SOCIETÀ

Honduras, lo spoglio infinito: in testa il candidato gradito a Trump

Dopo giorni di interminabile attesa e con una palpabile, crescente tensione nel Paese tra minacce esplicite, attacchi informatici e diffusi sospetti di brogli, l’Honduras ancora non sa con certezza il nome del suo prossimo Presidente: se a prevalere sarà, come sembra, Nasry “Tito” Asfura, il candidato della destra, del Partido Nacional Conservador, ex sindaco di Tegucigalpa, platealmente e minacciosamente sostenuto dal presidente americano Donald Trump (pochi giorni prima del voto l’aveva definito «l’unico vero amico della libertà»), oppure se riuscirà a recuperare lo svantaggio Salvador Nasralla, un ex giornalista sportivo, centrista, affiliato al Partito Liberale, che per la terza volta sta rincorrendo la presidenza. Le urne sono state chiuse il 30 novembre scorso, ma la macchina elettorale è andata in tilt, producendo un conteggio lentissimo, costellato da problemi tecnici e ritardi che stanno ancora oggi tenendo sul filo di lana i due principali contendenti separati, secondo le ultime stime, da poco più di 40.000 voti con l’86% dei seggi scrutinati; mentre Rixi Moncada, candidata di Libertad y Refundación (Libre), il partito d’ispirazione socialista della presidente uscente Xiomara Castro, è nettamente distanziata. Domenica scorsa, allo scadere della prima settimana di spoglio, la presidente del Consejo Nacional Electoral (CNE), Ana Paola Hall, aveva spiegato che il caos nel sistema di conteggio nelle elezioni generali era dovuto a «problemi tecnici al di fuori del controllo del Consiglio», scaricando l’intera responsabilità del disservizio al Grupo ASD, l’azienda responsabile del sistema di Trasmissione dei Risultati Preliminari Elettorali (TREP). Una confusione che, tuttavia, mette a rischio la trasparenza e la validità stessa del voto. Diversi momenti di tensione si sono verificati nei giorni scorsi attorno al centro informatico di Tegucigalpa, la capitale honduregna, dove la polizia è stata chiamata a contenere le proteste dei manifestanti. Ombre che emergono anche dal rapporto stilato dalla Missione di controllo sulle operazioni di voto dell’Unione Europea. Il presidente della Missione, l’eurodeputato portoghese Francisco Assis, ha scritto nel rapporto che le elezioni si sono svolte “in un ambiente teso e molto polarizzato”, che “le controversie politiche hanno influenzato sia il funzionamento sia del CNE sia del Tribunale di Giustizia Elettorale (TJE)”. Quindi “pressioni politiche”, non soltanto problemi tecnici. Il tutto mentre aleggiava la minaccia lanciata da Trump alla vigilia del voto: «Se i funzionari elettorali tenteranno di manomettere i risultati delle elezioni presidenziali, per l’Honduras ci sarà un inferno da pagare».

Difficile lanciarsi in previsioni, ma la sensazione è che comunque, prima della scadenza di legge (entro 30 giorni dalla data del voto), le operazioni di spoglio saranno portate a termine: e, se l’ultimo trend di crescita sarà confermato, a spuntarla sarà proprio Nasry Asfura. La posta in palio è enorme: perché si tratta di un’elezione a maggioranza semplice, come prevede la legge elettorale honduregna, senza possibilità di un ballottaggio. Il presidente eletto entrerà in carica il prossimo gennaio e al termine del mandato di quattro anni non potrà essere rieletto. Gli elettori hanno inoltre votato per il rinnovo del Congresso nazionale monocamerale, composto da 128 membri, per la nomina dei 20 rappresentanti del PARLACEN (il Parlamento dell’America Centrale) e per i sindaci dei 298 comuni del Paese. Ma il vero problema arriverà un secondo dopo l’annuncio ufficiale del vincitore: chi riconoscerà come “credibili” quei risultati? Già domenica scorsa il liberale Nasralla aveva denunciato «una falsificazione dello scrutinio con l’obiettivo di favorire il suo principale avversario, Asfura». Mentre il partito Libre, grande sconfitto di questa tornata elettorale, aveva chiesto l’annullamento del voto presidenziale, «che si è tenuto sotto l’ingerenza e la coercizione del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump», e perciò sollecitando la mobilitazione dei propri iscritti per sabato prossimo, 13 dicembre. L’ipotesi dell’annullamento è stata però decisamente respinta dall’Universidad Nacional Autónoma de Honduras (UNAH): «Annullare le elezioni senza che ci sia alcuna prova di frode elettorale sarebbe equivalente, in termini costituzionali, a una dimostrazione di indiretto disprezzo della sovranità popolare, alterando l'essenza stessa dello stato di diritto democratico». La scadenza per la richiesta di “revisioni speciali e riconteggi” è stata prorogata dal CNE al 15 dicembre.

