SOCIETÀ
“Razze umane, storia di un lungo inganno” finalista al premio Galileo 2025

Le razze non esistono. Il razzismo, al contrario, è più reale che mai. Questa è la considerazione da cui parte Michele Pompei nel suo ultimo libro Razze umane. Breve storia di un lungo inganno (Scienza Express, 2024), con un contributo di Roberto Russo. L’opera è una delle cinque finaliste al Premio Galileo 2025 per la divulgazione scientifica.
L’opera parte dall’etimologia della parola “razza”, proveniente dal francese “haraz”, derivato a sua volta da un termine germanico che significava “allevamento di cavalli”. Fin dalla sua origine, dunque, il termine non serviva a descrivere gruppi umani distinti, ordinati secondo una sorta di gerarchia naturale. Eppure, è questa l’interpretazione che ha assunto nel corso della storia del pensiero occidentale. Il concetto di “razza” è diventato progressivamente uno strumento teorico per giustificare episodi di discriminazione, dominio e violenza – dal colonialismo, ai genocidi, dalle persecuzioni alle pratiche di segregazione razziale – in virtù di un presunto diritto naturale di alcuni gruppi umani, autoproclamatisi “superiori”, a rivalersi su altri, sfruttandoli, schiacciandoli e sottomettendoli.
Pompei si rifà alla classificazione delle diverse forme di razzismo proposta negli anni Ottanta dal genetista francese André Langaney, il quale definiva razzismo primario quel sentimento istintivo di diffidenza, paura o ostilità nei confronti di chi percepiamo come "diverso da noi". Di questo istinto – non esclusivo degli esseri umani – parla anche Telmo Pievani nella prefazione del volume, accennando alle radici evolutive di questo atteggiamento e alla sua funzione: quella di favorire la coesione all’interno del gruppo.
Ben diverso è il razzismo secondario, che consiste invece nella convinzione che la propria cultura sia superiore a tutte le altre, atteggiamento alla base di fenomeni umani come la xenofobia, il nazionalismo o il campanilismo. Il razzismo terziario, infine, si manifesta quando i pregiudizi vengono razionalizzati e giustificati sulla base di teorie elaborate e presunte basi scientifiche che danno vita a vere e proprie “politiche del pregiudizio”, legittimando la discriminazione sistematica di alcuni gruppi.
Come però l’autore chiarisce fin dall’inizio, Razze umane non è un trattato sulla storia del razzismo, né una ricostruzione dettagliata delle evidenze scientifiche che smontano l’idea di “razza” dal punto di vista biologico. Il libro è piuttosto una riflessione sul paradossale rapporto tra questi due concetti – uno privo di fondamento scientifico (la razza), l’altro terribilmente reale (il razzismo) – che nel tempo si sono intrecciati e rafforzati a vicenda.
Come sottolinea Pompei, per secoli ci si è interrogati sull’esistenza delle razze, sulla loro quantità e sui criteri di distinzione, con un atteggiamento che nella postfazione di Silvia Bencivelli viene definita addirittura “un’ansia classificatoria”. L’autore ripercorre alcune tappe significative di questa storia, dagli antichi egizi alla Bibbia, dalla penisola iberica medievale fino all’Illuminismo e al cosiddetto “razzismo scientifico”, per poi arrivare agli orrori del Novecento.
Il fatto stesso che siano state proposte svariate classificazioni della nostra specie – che hanno catalogato l’umanità in tre, quattro o più razze, a seconda dei casi – basta a farci dubitare dell’esistenza di una effettiva suddivisione tra esse.
Il concetto di “razza”, osserva Pompei, trova un'applicazione chiara e priva di ambiguità solo nell’ambito della zootecnia, la disciplina che si occupa del miglioramento delle altre specie attraverso incroci controllati e allevamenti selettivi, con l’obiettivo di ottenere animali domestici dotati di caratteristiche utili ai nostri bisogni. È stato attraverso questo tipo di pratiche di selezione artificiale che nel corso dei millenni gli esseri umani hanno plasmato le tante diverse razze di cane, cavallo, gatto, bovino, ecc. che conosciamo oggi. In tassonomia, infatti, il termine “razza” viene utilizzato per definire gruppi di animali appartenenti alla stessa specie, ma distinguibili perché dotati di un certo set di caratteristiche condivise che li differenziano dagli altri.
Il punto, spiega Pompei è che la razza è un artificio: non esiste in natura, senza l’intervento umano, e questo vale tanto per gli animali quanto per gli esseri umani. Sulla nostra specie, infatti, non sono mai state attuate pratiche di selezione artificiale.
