CULTURA

Venezia 82: The smashing machine un anti-Rocky che non convince del tutto

Non tutti i film sportivi sono pensati per farci alzare dalla poltrona con il cuore che batte e la voglia di correre un’ora sotto la pioggia urlando “Adrianaaa”. The smashing machine, presentato all’82esima Mostra del Cinema di Venezia, appartiene a un’altra categoria rispetto ai classici del genere: il regista Benny Safdie sceglie di raccontare Mark Kerr, leggenda della UFC a cavallo tra anni Novanta e Duemila, senza l’epica della vittoria né la retorica della sconfitta, anche se alla fine ci si chiede se sia stata una scelta oculata: niente montaggi trionfali, niente slow motion carichi di pathos, niente frasi a effetto. Il suo film è spoglio, quasi dimesso, e piacerà ai molti che si sono lamentati dei cliché de Il maestro di Andrea di Stefano, altro film sportivo visto ieri fuori concorso.

Il contesto: la UFC prima del business

Per capire davvero chi sia Mark Kerr, bisogna ricordare il momento storico in cui combatteva. Le arti marziali miste di fine anni ’90 non erano il colosso mediatico che conosciamo oggi: erano tornei borderline, ancora in cerca di legittimità,  regolati da norme poco chiare e sempre in divenire. Era un mondo anarchico, in cui i combattenti si muovevano tra il mito del guerriero e la precarietà economica (200.000 dollari per la vittoria di un torneo erano un desiderio che si avverava, ora le cifre sono ben diverse).

Kerr era diventato leggenda in Giappone nei tornei Pride, quando la UFC non aveva ancora lo smalto televisivo di oggi: Safdie mette bene in scena questo contrasto: l’eroe di un mondo sotterraneo che non è ancora mainstream, un gigante in un limbo.

Qualche cliché poteva fare comodo

Alla Mostra, vicino ai giardini, c’è il muro della vergogna allestito dal Codacons: si chiama “ridateci i soldi”, e ci sono appesi dei fogli in cui gli spettatori esprimono le loro lamentele (ma anche gli apprezzamenti) sui film e sull’organizzazione. Qualcuno, stufo delle critiche a Il maestro, ha suggerito di smetterla, che è un bel film e che qualche cliché non ha mai ucciso nessuno.

Il monito torna in mente proprio con The smashing machine: criticare un film perché ha pochi cliché sembra un paradosso, ma l’assenza di strumenti narrativi pensati per agganciare lo spettatore rischia di rendere la pellicola un’opera rispettabile, rigorosa, ma nel complesso dimenticabile.

Safdie senza retorica, Blunt in ombra, Johnson sorprende

Benny Safdie aveva già dimostrato con Good time e Uncut gems di saper raccontare personaggi al limite, logorati dall’ansia e dalla frenesia. Con The smashing machine applica lo stesso approccio al mondo delle arti marziali miste, ma lo fa eliminando qualsiasi retorica sportiva: la macchina da presa resta sempre fuori dalle corde, come a identificarsi con il pubblico, che magari vorrebbe invece sentirsi dentro la storia e vedere qualcosa di più. È un’operazione voluta, coerente con il desiderio di smontare l’epica di film sullo stesso tema, ma il rovescio della medaglia è che la distanza rischia di raffreddare l’emozione.

Lo stesso vale per la scrittura di alcuni personaggi. Emily Blunt, che interpreta Dawn Staples, la fidanzata di Kerr, è un’attrice che ha dato prova di intensità in altri film, ma qui sembra relegata a un ruolo funzionale: litiga, soffre, sostiene, e porta bene a termine il compito, ma senza quella vibrazione che avrebbe potuto dare spessore al personaggio.

Diversa è la prova di Dwayne Johnson: per essere un attore abituato a incarnare superuomini granitici, sorprende vederlo così vulnerabile. Safdie lo trasforma fisicamente, rendendolo meno scolpito, e soprattutto lo costringe a lavorare sulle espressioni, sulle crepe del volto. Al regista non interessa celebrare la macchina da guerra, ma mostrare l’uomo fragile che la abita. Mark Kerr è un colosso che si innamora, che sbaglia, che si rifugia negli antidolorifici per sopravvivere, non un robot plastico.

