Naomi Oreskes: "Il ruolo dell'università pubblica è di difendere la libertà"
Foto di Elena Sophia Ilari
Naomi Oreskes è una delle storiche della Scienza più importanti, docente ad Harvard dal 2013 è da sempre un’attenta conoscitrice delle strategie di disinformazione. Oreskes è stata ospite di un incontro all’Università di Padova dove ha dialogato con il direttore de Il Bo Live Telmo Pievani e con la caporedattrice Elisabetta Tola. Durante la conferenza Naomi Oreskes e Telmo Pievani hanno ripercorso le radici profonde della sfiducia nella scienza, mostrando come le campagne di disinformazione non nascano da errori scientifici, ma da precise strategie politiche ed economiche. Dai negazionisti del clima ai casi di ghostwriting industriale come quello del glifosato, emerge un meccanismo ricorrente: creare confusione, seminare dubbi metodologici e presentare come “dibattito scientifico” ciò che è, in realtà, un’operazione di manipolazione. La pandemia ha amplificato queste dinamiche, anche a causa di una comunicazione pubblica che ha faticato a distinguere tra ciò che era noto e ciò che restava incerto, alimentando l’idea che la scienza fosse instabile o contraddittoria.
Oreskes ha sottolineato come oggi, soprattutto negli Stati Uniti, la libertà accademica sia minacciata da pressioni politiche e tagli selettivi ai finanziamenti, con università poco pronte a difendere i valori fondativi della ricerca. Pievani ha richiamato la necessità di riconoscere i limiti della neutralità e di rafforzare il giornalismo scientifico, in un momento in cui bias cognitivi e narrazioni semplificate rendono il pubblico più vulnerabile alla disinformazione. Entrambi hanno insistito sul valore storico e civile della scienza: un processo che non è infallibile, ma che proprio grazie alla sua capacità di correggersi nel tempo rappresenta uno dei pilastri più solidi della democrazia contemporanea.
“ La ragione principale per cui dovremmo fidarci della scienza è che la scienza è progettata per correggere i propri errori Naomi Oreskes
L’intervista a Naomi Oreskes
Oreskes ha anche dialogato davanti alle nostre telecamere con Elisabetta Tola. Ne è emersa una conversazione che ha messo in luce come, dal tabacco ai combustibili fossili fino ai giganti del digitale, le stesse strategie di disinformazione ritornino ciclicamente. Una conversazione che parte dall'ultimo libro di Oreskes, The Big Myth (Il grande mito, tradotto in italiano da Edizioni Ambiente), per analizzare strategie passate e presenti di attacco alla scienza attraverso strategie di dilazione delle regolamentazioni.
Da Merchants of Doubt a The Big Myth: tra i due libri ci sono molti anni, ma un filo rosso li lega chiaramente. Può accompagnarci in questo percorso?
Considero i due libri come un dittico: il primo è il cosa, il secondo è il perché. In Merchants of Doubt cercavamo di spiegare che cosa stava succedendo: chi negava il cambiamento climatico, quali tecniche usava, quali strategie e tattiche permettevano di gettare dubbi su una scienza solida non solo sul clima, ma anche sul tabacco e su altre questioni ambientali, come il buco dell’ozono. Ci siamo concentrati su ciò che facevano e su come lo facevano. Solo alla fine abbiamo iniziato a rispondere alla domanda del perché, individuando il ruolo dell’ideologia politica, il fondamentalismo di mercato, l’idea che qualunque intervento statale nell’economia porti inevitabilmente alla perdita della libertà personale. Ma una volta terminato il libro, ci siamo chiesti perché gli scienziati e i politici responsabili di questi schemi di creazione del dubbio credessero davvero a tutto questo. La storia mostra chiaramente che i mercati funzionano bene in alcuni ambiti e falliscono in altri, che hanno bisogno di regole per evitare abusi e proteggere i lavoratori. Sono lezioni che conosciamo da secoli. Allora perché ignorarle? Nel secondo libro entriamo molto più a fondo in questa domanda.
Foto di Elena Sophia Ilari
E dove vi ha portato questo secondo percorso? Si tratta di un libro corposo, che va ben indietro nella storia, ma parla anche al presente e al futuro.
