Noi sapiens alle prese con la genialità, più o meno intelligente, della natura
Foto di Eren Ataselim
Associare il sostantivo maschile metaforico “genio” al sostantivo femminile materiale “natura” è sempre un azzardo, soprattutto se vi sono riferimenti antropomorfici. Il genio è un’attitudine individuale, la genialità una capacità di intuizione e creatività associabile forse alla vita biologica stessa, ma siamo noi esseri umani sapienti a dare definizioni e spiegazioni, a taluni è capitato di farlo in modo geniale. Non a caso, casomai, genio viene empaticamente collegato a sregolatezza, a uscire dalle regole consolidate, dai canoni certificati, dalle abitudini comportamentali, dalle “certezze” scientifiche. Associare noi alle multiformi intelligenze, più o meno geniali, e proprio alla mitica sapienza, è altrettanto azzardato, forse addirittura paradossale. Le nostre “sapienze” e ignoranze sono quasi sempre antropocentriche, faticano a introiettare le variabilità degli ecosistemi cosiddetti “naturali” (che ci ricomprendono), visto che la Terra, la vita in Terra e i cicli di regolazione biochimici e biologici sulla Terra si sono trasformati a vicenda, si sono coevoluti, hanno coevoluto.
Risulta, quindi appena appena discutibile l’associazione fra il sostantivo Homo e l’aggettivo sapiens, in realtà un binomio classificatorio, definitorio, simbiotico. Abbiamo fatto tutto noi, in modo di caratterizzare l’enorme geniale naturale biodiversità nella quale siamo immersi, da una parte i regni al livello più generale, dall’altra le specie al livello più “specifico”. Noi una specie di primati del genere Homo, scimmie bambine fragili con antenati comuni che risalgono a milioni di anni fa, convissuti con altre specie del genere per centinaia di migliaia di anni, rimasti da decina di migliaia di anni l’unica specie ancora in vita, residua. La vita che ci ha preceduto (per lunga enorme maggior parte del tempo) e poi accompagnato non possiede finalità, linearità, rigidità. Inventa, è plastica e flessibile, gestisce e riadatta, si valuta (da parte nostra e di ogni vivente) in diretta ed ex-post, chissà come.
L'associazione tra "genio" e "natura"
Qualche mese fa, sempre nel 2025 che volge al termine, un giovane ricercatore di letteratura ha provato ad associare scientificamente “genio” e “natura” e ne ha tratto uno studio narrativamente arguto e molto interessante: David Farrier, Il genio della natura. Lezioni di vita dalla Terra che cambia, traduzione di Irene Annoni, Touring Club Italiano Milano 2025 (orig. 2025, Nature Genius: Evolution’s Lessons for a Changing Planet), pag. 297, euro 24. Effettivamente, da circa quattro miliardi di anni, la vita sul globo terracqueo sperimenta nuovi modi di essere, percepire, muoversi e riprodursi, trovando ogni volta nuove forme con cui affrontare le sfide del momento. Ma le difficoltà di vivere su un pianeta abitato dagli umani stanno mettendo a dura prova sia la plasticità che l’ingegnosità della natura. In tutti i continenti eccetto l’Antartide, animali, piante e insetti stanno alterando il loro organismo e il loro comportamento per rispondere alle pressioni esercitate dalla trasformazione sia degli ecosistemi che del clima.
L’innalzamento globale delle temperature sta ampliando le aree di diffusione delle creature più diverse, da coralli e muschi a uccelli e farfalle. La navigazione transoceanica ha riavvicinato continenti che si erano separati milioni di anni fa. Nelle città, palazzi alti, binari sotterranei e zone verdi offrono versioni sintetiche di pareti rocciose, grotte e corsi d’acqua. L’impronta umana si vede ovunque: negli uccelli che dimenticano il loro canto, nei ragni delle zone urbane che tessono tele più fitte, negli elefanti che nascono senza zanne per sfuggire alle letali attenzioni dei cacciatori. Oggi, la nostra meticcia civiltà umana è diventata la più grande spinta evolutiva al mondo. La lezione che ci viene dal modo in cui animali, piante, insetti e microrganismi reagiscono alle sfide del convivere su un pianeta a forte impronta antropica è che il cambiamento può essere notevolmente rapido.