Corruzione, violenza e povertà

Il prossimo Presidente dell’Honduras avrà comunque un compito non semplice da affrontare: tentare di risollevare le sorti di un Paese divorato dalla povertà e dalle disuguaglianze (soprattutto tra i più giovani e chi abita nelle zone rurali), dalla vulnerabilità agli effetti degli eventi climatici, dalla corruzione endemica e dalla diffusa violenza: secondo il Global Peace Index 2025, elaborato dall’Institute for Economics & Peace (IEP), l’Honduras è al 39º posto nella classifica dei paesi più insicuri al mondo. Il tasso di povertà, che aveva raggiunto il 73% a livello nazionale, è calato quest’anno al 60,3% secondo le stime fornite dal governo uscente. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) l’insicurezza alimentare colpisce circa 1,7 milioni di honduregni, soprattutto a causa dei danni ai raccolti prodotti dalle inondazioni e dalle siccità. «L’insicurezza alimentare e nutrizionale è un problema strutturale in Honduras strettamente legato alla mancanza di reddito e alla disoccupazione», aveva dichiarato pochi mesi fa Héctor Figueroa, direttore dell’Istituto di Ricerca Sociale. «Questa crisi non è un fenomeno isolato, colpisce le famiglie più povere, specialmente nel Corridoio Secco (una striscia di terra che attraversa El Salvador, Guatemala, Honduras e Nicaragua, considerata tra le più vulnerabili a siccità, povertà e mancanza di opportunità economiche). Attualmente, più di 6,7 milioni di honduregni vivono in povertà e 4,4 milioni si trovano in una situazione di povertà estrema (quando non si dispone - o si dispone con grande difficoltà o intermittenza - delle primarie risorse per il sostentamento umano, come acqua, cibo, vestiario, abitazione): di questi, 1,3 milioni sopravvivono con meno di un dollaro al giorno».

Ma quello che ha più sorpreso, in quest’ultima tornata elettorale del Paese centramericano, uno dei più poveri dell’intera regione, è stato proprio l’atteggiamento del presidente degli Stati Uniti. Che in campagna elettorale è intervenuto a gamba tesa, com’è sua abitudine, ignorando regole e confini, minacciando di togliere all’Honduras gli aiuti finanziari americani qualora non avesse vinto il candidato della destra. Secondo l’Economist, il suo intervento ha complicato parecchio le cose. «Con Asfura - ha proseguito Trump pochi giorni prima del voto - potremo lavorare insieme per combattere i narcocomunisti e contrastare il narcotraffico». E per convincere gli elettori del Partido Nacional ha deciso anche di concedere la grazia all’ex presidente honduregno (dal 2014 al 2022) Juan Orlando Hernández, che di quello stesso partito faceva parte, ma che da oltre un anno soggiornava nel penitenziario statunitense di Hazelton in West Virginia, con una condanna a 45 anni di carcere perché coinvolto in un colossale traffico di droga che in dieci anni aveva fatto arrivare negli Stati Uniti oltre 400 tonnellate di cocaina (qui il suo “ringraziamento” a Trump). Strana postura per un presidente che della lotta al narcotraffico ha fatto la sua bandiera e che proprio in nome di questo “principio” ha giustificato e scatenato una campagna senza precedenti di attacchi mortali contro imbarcazioni venezuelane che, secondo una convinzione unilaterale degli Stati Uniti, mai supportata da prove concrete condivise, trasportavano droga nei Caraibi e nel Pacifico orientale. Dall’inizio di settembre a oggi almeno 22 imbarcazioni sono state bombardate (qui una cronologia dell’escalation degli attacchi voluti dalla Casa Bianca): il bilancio, parziale, è di 87 persone assassinate. Con il segretario alla Difesa americano Pete Hegseth finito al centro di una bufera politica perché, come ha rivelato la scorsa settimana il Washington Post, durante uno degli attacchi, al largo della costa di Trinidad, aveva dato l’ordine “di uccidere tutti”, anche i superstiti. Peraltro: la motivazione trumpiana di “voler fermare il traffico di droga” appare del tutto pretestuosa, dal momento che, come conferma il World Drug report 2025, stilato dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, passa solo in minima parte dal Venezuela, quanto piuttosto da Messico e Colombia. Quanto alla grazia concessa a Hernández, Trump come al solito modella il diritto sulla base delle sue opinioni personali: ha definito l’ex presidente dell’Honduras «vittima di una caccia alle streghe» promossa dall’amministrazione Biden: «L’accusa nei suoi confronti è stata orribile e ingiusta». In risposta alla mossa di Trump, il procuratore generale dell’Honduras, Johel Zelaya, ha emesso un mandato d’arresto internazionale per l’ex presidente Hernández, di fatto impedendogli di tornare in patria: la procura locale aveva già dimostrato che i suoi legami con i gruppi criminali honduregni erano cominciati già nel 2009, quando era deputato.