È diventato un libro veramente corposo perché abbiamo alla fine raccolto molte più informazioni e conoscenze di quanto avremmo immaginato. All’inizio pensavamo che la politica anti-statale dominante oggi si fosse sviluppata soprattutto con Ronald Reagan e, in Europa, con Margaret Thatcher. Ma scavando abbiamo scoperto una storia molto più antica, che risale agli inizi del Novecento e ai dibattiti sulle storture del capitalismo tra fine Ottocento e inizio Novecento: il lavoro minorile, gli incidenti sul lavoro, lo sfruttamento massiccio dei lavoratori sia in Europa sia negli Stati Uniti. Gli industriali americani viaggiarono in Europa per capire perché in Germania o nel Regno Unito morissero molti meno lavoratori. La risposta era l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, che creava incentivi concreti a rendere le fabbriche più sicure. Questo portò a un grande dibattito negli Stati Uniti sulla necessità di rendere questi sistemi obbligatori anche nel nostro paese. Alla fine accadde, come già avveniva in Europa, e i luoghi di lavoro divennero più sicuri. Ma questo progresso generò anche una reazione: una parte del mondo imprenditoriale iniziò a opporsi all’idea che lo Stato avesse un ruolo nel proteggere i lavoratori o nel vietare il lavoro minorile.
Oggi Europa e Stati Uniti hanno maggiori tutele per i lavoratori, ma le aziende aggirano i limiti altrove. L’innovazione digitale e l’AI, per esempio, si basano spesso su filiere di lavoro e manodopera che operano in Paesi con regole più deboli. È lo stesso schema che ritorna, ma globalizzato?
Assolutamente sì. Il nostro libro è estremamente attuale per l’Europa. Quando ne abbiamo parlato per la prima volta con l’editore italiano, temeva fosse “un libro troppo americano”. Ma gli stessi meccanismi oggi si vedono chiaramente anche in Europa. Da un lato abbiamo l’emergere di tecnologie completamente nuove, intelligenza artificiale, social media, tutto l’ecosistema digitale, che generano nuovi danni, soprattutto agli adolescenti, e mettono a rischio il lavoro di molte persone. La domanda è quale ruolo debbano avere i governi per proteggere i cittadini. Dall’altro lato cresce l’idea, spesso alimentata dagli Stati Uniti, che l’Europa sia “troppo regolata”. Abbiamo visto di recente l’amministrazione Trump tentare di indebolire le norme europee sulla privacy digitale. Ritengo che gli Stati Uniti stiano svolgendo un ruolo regressivo, spingendo l’Europa a non proteggere lavoratori, adolescenti e bambini. La storia insegna che un mercato lasciato completamente a sé stesso produce danni enormi. Serve equilibrio.
“ La storia insegna che un mercato lasciato completamente a sé stesso produce danni enormi Naomi Oreskes
Leggendo i due libri uno dopo l’altro, emerge un pattern molto chiaro. Le industrie cambiano, che siano tabacco, fossili, piattaforme digitali, ma gli attori e le tattiche sembrano gli stessi. E spesso provengono da istituzioni e accademie.
Sì. Ed è esattamente per questo che la storia conta. Le persone tendono a pensare che la storia sia polverosa, irrilevante, o scollegata dalle tecnologie attuali. I dirigenti delle big tech vogliono farci credere che le lezioni del passato non valgano più. Ma le persone non cambiano. La tecnologia cambia, ma l’ambizione, l’avidità, l’auto-giustificazione, la razionalizzazione, perfino il tradimento, restano gli stessi. Una parte fondamentale del nostro lavoro è mostrare come le stesse tattiche disoneste vengano riciclate ancora e ancora.
Capire questo è il primo passo. Ma come può reagire oggi la comunità scientifica agli attacchi alla scienza?
Gli spazi d’azione sono molti. L’insegnamento più importante è respingere le false dicotomie. Gran parte dell’inganno funziona costruendo una scelta fasulla. In The Big Myth la falsa dicotomia centrale del Novecento è l’idea che l’unica alternativa sia un mercato totalmente libero e non regolato per non scivolare verso la pianificazione centralizzata di stampo sovietico e dunque verso un totalitarismo. Gli imprenditori sostenevano che anche una regolazione minima, come ad esempio vietare il lavoro minorile, avrebbe inevitabilmente portato appunto al totalitarismo.