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Stiamo costringendo la natura a reimmaginare sé stessa, pure molto in fretta, e siamo chiamati a farlo anche noi per evitare il disastro, affinché la Terra resti un luogo in cui ogni forma di vita sia libera di prosperare. Il genio della natura (da cui il titolo) è dotato di un’inesauribile inedita creatività. Il giovane ricercatore britannico David Farrier insegna Letteratura inglese all’Università di Edimburgo. Nell’ottimo reportage narrativo sceglie uno stile colloquiale scientifico per fare il punto sullo stato della Terra a partire da ricerche recenti (talora in laboratorio) sulle cose di tutti i giorni e da conversazioni con esperti scientifici e volenterosi militanti in vari ecosistemi nevralgici per comprendere l’ecologia del divenire e le opportunità di rigenerarsi. Occorre guardare bene all’inventiva dei terreni e degli ecosistemi, soprattutto a quella dei batteri che li abitano.
Il testo è originale e multidisciplinare, abbastanza aggiornato. La narrazione viene distinta in sette capitoli: Il cane ottimale, ovvero quando la domesticazione (qui affrontata in modo tradizionale) dimostra che il cambiamento è possibile (con utili cenni alla genetica e ai danni alimentari del sistema industriale); La città vivente (qui con un parallelismo con la dimensione insulare), ovvero come l’evoluzione urbana può insegnarci a costruire città sostenibili (con utili esempi di e in “biocittà”); Un tratto di natura accomuna tutti al mondo, ovvero come le altre specie possono aiutarci a risolvere il problema dei rifiuti (in particolare delle plastiche; e si parla pure di sesso); L’affinità delle lingue, ovvero quando il canto degli animali ci insegna ad ascoltare la natura (acquisizione opportuna anche per poesia, afasia, sinestesia); Menti insolite, ovvero come altre forme di intelligenza ci aiutano a rimodellare le nostre economie (la sfera “cognitiva” a partire dalle cellule, sonno e sogni, intelligenza artificiale, profitto e mercato); Orologi naturali, ovvero perché ripensare il tempo può aiutarci a scegliere un futuro migliore (nell’epoca dei cambiamenti climatici antropici globali); Il balzo dell’uomo-leone, ovvero perché la biologia di sintesi può salvare le specie vulnerabili dall’estinzione.
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Dopo aver affrontato il fenomeno antropologico della domesticazione di varie specie, originaria e per certi versi reciproca, Farrier discute le sperimentate influenze artificiali e destabilizzanti sui corpi standardizzati ai fini della produttività. L’allevamento industriale è divenuto un ambiente in cui l’evoluzione avviene con una potenza unica e un’estrema efficacia: la popolazione mondiale esistente di polli (il numero di soggetti vivi in un dato momento) è attualmente di 22,7 miliardi di individui, superiore di un intero ordine di grandezza alla seconda popolazione ornitologica più vasta, quella del quelea beccorosso (1,5 miliardi). Il settore agricolo-zootecnico è da decenni quello a più alto impatto alterante sugli ecosistemi, sostituisce foreste ricche di vita con campi zeppi di bestiame e di colture. Le specie domesticate costituiscono il sessanta per cento dell’intera biomassa di mammiferi terrestri del pianeta; almeno un terzo delle emissioni di gas serra è imputabile agli allevamenti; la diversità genetica delle colture si è ridotta ad appena un quarto di quella del 1900, dominata da quattro sole specie (frumento, riso, mais, soia); l’uso massiccio di fertilizzanti ricchi di azoto e fosforo inquina molto suoli e acque (dove proliferano alghe che marciscono); il cibo diventa una cosa invece che una relazione.
Gli accenni agli ecosistemi insulari appaiono affascinanti ma talvolta discutibili. Certo, le isole hanno un richiamo irresistibile per la vita, però è forzato scrivere un loro gran numero ormai “nasce sulla terraferma” come dinamica dell’urbanizzazione, quasi ogni città considerata al tempo stesso isola, arcipelago e patchwork di nicchie ecologiche. La definizione degli esseri viventi (noi compresi) come “arcipelaghi” e non come isole coglie metaforicamente, comunque, un aspetto cruciale: le relazioni e la connessione, le simbiosi e la cooperazione nell’evoluzione biologica, ogni essere vivente è un’intelligenza collettiva. L’autore esprime opportuni riferimenti al migrare di tante specie, fenomeno asimmetrico e diacronico che andrebbe messo in collegamento con i paragrafi sulla mente e sui “pensamenti” della natura. Necessità e scelta sono le forze motrici di quasi ogni mente animale, ribadisce Farrier.
