SCIENZA E RICERCA

Il Brasile e quel mix di geni europei, africani e indigeni

La diversità umana che caratterizza il Brasile è una ricchezza ineguagliata nel mondo. L’attuale popolazione brasiliana, infatti, è il risultato di un intenso susseguirsi di migrazioni dall’Europa e dall’Africa a partire dal XVI secolo, quando iniziò la colonizzazione del territorio da parte del Portogallo. La commistione tra le diverse etnie – popoli indigeni, europei e africani – iniziò subito, creando, in poche centinaia di anni, un popolo estremamente variegato per colori della pelle, tradizioni culturali e varietà genetica.

Proprio di questo carattere, fino ad oggi poco investigato, si è occupata una ricerca scientifica condotta da studiosi spagnoli e brasiliani, e pubblicata sulla rivista Science. Nell’articolo, i ricercatori presentano i risultati dell’analisi dei genomi completi (Whole Genome Sequencing) di un campione di 2.723 individui sani provenienti da tutto il Brasile, svelando una grande diversità genetica finora sconosciuta, che riflette la complessa storia politica e demografica del Paese.

Una storia complessa

L’arrivo dei colonizzatori europei a partire dal ’500 decimò le popolazioni indigene, anche a causa dell’involontaria importazione di malattie infettive a loro sconosciute; poco dopo l’inizio della colonizzazione, gli indigeni furono schiavizzati e, infine, relegati alle aree più remote e inaccessibili del Paese. Inoltre, fin dai primi decenni di colonizzazione, portoghesi e spagnoli avviarono un’imponente tratta di schiavi, rapiti soprattutto dalle regioni dell’Africa occidentale e impiegati in Brasile nelle piantagioni o nell’estrazione dell’oro. La tratta degli schiavi, proseguita dal XVI al XIX secolo, causò la migrazione forzata di milioni di africani. L’ultima grande ondata di migrazione che ha contribuito a fare del Brasile una nazione multietnica vide come protagonisti gli europei (soprattutto spagnoli, italiani e tedeschi), che arrivarono a milioni tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento, non più in veste di colonizzatori, ma di umili migranti in cerca di condizioni di vita migliori e in fuga dalla povertà a cui erano costretti in Europa.

Lo studio pubblicato su Science mostra come questa complessa storia di coercizione e commistione abbia lasciato tracce ben visibili nei genomi dei brasiliani contemporanei. Analizzando i quasi 3000 genomi raccolti, i ricercatori hanno identificato quasi nove milioni di varianti genetiche mai osservate prima, corrispondenti all’11,8% di tutte le varianti presenti nel campione di dati. I ricercatori spiegano che molte delle varianti più rare sono di origine africana e indigena; inoltre, la storia di immigrazione che caratterizza il Brasile spiega anche perché molte varianti rare nella popolazione mondiale si presentano con molta più frequenza in quella brasiliana. La migrazione, infatti, genera un effetto di riduzione della varietà genetica (noto come “effetto del fondatore” o “collo di bottiglia”), che in Brasile si manifesta, ad esempio, nella diffusione di alcune malattie genetiche molto rare in Europa, come la malattia di Machado-Joseph o la sindrome di Li-Fraumeni.

Oltre lo sguardo eurocentrico

La principale innovazione di questa ricerca non sta tanto nei metodi, che sono standard per questo genere di analisi, quanto piuttosto nella selezione del pool genico, che include popolazioni solitamente poco studiate e, quindi, non rappresentate nei dataset esistenti. “Storicamente, gran parte delle conoscenze sulle varianti geniche legate a specifiche patologie e alla variabilità fenotipica si sono concentrate su dati europei, creando, di fatto, una conoscenza eurocentrica. Il motivo è pratico: le università principali erano soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e, anche per motivi economici e tecnici, si tendeva a raccogliere campioni principalmente nelle vicinanze”, spiega Massimo Mezzavilla, antropologo molecolare e docente all’università di Padova. “Il Brasile ha una storia recente molto variabile, plasmata da diverse migrazioni (tratta degli schiavi, colonizzazione, etc), da cui deriva una composizione genetica particolare, esemplificata dai moltissimi polimorfismi individuati in questa ricerca che non erano presenti in nessun database”, prosegue il ricercatore.

Lo studio dei genomi brasiliani ha anche consentito ai ricercatori di osservare quanto le diverse origini geografiche siano presenti nella popolazione di oggi. Anche questi risultati sono coerenti con la storia demografica del paese: più della metà delle varianti genetiche di cui si compone il dataset è di origine europea (58,9%); segue la componente di origine africana (circa 27%), e infine vi è il contributo delle popolazioni indigene (circa 13%), che dai risultati di questo studio appare considerevolmente più alto rispetto a stime precedenti. Come ha spiegato al quotidiano El Paìs la genetista Lygia da Veiga Pereira, tra le autrici dello studio, questi dati dicono che “a differenza di altri Paesi, anch’essi molto eterogenei, come gli Stati Uniti, dove vigevano rigide politiche di segregazione, in Brasile la popolazione si è mescolata intensamente. Degli oltre 2.700 brasiliani analizzati, quasi tutti presentavano tratti indigeni, europei e africani”.