Ma è falso. Possiamo distinguere le questioni. Possiamo decidere che un quattordicenne non debba lavorare in fabbrica senza per questo voler pianificare l’intera economia. E abbiamo più di un secolo di prove, soprattutto in Europa ma anche negli Stati Uniti, che dimostrano come la democrazia sociale, il welfare, le tutele ambientali e dei lavoratori possano convivere perfettamente con economie forti e università eccellenti. Non dobbiamo necessariamente scegliere tra prosperità e protezione: dobbiamo solo stabilire valori chiari e confini ragionevoli.
Un’altra idea molto diffusa, sempre più anche in Europa, è che troppe regole rallentino l’innovazione e che l’Europa sia indietro proprio per questo.
Devo respirare profondamente prima di rispondere, perché è un’idea profondamente falsa e mi fa sempre molto arrabbiare! L’Europa ha una storia ricchissima di innovazioni. E soprattutto, molto spesso è lo Stato il vero motore dell’innovazione. L'economista Mariana Mazzucato lo ha spiegato molto bene. Se osserviamo le grandi tecnologie che hanno trasformato il mondo negli ultimi 150 anni, non ne troviamo una sola sviluppata esclusivamente dal settore privato. Non una. Alcune sono state create direttamente dai governi, come i programmi spaziali o Internet, inventata dal governo statunitense. Altre sono nate da partnership pubblico-private, come ferrovie, telegrafo, telefono, televisione e radio. Internet stessa, nata come ARPANET, fu sviluppata da scienziati finanziati dallo Stato. Poi il settore privato si è comportato come se l’avesse inventata lui, ma senza gli investimenti pubblici non avremmo Internet, né i social media, né il GPS, né il commercio online. Se vogliamo innovazione, serve un forte investimento pubblico nella ricerca di base e strumenti che trasferiscano queste conoscenze al settore privato. Senza queste fondamenta, nessuna di queste tecnologie esisterebbe.
Associamo spesso la libertà scientifica alla democrazia, ma anche Paesi non democratici avanzano rapidamente nella scienza. Come funziona questo rapporto?
È una questione complessa. C’è certamente una sintonia naturale tra scienza e democrazia, curiosità, iniziativa individuale, volontà di mettere in discussione le idee consolidate. Ma allo stesso tempo la scienza prosperò anche nell’Unione Sovietica, che investì enormemente nella ricerca di base e nella matematica. E la Cina oggi investe massicciamente nella ricerca scientifica. Il fattore decisivo è l’atteggiamento del governo. Governi democratici e non democratici hanno sostenuto la scienza quando ne hanno riconosciuto il valore. Ciò che non avevamo mai visto, fino ad oggi, è un governo democratico che si rivolta contro la scienza. È quello che sta accadendo negli Stati Uniti.
Si possono trarre due conclusioni: o i governi democratici non sono intrinsecamente favorevoli alla scienza, oppure l’attuale governo americano non si sta comportando democraticamente.
Harvard, la più antica università statunitense, ha resistito agli attacchi governativi più di altre università americane sotto attacco. C'è spazio per un po' di ottimismo per le nuove generazioni di ricercatori?
A parte la mia università, ritengo che la leadership accademica statunitense abbia fallito nel difendere i valori fondamentali dell’università. Pochissimi rettori o presidenti hanno difeso la libertà accademica. È stato scioccante. In parte credo che dipenda dal fatto che negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti è stato interiorizzato talmente tanto il valore dell’impresa privata che molte università sono oggi guidate da persone che non vengono dal mondo della ricerca e della formazione e dunque non comprendono davvero la loro missione centrale. Quando è arrivato il momento di difendere i valori accademici, non sono stati in grado di farlo.
Ciò che mi dà speranza sono i docenti e gli studenti. Sanno perché sono lì e a cosa sono dedicati. E personalmente, essere qui oggi, in un'università antica come quella di Padova, è significativo perché considero ciò che faccio come parte di una tradizione millenaria di conoscenza, una tradizione che sostiene le società ma che rende anche la vita più ricca. Guardare la Luna attraverso un telescopio e vedere i crateri è qualcosa di straordinario: ricorda il valore della conoscenza e il fatto che facciamo parte di un lungo progetto umano che supera qualunque libro o generazione di studenti.
This article was originally written in English, as the interview was conducted in that language. Since Il Bo Live does not have native English speakers on staff, we edited the text with the support of an AI-based language tool.
Questo articolo è stato scritto originariamente in inglese, poiché l’intervista è stata condotta in quella lingua. Nella redazione de Il Bo Live non ci sono madrelingua, abbiamo rivisto il testo con il supporto di uno strumento linguistico AI.