SOCIETÀ

Disabilità e inclusione: una questione di cambio di prospettiva

Il 3 dicembre ricorre la giornata internazionale delle persone con disabilità. In un mondo ideale questo evento non si ricorderebbe, poiché a tutte e a tutti sarebbero garantiti gli stessi diritti, a prescindere dalla propria condizione. Eppure, il cammino verso un’inclusione autentica e completa è ancora lungo, dunque è doveroso soffermarsi sui passi avanti, ma anche sulle criticità e gli ostacoli che ancora permangono nella realizzazione di una società che valorizzi a pieno tutte le differenze.

Questo processo di cambiamento e di evoluzione inizia dalla scuola, che accoglie bambine e bambini fin dalla tenera età, e assume un ruolo fondamentale durante tutto il periodo della loro crescita, fino alle soglie dell’età adulta. È importante che ad ogni persona vengano dati gli strumenti per poter apprendere e imparare nel modo che a ciascuno è più congeniale, ma anche che si accolga e si valorizzi l’unicità individuale.

Nel corso del tempo l’istituzione scolastica è gradualmente mutata, percorrendo una strada che, dalle scuole speciali che separavano nettamente le studentesse e gli studenti con disabilità dalle altre persone, conduce fino alle classi di oggi, in cui questo divario è stato definitivamente eliminato.

Tecnologie digitali: connesse o connettive?

Tuttavia, le sfide che l’istituzione scolastica deve affrontare per dirsi realmente inclusiva sono diverse: una su tutte l’avvento delle nuove tecnologie - computer, cellulari, intelligenza artificiale e strumenti avanzati per l’accessibilità -, che possono essere utili per un apprendimento più agevole, ma possono anche rivelarsi controproducenti e, in alcuni casi, addirittura discriminanti.

“Per valutare quanto e come i dispositivi digitali incidano nella scuola di oggi - spiega a Il Bo Live Marina Santi, docente di pedagogia speciale all’Università di Padova, - Occorre porsi alcune domande fondamentali: che idea abbiamo di disabilità? e come concepiamo l’inclusione?”.

Santi ricorda che, nel 2001, l’OMS (Organizzazione Mondiale Della Sanità) ha redatto un documento, l’ICF (International Classification Of Functioning, Disability And Health), in cui fornisce la definizione di disabilità che ancora oggi è utilizzata. Questa classificazione non descrive tale condizione come una caratteristica inestricabilmente legata all’individuo; emerge, invece, una prospettiva diversa, che la determina come ciò che deriva da una situazione che ostacola l’attività e la partecipazione individuale. Da questo punto di vista, si può affermare che chiunque possa ritrovarsi in uno stato di disabilità nel momento in cui sperimenta una limitazione delle proprie funzioni o della propria possibilità di partecipazione.

Un approccio bottom-up per tutte le persone

“Per questo - afferma la docente - il problema dell’inclusione non è da considerarsi statico, e non può essere risolto con un approccio top-down, dall’alto verso il basso, pensando che basti utilizzare dispositivi e strumenti diversi per rendere la didattica realmente accessibile. È importante, invece, adottare un approccio bottom-up, cioè dal basso verso l’alto, da un basso che è dato dalla molteplicità dei funzionamenti umani e dalle differenze che diventano un valore”. Secondo la concezione di Santi, lo status di incluso non deve appartenere all’individuo, ma inclusivo deve essere l’ambiente in cui è inserito, che deve essere strutturalmente progettato per aprirsi alle varie soggettività, valorizzandone le differenze.

Nonostante l’impatto fortemente positivo che le nuove tecnologie hanno avuto sull’autonomia delle persone con disabilità, non è detto che, in qualunque caso, contribuiscano ad attuare questa concezione di inclusione.

“Può capitare - afferma Santi -, che questi strumenti divengano semplicemente mezzi per restare connessi: in questo senso, le tecnologie si configurano non solo come veicolo di trasmissione di contenuti, ma anche come modalità di controllo. Essere connessi significa anche essere monitorati e trasformati, non in base a una direzione propria, ma secondo traiettorie stabilite da autorità esterne, logiche di mercato o ideologie politiche”.

Per questo motivo occorre andare oltre e diventare connettivi. Per spiegare questo termine Santi utilizza come metafora il tessuto connettivo dell’epidermide: attraverso il tatto, infatti, non recepiamo soltanto informazioni dall’ambiente esterno, ma avvertiamo anche emozioni, sentiamo il fluire della vita intorno. Il tessuto connettivo produce qualcosa di più della semplice somma delle connessioni in esso presenti: dà luogo a qualità ulteriori e dal significato più profondo.

