SOCIETÀ

Un’Italia connessa 31 ore a settimana: cosa comporta per chi racconta il mondo

Quando esce il Global Digital Overview Report di We Are Social e Meltwater, ogni anno, è un po’ come aprire la finestra sul mondo e scoprire quanto sia cambiato mentre eravamo distratti a scrollare lo schermo dello smarphone. L’edizione 2026 conferma una sensazione che siamo entrati in una fase in cui la vita digitale modella quella offline, la ridisegna, e a volte la precede. Il report, un compendio di 700 slide, fotografa un pianeta in cui l’ecosistema digitale ha raggiunto la massima estensione di sempre, con utenti più numerosi, più attivi e più veloci nel cambiare abitudini.

Ed è proprio guardando da questa finestra globale che l’Italia diventa un caso interessante: un paese spesso descritto come “lento” nell’innovazione digitale, ma che in realtà segue abbastanza fedelmente le dinamiche globali dal punto di vista dell’utilizzo delle piattaforme social. Per capire quanto e come siamo davvero connessi, occorre partire da qui, dalle tendenze globali, e poi avvicinare l’obiettivo sul nostro contesto.


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Dall’uso smodato alla social fatigue

L’anno scorso avevamo concluso che, dopo anni di falsi allarmismi non supportati da dati sullo stato di salute dei social network, questi avevano cominciato a dare qualche effettivo segnale di cedimento, e ci eravamo chiesti se la tendenza sarebbe continuata.
Nel 2019, passavamo in media 144 minuti al giorno sui social. L’anno successivo c’è stata una crescita ulteriore, ma di solo minuto rispetto all’anno prima (quindi 145 minuti. Nel 2021 la crescita è proseguita, e si è arrivati a 147 minuti, mentre nel 2022 si è raggiunto il record di 151 minuti.

Nel 2023 invece è arrivata la famigerata social-fatigue, quella sensazione di stanchezza verso i social che arriva quando il flusso di contenuti, notifiche, richieste di attenzione e interazioni diventa eccessivo e ci fa sentire sovraccarichi: si scrolla meno, si pubblica meno, si seleziona di più. È un affaticamento cognitivo ed emotivo che porta gli utenti a prendersi pause, ridurre il tempo online o migrare verso spazi percepiti come più tranquilli, e infatti il tempo medio passato sui social è diminuito di ben 8 minuti al giorno, passando a 143, mentre, viceversa, il tempo medio passato su Internet aumentava di tre minuti. Certo, se si parla di un solo anno il dato singolo dice poco, bisogna registrarlo e vedere se negli anni successivi si conferma o meno. Nel 2024 si è vista una conferma: anche quell’anno il tempo passato sui social media a livello mondiale è calato, passando a 141 minuti al giorno.

Com’è andata quest’anno? Non lo sappiamo

Purtroppo quest’anno We Are Social e Meltwater ci hanno decisamente complicato le cose: i dati non sono più raccolti giorno per giorno, ma settimana per settimana. Il passaggio dal dato giornaliero a quello settimanale impedisce qualsiasi conversione diretta e inoltre i dati sono stati divisi per fasce d’età.

In questo caso, la media non è applicabile, perché non conosciamo la numerosità, cioè il numero di intervistati per ogni categoria (di solito in questi studi non sono lo stesso numero per genere e fasce d’età). Il dato che emergerebbe, e che sarebbe quasi rivoluzionario (si passerebbe da 141 minuti al giorno a 56) non fa testo, anche perché il report è stato fatto uscire molto in anticipo per allinearsi meglio con la pianificazione dei contenuti della strategia digitale, che di solito viene fatta a fine anno, e la stessa azienda mette in guardia dai confronti: “poiché abbiamo cambiato il nostro ciclo di pubblicazione rispetto ai nostri rapporti Digital 2025, si prega di prestare molta attenzione alle date e ai periodi di tempo indicati in questo articolo e nei nostri rapporti Digital 2026 di accompagnamento, ed evitare di calcolare i valori per il cambiamento nel tempo facendo riferimento ai dati pubblicati nei nostri rapporti e articoli precedenti”.

Game over, addio ragionamenti sulle tendenze.

I social sono davvero in agonia?

Per capire se e quanto i social stiano effettivamente soffrendo di un calo di popolarità, ci siamo in passato soffermati sul tempo trascorso su queste piattaforme perché ragionare sulla base degli utenti attivi ha dei limiti: su quasi tutte le piattaforme si possono registrare più profili in contemporanea, e solo quelle del gruppo Meta avrebbero i mezzi tecnici per capire se una stessa persona sta aprendo più pagine (perché nella maggior parte dei casi fanno capo a un unico profilo personale su Facebook). Anche il report mette in guardia su questo punto, ma aiuta comunque a farci un’idea della situazione.

A fronte di una popolazione mondiale di 8,25 miliardi, 6,04 di questi si connettono a Internet secondo i dati di Kepios, più del 70% della popolazione, mentre 5,66 miliardi, il 68,7% sono presenti sui social network (+4,8% rispetto ai 12 mesi precedenti): significa due persone su tre, e questo non è un dato che si può ignorare.