Trump e il fascino del petrolio

Il problema tuttavia non è soltanto quel che Trump ritiene giusto o sbagliato, ma quanto le sue convinzioni possano incidere sui futuri assetti geopolitici nell’area compresa tra il Centro e il Sud America. Perché appare evidente che l’improvvisa attenzione della Casa Bianca a quel che succede in Honduras sia indissolubilmente legata all’operazione Venezuela: vale a dire al tentativo di rimuovere Maduro dalla presidenza con la minaccia di un intervento militare, in barba non soltanto al buonsenso ma anche a qualsiasi regola scritta nei trattati internazionali (oltre che nella Carta delle Nazioni Unite). Alla fine di novembre c’è stata anche una telefonata tra i due presidenti, con Trump che ha offerto a Maduro un “salvacondotto” in cambio della sua rinuncia (offerta rifiutata). Trump sta dunque cercando “punti d’appoggio” da dove attaccare, almeno potenzialmente, il Venezuela: che, non dimentichiamolo, possiede le più grandi riserve petrolifere del mondo, stimate in 303 miliardi di barili, davanti all’Arabia Saudita (267 miliardi) e all’Iran (207). Anche se la maggior parte delle riserve venezuelane è costituita da greggio “pesante acido”, il più difficile e costoso da estrarre. Ma anche il presidente della Colombia, Gustavo Petro, ha dichiarato alla Cnn che, secondo lui, la vera motivazione è lì: «Trump non sta pensando a rendere il Venezuela più democratico, tanto meno al traffico di droga: il vero obiettivo è il petrolio». L’area dei Caraibi è oggi presidiata da almeno 10 navi da guerra statunitensi, compreso un sottomarino nucleare e la più grande portaerei di cui dispongono, la USS Gerald R. Ford, che attualmente si trova nelle acque antistanti St. Thomas, alle Isole Vergini Americane. Avere in Honduras un’amministrazione compiacente sarebbe perfettamente funzionale al progetto dell’amministrazione Trump, anche se, come sostiene David Smilde, professore al Center for Inter-American Policy and Research della Tulane University di New Orleans, «il 70% degli americani si dice contrario a un intervento in Venezuela». Come è funzionale anche l’operazione, più “discreta”, sotto traccia, realizzata con Trinidad e Tobago, stato che si trova appena a 7 miglia di distanza dal Venezuela, dove nei giorni scorsi sono sbarcati centinaia di marines e dove la prima ministra Kamla Persad-Bissessar ha autorizzato l’installazione di un radar militare, sostenendo che si trattava di una «strategia per combattere il traffico di droga», evitando di fornire ulteriori particolari «per difendere la sicurezza nazionale». Ma le reazioni sono state veementi, nonostante il ministro della difesa di Trinidad e Tobago, Wayne Sturge, abbia negato qualsiasi connessione con la diatriba Usa-Venezuela: «Non siamo una rampa di lancio per alcuna operazione militare». Marvin Gonzales, deputato dell’opposizione ed ex ministro della sicurezza nazionale, ha accusato il primo ministro e i suoi ministri di aver ingannato il Paese: «Hanno venduto l’anima della nazione, i nostri antenati si stanno rivoltando nelle tombe».

Comunque vada, per l’Honduras si apre ora una nuova pagina densa di incognite. Perché se da un lato il risultato del voto presidenziale (sempre ammesso che Nasry Asfura ne esca vincitore) potrebbe scongiurare possibili tagli agli aiuti che gli Stati Uniti annualmente forniscono al Paese (attualmente pari a oltre 102 milioni di dollari) dall’altro c’è il rischio altissimo che proprio la polarizzazione politica porti a un incremento dei disordini sociali, in una nazione che ha uno dei più bassi livelli di sviluppo umano delle Americhe, dove dilaga la violenza delle gang criminali, dove i femminicidi sono drammaticamente in aumento, dove lo “stato d’emergenza”, di proroga in proroga, è ormai la norma, con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani che ancora lo scorso maggio denunciava: «L’attuazione dello stato di emergenza ha portato a gravi violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziarie, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie e perquisizioni senza supervisione giudiziaria». 

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012