“Dunque - dichiara la docente - se le tecnologie divengono strumenti connettivi, cioè generative di possibilità espressive e di significazione della vita, allora possono fornire un apporto positivo. Se, al contrario, diventano modalità di controllo, allora possono addirittura essere controproducenti, perché essere inclusi per essere monitorati non è realmente apertura”.

Ma come si può, nel concreto, fare un buon uso di questi nuovi dispositivi?

“È importante - afferma Santi - abbandonare l’approccio adattivo, di tipo darwiniano, dominante nella scuola di oggi. Ciò vuol dire che questi strumenti non devono essere utilizzati per consentire agli individui di acquisire, in un modo o nell’altro, le abilità considerate importanti. Ciò cancella le differenze e favorisce l’omologazione, che è contraria alla natura umana e non è mai stata una strada vincente da perseguire. Quando una tecnologia, invece, consente di improvvisare e fa emergere la spontaneità di ogni persona, crea differenza, e diviene uno strumento essenziale per garantire realmente inclusione”.


Leggi anche: A scuola tutto bene? L'accessibilità delle scuole italiane


Si può, per esempio, considerare la comunicazione aumentativa, che spesso utilizzano le persone nello spettro autistico, non solo in modo utilitaristico, come qualcosa che serve ad essere connessi con il mondo, ma anche come forma di espressione, come modalità per improvvisare e stimolare la fantasia e l’immaginazione, e come un mezzo per creare nuovi significati e sensi.

Un altro aspetto della didattica che dovrebbe mutare è la concezione di un sistema educativo alternativo, valido soltanto per determinate categorie di persone.

“In questi casi - dichiara Santi - il fattore discriminante è forse maggiore per chi non ha una disabilità. Vivere la differenza di funzionamento è un diritto di tutte le persone. Chiunque può sperimentare delle difficoltà, perciò è indispensabile adottare un insieme di differenti strategie, tradizionali, tecnologiche o alternative, valide per chiunque, e non soltanto per chi si trova in una specifica condizione, perché ogni individuo possa esprimere e sperimentare la differenza”.

Universal Design for Learning: progettare per tutte e tutti

Il percorso che la scuola deve intraprendere per fare propri questi concetti è ancora lungo, ma esistono approcci alternativi che vanno in questa direzione. Alioscia Miotto, dottore di ricerca in Scienze pedagogiche dell’educazione e della formazione, descrive a Il Bo Live lo Universal Design (UD), e lo Universal Design For Learning (UDL), due metodologie che, come lui stesso afferma, consentono di concepire l’inclusione in modo più sistemico e profondamente umano.

“Lo Universal Design - spiega Miotto - è un approccio relativamente giovane. Nasce negli anni Ottanta, e mira a progettare qualsiasi ambiente fisico senza barriere. L’idea è non attendere che si presenti la necessità, ma creare, fin da subito, edifici accessibili al maggior numero di persone possibili”.

È necessario un cambio di paradigma: non risolvere il problema quando si presenta, ma progettare una didattica accessibile a più persone possibili fin dall’inizio Alioscia Miotto

Questa teoria è stata poi declinata in ambito pedagogico con lo Universal Design For Learning: in questo caso, dice il ricercatore, l’obiettivo è che ciascuna persona possa scegliere il modo di esprimersi più adeguato alle sue caratteristiche. Durante lo svolgimento dei compiti in classe, per esempio, si può utilizzare non solo la modalità scritta o orale, ma anche strategie diverse, che però non sono strumenti compensativi, ma mezzi per abbattere alcune barriere.

Miotto ha studiato questo approccio durante una Summer school a Oslo, in cui è ampiamente utilizzato e i progressi sono evidenti; ma è importante che divenga la norma anche in Italia. Perché ciò accada è essenziale non intervenire soltanto là dove sopraggiunga una situazione di difficoltà.

“È necessario un cambio di paradigma: non risolvere il problema quando si presenta, ma progettare una didattica accessibile a più persone possibili fin dall’inizio”.

In questo modo ci sarà realmente inclusione: come conclude Miotto, infatti, quest’ultima è autentica quando consente a ogni persona di esprimere il proprio valore e di autodeterminare le proprie scelte, senza sottostare agli schemi e ai protocolli che la società impone.

“Una scuola realmente inclusiva valorizza tutti i talenti, utilizzando ogni strumento a disposizione per consentire a tutte le persone di essere realmente se stesse. Anche le nuove tecnologie, se usate in questo modo, possono dare un reale contributo alla creazione di una didattica priva di barriere”.

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012