Johnson riesce a rendere credibile il contrasto tra la dolcezza quotidiana (con quella voce misurata, quasi tenera) e le esplosioni di rabbia, come nelle scene in cui litiga con Dawn e spacca le porte a pugni. È un’interpretazione che spiazza e convince, segno che il suo talento drammatico era solo rimasto nascosto sotto i muscoli da action hero, ma non riesce da sola a tenere su tutto il film.

Il dolore come ring parallelo

Se The smashing machine ha un vero punto di forza, sta nel modo in cui mette in scena il dolore. Non solo quello fisico dei colpi presi e dati nell’ottagono, ma soprattutto quello che si porta dietro Mark Kerr: la dipendenza dagli antidolorifici, in un evidente paradosso, perché le medicine tolgono il dolore dal corpo, ma solo per inviarlo all’anima per direttissima.

Il dolore è un avversario invisibile che logora Kerr anche quando cerca di scherzarci su, dicendo che un giorno senza dolore è come un giorno senza sole. E poi c’è il dolore sentimentale, che prende la forma di litigi coniugali coreografati come veri combattimenti. Emily Blunt e Dwayne Johnson si affrontano in stanze claustrofobiche con la stessa intensità dei match: frasi che sono ganci, silenzi che somigliano a schivate, colpi bassi lanciati quando l’altro è più vulnerabile.

La vittoria come prigione

Come forma narrativa, il film potrebbe avvicinarsi di più a The wrestler di Darren Aronofsky: lì come qui c’era un corpo che non rispondeva alla volontà del suo possessore, una dipendenza che divorava, una vita privata ridotta a frammenti. Ma Safdie non cerca la parabola tragica né la catarsi: la sua è un’osservazione fredda, quasi documentaria, e questo è il limite e insieme il pregio del film: non manipola l’emozione, ma proprio per questo rischia di non lasciare cicatrici.

Il messaggio resta annacquato, il fatto che non sai veramente vivere se non hai mai perso non è declamato con toni enfatici, ma passato in sordina in qualche scena, come quando Mark dice a un giornalista che non saprebbe dire cosa accadrebbe in caso di sconfitta perché non ha mai perso, e il suo amico omonimo (Mark Coleman) che dice a un altro giornalista che la sconfitta per Kerr è la cosa migliore che potesse capitare.

La vittoria è un’abitudine pericolosa, una prigione che ti condanna alla maledizione di non essere mai all’altezza delle tue stesse aspettative. È solo perdendo che puoi liberarti dal mito di te stesso: il ko non è la fine ma l’inizio, l’occasione di tornare umano, di rimettere insieme i pezzi senza dover continuare a incarnare la leggenda.

Nella sconfitta la libertà

The smashing machine non è un film che celebra la vittoria. Safdie lo ha detto più volte: si capisce di più da chi perde che da chi vince. E Mark Kerr è un personaggio che impara, a caro prezzo, proprio questo. Non c’è catarsi, non c’è redenzione piena. C’è piuttosto un uomo che, dopo aver provato a combattere contro tutto capisce che l’unico modo per sopravvivere è accettare di non essere infallibili.

Il film si chiude con un sorriso inatteso di Kerr, che Johnson interpreta con una delicatezza sorprendente: non è il trionfo di chi ha vinto, ma il sollievo di chi ha smesso di inseguire un’illusione. Nella sconfitta c’è finalmente libertà, e forse anche pace. È un epilogo che non consola, ma che restituisce dignità a un percorso costellato di cadute.

Un film rigoroso, ma non memorabile

Come dicevamo, The Smashing Machine è un film che sceglie con coraggio di non cedere alla retorica, ma il rifiuto di ogni artificio narrativo porta con sé un effetto collaterale: lo spettatore resta spesso a distanza, come seduto in piccionaia a guardare una vicenda che non può scalfirlo.

Il film resta un’opera coerente, di indubbio rigore formale e con momenti potenti, come la coreografia del dolore o l’uso ironico e struggente di My way (la colonna sonora di Nala Sinephro è in generale ben integrata nella sceneggiatura). Purtroppo, però, resta anche un film che rischia di non lasciare il segno, più rispettabile che indimenticabile, insomma. Una parabola dura e senza fronzoli, che racconta semplicemente come la sconfitta possa essere liberatoria.

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012