Davanti a questi numeri globali diventa inevitabile chiedersi quali implicazioni abbia tutto questo, in particolare in Italia, sui settori che più dipendono dalla capacità di raggiungere un vasto pubblico: l’informazione, la divulgazione scientifica e la comunicazione culturale, un ecosistema in cui il modo stesso di cercare, consumare e interpretare l’informazione sta cambiando.

Qualche certezza

Anche se non si può fare un confronto diretto con gli anni precedenti, il report ci dice che fino a ottobre 2025 in Italia gli utenti con più di 16 anni trascorrevano in media 31 ore e 24 minuti online ogni settimana, e di queste 8 ore e 18 minuti erano dedicate ai social media. Anche senza un riferimento giornaliero, emerge un quadro ormai consolidato: l’uso del digitale è entrato in modo stabile nella vita quotidiana, dalle conversazioni ai servizi pubblici, dalla fruizione culturale alla ricerca di informazioni.

Questa centralità del digitale ha un impatto diretto sull’informazione. Tra le motivazioni principali per cui gli italiani si connettono, il 65,2% dichiara di farlo per rimanere aggiornato sulle notizie, un dato che conferma come Internet sia ormai una delle principali infrastrutture informative del Paese.

Non si tratta più di un’abitudine legata alla giovane età come vorrebbe lo stereotipo: l’elevata diffusione dell’accesso a Internet nelle fasce adulte suggerisce un pubblico estremamente eterogeneo per età e competenze digitali.

Canali che si moltiplicano

Gli utenti social in Italia sono 41,2 milioni, pari al 69,7% della popolazione, un valore di poco superiore alla media globale. Il report segnala una diminuzione del 2,4% delle social media user identities, ma è difficile capire come interpretarlo: in un panorama che vede un controllo sempre maggiore dell’uso dei social da parte dei minori, parte di questo calo è imputabile all’eliminazione di profili falsi.
Il report mostra una presenza molto diversificata sui vari canali digitali: social network, piattaforme video, servizi di messaggistica e siti informativi compaiono stabilmente tra i contenuti più visitati e usati ogni settimana. Per chi si occupa di giornalismo o divulgazione scientifica, questo significa operare in un ambiente frammentato, in cui ogni piattaforma richiede un proprio linguaggio, un proprio ritmo e una propria forma narrativa.

Nel complesso, emerge un pubblico che non abbandona i canali digitali, ma li utilizza in modo più attento e selettivo (il 49.9% li usa per leggere news, mentre il 46.6% per semplice intrattenimento). L’interesse rimane alto, ma si sposta verso contenuti percepiti come rilevanti, affidabili e utili. In un contesto in cui l’attenzione è sempre più preziosa, la sfida per l’informazione e la divulgazione diventa quella di costruire messaggi chiari, contestualizzati e riconoscibili, capaci di distinguersi in un panorama digitale in continua evoluzione.

I rischi per chi fa informazione

In Italia, dove il livello di fiducia verso le istituzioni dell’informazione è storicamente fragile, la presenza di divulgatori, ricercatori e professionisti sui social sta assumendo un ruolo che va oltre la semplice “traduzione” dei temi complessi in linguaggio accessibile. Diventa una forma di micro-mediazione culturale, uno spazio in cui la reputazione personale, la chiarezza, la trasparenza e la continuità contano quanto le competenze.

Il rischio, ovviamente, è quello della disinformazione: la sovrapposizione tra contenuti professionali e contenuti prodotti senza criteri giornalistici o scientifici può creare un ambiente informativo disordinato, in cui l’utente ha pochi mezzi per definire le fonti affidabili. In un Paese in cui quasi la metà delle persone usa i social per farsi un’opinione su temi complessi, la presenza di contenuti fuorvianti può avere un impatto tangibile sul dibattito pubblico.


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Il ruolo dell’intelligenza artificiale

A questo si aggiunge un cambiamento già in corso: la crescente difficoltà di distinguere tra contenuti prodotti da persone e contenuti generati dall’intelligenza artificiale. Per il mondo dell’informazione e della divulgazione questo significa due cose. La prima: sarà sempre più importante dichiarare le fonti e la metodologia con cui si producono i contenuti. La seconda: il valore aggiunto umano, l’interpretazione, l’esperienza, il giudizio critico, diventerà il principale elemento distintivo.


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Il 2026 potrebbe quindi essere ricordato come un anno di transizione: non più l’epoca della crescita inarrestabile dei social, ma quella della loro maturità. In cui la sfida, per chi fa informazione e divulgazione, diventa raggiungere le persone giuste con contenuti che possano reggere alla complessità del loro tempo. Forse a breve la domanda non sarà più “quanti persone stanno online”, ma “che cosa fanno quando stanno lì?”. E la risposta, stando ai dati, sembra virare verso contenuti che aiutano a capire, orientarsi, mettere in prospettiva, oltre che intrattenere. In altre parole, proprio quel tipo di informazione che, nel bene e nel male, oggi passa sempre più da uno schermo che ci accompagna ovunque.

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