La combinazione di necessità biologiche e di opzioni plasmate da conoscenza e apprendimento hanno prodotto una schiera di intelligenze altamente specializzate, forgiate dalle sfide del vivere nella folta chioma di un albero o in seno a una colonia di milioni di individui. Un mutamento comportamentale riflette sempre un analogo cambiamento mentale. In anni recenti, lo studio della sfera cognitiva non umana ha rivelato quanto sia vasta e multiforme l’intelligenza (innovazione dei nostri primissimi antenati unicellulari), per noi stessi la caratteristica cruciale è la fluidità. La dimensione cognitiva, umana e non umana, non si espande solo verso il mondo esterno, si incarna anche dentro i corpi viventi. E molte specie hanno imparato a pensare insieme, a decidere collettivamente (cita i voli sincronizzati degli storni).
I ragni: le menti insolite
Fra le menti insolite spiccano i ragni: il cervello prolungato della ragnatela è una straordinaria conquista evolutiva, loro costruiscono tele da almeno 100 milioni di anni praticano l’estensione mentale del proprio ambiente, noi siamo riusciti a renderne alcuni più ottusi. Gli araneidi usano fino a sette tipi di seta con gradi di resistenza e flessibilità diversi: il tipo più robusto, realizzato con la proteina spidroina ampullata maggiore (MaSp), è abbastanza forte da assorbire l’urto di pipistrelli e piccoli volatili. L’esposizione a temperature e livelli di umidità maggiori a causa dei cambiamenti climatici antropici globali altera, tuttavia, le proprietà meccaniche della MaSp, rendendola più rigida, con maggiori probabilità di rompersi e meno efficacia nel comunicare (tramite vibrazioni) il punto in cui la preda è entrata in contatto con la tela. Inoltre, il clima sta cambiando così repentinamente che molte specie non si evolvono abbastanza in fretta da tenere il passo; molti orologi naturali iniziano a perdere colpi, ritrovandosi avanti o rimanendo indietro; alcuni cominciano ad andare fuori sincrono e faticano a camminare, risultano fatalmente destinati a fermarsi; il riscaldamento climatico ha per esempio causato interferenze significative nella fenologia delle piante oppure disallineamenti nei tempi di predatori e prede, piante ed erbivori, fiori e impollinatori, dai potenziali effetti catastrofici.
Introduzione e capitoli sono preceduti da un’illustrazione evocativa, i connessi riferimenti bibliografici sono ordinati in fondo. Non è presente l’indice dei nomi. Pur tenendo sempre in considerazione i processi antichissimi della vita sul pianeta, in ogni capitolo l’autore aggiunge spunti sui più recenti nessi fra complessiva evoluzione biologica e sistemi economico-sociali umani. Purtroppo, a prescindere dalla qualità della traduzione, anche in questo testo si parla di America invece che di Stati Uniti. Restano i fatti che non esiste organismo vivente che non viva in simbiosi con altre forme di vita e che la vita non smette e non smetterà di cercare una forma inedita che si adatti alle nuove condizioni. Spesso il fascino ipnotico del presente ci fa prestare attenzione solo all’imminenza e alla contingenza. Dovremmo ragionare meglio, invece, sulle durate di vita delle nostre costruzioni, delle nostre produzioni, dei nostri consumi, forse anche delle nostre relazioni (comunque evolvano).
Farrier sostiene che la biologia non pianifica, piuttosto improvvisa, e insiste molto sul fertile processo e sul celebre termine coniati oltre quaranta anni fa dai paleontologi Stephen Jay Gould ed Elisabeth Vrba, exaptation, un tratto funzionale (aptus) a partire da (ex) una struttura esistente che viene convertita, che qui nella traduzione italiana diventa “exattamento” (e rende meno l’idea). Visto che le funzioni e il funzionamento degli organi mutano col tempo, talora radicalmente, consentendo attività del tutto diverse da quello “originarie”, anche noi dovremmo tentare o metterci nelle condizioni di prevedere che ciò che abbiamo ipotizzato, progettato e realizzato con uno scopo potrebbe successivamente servire ad altri scopi, riusabile da altri nel tempo e, diversamente, pure da vite e contesti dagli stessi ecosistemi nei quali lo avevamo inserito. Tener conto delle potenzialità (“insite”), seppur non tutte previste o prevedibili all’inizio (classico il caso dei “rifiuti”): il collasso ambientale appare come un problema cognitivo e narrativo oltre che ecologico e sociale.