolo 1 ha dato voce diretta alle vittime del lavoro, restituendo dignità a storie spezzate troppo spesso ridotte a statistiche.

Nel confronto con queste opere, Grand ciel si distingue perché sceglie un’altra strada: non la retorica dell’esplosione, non l’intimismo dell’osservazione, non la testimonianza diretta, ma un’immersione progressiva nell’incubo. L’orrore che si insinua nel cantiere non ha bisogno di sangue o di mostri, perché il lavoro, da solo, aliena, logora, divora: toglie certezze al punto da rendere indistinguibile il reale dall’immaginato.

Ecco perché Grand ciel mantiene le sue promesse: perché non cerca scorciatoie, non offre soluzioni, ma ci restituisce l’immagine spietata di un mondo in cui il lavoro diventa il nostro fantasma più spaventoso.

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