Genomi plasmati dalla storia

D’altro canto, gli autori mettono in luce la mancanza di individui il cui genoma abbia un’origine prevalentemente africana o indigena: la spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che “la maggioranza delle linee di discendenza del cromosoma Y in questo campione è di origine europea (71%), mentre la maggior parte di quelle mitocondriali è o africana (42%) o indigena (35%). Questo fenomeno – proseguono i ricercatori – è con ogni probabilità il risultato di una storica asimmetria nell’accoppiamento, che avveniva soprattutto tra uomini europei [i colonizzatori] e donne indigene e africane [in condizione di sottomissione o schiavitù]”.

Tale composizione del genoma, caratterizzata da una netta differenza tra l’origine etnica del contributo maschile e femminile, si modifica radicalmente nei genomi delle generazioni più recenti, in cui prevale una tendenza ad accoppiarsi tra persone della stessa etnia. L’ipotesi avanzata dagli studiosi è che questa tendenza si sia affermata soprattutto quando iniziò a formarsi una popolazione mista, favorendo un graduale cambiamento nelle preferenze di accoppiamento”.

Questi risultati, affermano gli studiosi, evidenziano “come i dati genomici possano aiutare a rivelare la storia della colonizzazione e le sue durevoli conseguenze sulla diversità genetica delle popolazioni contemporanee”.

Alla conformazione attuale di questa diversità potrebbe aver contribuito, in parte, anche la selezione naturale: i ricercatori hanno individuato alcuni punti del genoma che, dopo eventi di mescolamento, sembrano essere stati sottoposti a pressioni selettive. Queste avrebbero interessato principalmente tratti legati alla fertilità, alle capacità immunitarie e ai fenotipi del metabolismo energetico (peso corporeo, livelli di colesterolo, durata del sonno), tutti tratti che influiscono direttamente sulla probabilità di sopravvivenza e la capacità di riproduzione degli esseri umani. Tuttavia, come precisa Massimo Mezzavilla, bisogna essere molti cauti dell’indicare la selezione naturale come causa principale di un tratto, specialmente in una popolazione come quella brasiliana, che è frutto di una commistione recente (anzi, recentissima, secondo i tempi lunghi dell’evoluzione) tra popoli diversi. “In un genoma composto da eventi di admixture recenti, è difficile capire se le varianti specifiche legate a riproduzione, immunità e fenotipo metabolico siano dovute, ad esempio, alla recente introduzione di geni africani o europei: questo pattern, che in effetti sembra di natura evolutiva, potrebbe essere invece la conseguenza di eventi di admixture. Se oggi, per esempio, una parte della popolazione italiana si unisse con delle popolazioni himalayane, tra qualche generazione i dati genetici potrebbero suggerire un repentino adattamento alle condizioni ambientali degli ecosistemi d’alta quota!”.

“Tornando al caso del Brasile – prosegue Mezzavilla – non è errato ipotizzare anche l’azione di pressioni selettive per la riproduzione o la resistenza ai patogeni, ma qualora questi adattamenti fossero già stati presenti nelle popolazioni indigene, europee o africane al momento del loro incontro, allora potrebbe essersi verificato sia un fenomeno di admixture che, in parte, di selezione naturale. Ma è difficile definire la selezione come causa univoca del cambiamento, perché i metodi per stimare il verificarsi di selezione naturale richiedono una popolazione stabile, omogenea, in cui non c’è migrazione, e su cui a un certo punto agisce una variabile ambientale. Quando invece si ha una popolazione molto variabile, è difficile capire se la frequenza di una determinata variante si sia diffusa nella popolazione perché è stata portata, ad esempio, dalla popolazione africana o se sia frutto di un evento di selezione, o anche di una combinazione delle due cause”.

Considerare le origini etniche per migliorare la salute pubblica

Oltre a far luce sul passato del Paese, questo studio può contribuire anche a migliorare, in futuro, la salute della popolazione brasiliana. Uno dei principali risultati della ricerca è l’individuazione di oltre 36.000 varianti genetiche riconosciute come rare e potenzialmente dannose per la salute, che appaiono più comuni in individui con una maggiore percentuale di genoma di origine indigena o africana. Conoscere questa variabilità è essenziale per pianificare in modo mirato ed efficace le politiche di salute pubblica. Tuttavia, questa mappatura genetica è solo un primo passo verso la creazione di misure di prevenzione adeguate.

Come spiega Mezzavilla, “oggi sappiamo quali varianti sono all’origine di certe patologie nelle popolazioni europee, ma l’effetto di quelle stesse varianti genetiche può cambiare in diverse popolazioni. Questo dipende sia dalle condizioni ambientali che dall’interazione con altri geni. Gli studi di associazione devono poter monitorare sia la variabilità fenotipica, sia la variabilità genetica: a partire da queste informazioni si può valutare l’associazione tra queste due forme di variabilità nella popolazione. Può accadere, ad esempio, che un gene, che è polimorfico in popolazioni indigene o africane, sia invece monomorfico (privo di varianti) nella popolazione europea: in quel caso, non verrà mai riportato nei database, e non sarà possibile usarlo per predire il rischio in altre popolazioni. È per questo che nella popolazione brasiliana, il cui genoma è composto da “pezzi” europei, indigeni e africani, è molto più difficile predire il rischio complessivo di determinate malattie dovuto alla variabilità genetica”.

“Per le sperabili applicazioni mediche – conclude il docente – questo studio è dunque un punto di partenza: i prossimi passi dovrebbero essere l’estensione del campione (2723 individui sono tanti in assoluto, ma pochi in rappresentanza di una popolazione di 211 milioni di persone) e, al tempo stesso, l’avvio di indagini epidemiologiche e studi di associazione”.

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