Anche gli studi di genetica mostrano che l’umanità non è suddivisa in gruppi chiaramente riconoscibili, come accade invece per animali come cani o cavalli. Il biologo Roberto Russo, autore di uno dei capitoli del libro, spiega come la variabilità genetica tra gli esseri umani sia estremamente bassa rispetto a quella osservabile tra le razze animali, frutto dei meccanismi di selezione artificiale operati nel corso dei millenni.

Foto: Annika Treial / unsplash
Tra due razze canine, ad esempio, si possono rilevare fino al 61% di differenze genetiche. Invece, il 99,9% del dna umano è identico tra tutti gli individui, e quel minimo 0,1% di variabilità è distribuito in modo così sfumato da rendere impossibile distinguere sottospecie umane su base genetica. È possibile che il dna di due esseri umani appartenenti a gruppi etnici molto distanti differisca solo del 10-15%; allo stesso tempo, persone classificate della stessa “razza” possono anche differire del 90% (tenendo conto che le percentuali appena descritte riguardano sempre e solo quello 0,1% di dna non identico in tutti gli esseri umani).
In altre parole, due individui della stessa “razza” possono risultare geneticamente più distanti tra loro di quanto lo siano da persone di altri gruppi etnici. È il caso, citato nel libro, di James Watson e Craig Venter, due scienziati americani di origine europea, risultati geneticamente più simili al collega coreano Seong-Jin Kim, che tra di loro.
Inoltre, ricorda Russo, non esistono genomi “puri”: il dna di ognuno di noi è come un mosaico composto da tessere provenienti da luoghi, tempi e flussi di popolazione differenti, che riflette la complessa storia delle migrazioni che da sempre ha caratterizzato la nostra specie. Tutto questo dimostra quanto i tentativi compiuti nel corso della storia umana di distinguere gruppi umani diversi sulla base di tratti esteriori, come il colore della pelle o la provenienza geografica, siano in realtà arbitrari e fuorvianti, inadatti a riflettere una realtà molto più sfumata. Per questo Russo conclude che la vera diversità genetica è quella tra i singoli individui, non tra i gruppi, e che tale diversità – così come quella culturale – vada riconosciuta come una ricchezza, non come un motivo di discriminazione.
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Sebbene la suddivisione dell’umanità in razze sia priva di fondamento scientifico, questa categorizzazione continua a influenzare fortemente il nostro immaginario collettivo, con ripercussioni in numerosi contesti, dall’amministrazione, alla sanità pubblica, fino alla sicurezza, in cui è prassi classificare – e discriminare – le persone sulla base di questo criterio. L’autore evidenzia anche i limiti della race-based medicine, l’approccio che considera l’identità razziale come un fattore utile a prevedere le esigenze di salute o le risposte a specifici trattamenti, con il rischio di trascurare l’individualità dei pazienti e inficiare così la qualità delle cure.
Ritorniamo, perciò, di fronte al paradosso di cui si parlava all’inizio: il razzismo esiste, ma si basa su qualcosa di illusorio, ovvero sulla presunta distinzione biologica tra diverse razze umane. Pompei si domanda se sia possibile affrontare il problema da un punto di vista linguistico, trovando quindi un nuovo termine con cui sostituire quello di “razza”. Tra le varie istanze volte all’eliminazione della parola razza dal nostro vocabolario e dai documenti ufficiali, Pompei ricorda anche quella promossa dall’Associazione antropologica italiana (AAI) e dall’Istituto italiano di antropologia (IsItA). L’appello fu condiviso anche da Pietro Greco, che nel 2017 scrisse su Scienza in Rete un articolo dal titolo “Via la parola “razza” dalla Costituzione”, in cui invocava la sostituzione del termine in questione con espressioni scientificamente accurate e in grado di garantire uguali diritti e rispetto a ogni individuo, a prescindere dalla provenienza o dal contesto culturale di riferimento.
Dietro questi tentativi di rielaborazione linguistica c’è la consapevolezza che non basta smettere di parlare di razza, perché spesso questo termine compare nei testi normativi per condannare esplicitamente ogni forma di oppressione e discriminazione. Il punto, quindi, è trovare un linguaggio che consenta di fare questo senza perpetuare l’idea, scientificamente infondata, dell’esistenza delle razze umane. Per questo sono state proposte alternative come “origine”, “etnia”, “provenienza” o “nazionalità”, termini che tuttavia presentano sfumature diverse e che non sempre risultano pienamente adatti al contesto giuridico o sociale in cui si vogliono utilizzare. Il dibattito spiega Pompei, è ancora aperto e riflette una questione più ampia: come promuovere una sensibilità veramente inclusiva e non discriminatoria, senza perpetuare concetti privi di fondamento scientifico?
È qui che entrano in gioco la conoscenza e l’educazione, che possono aiutarci ad allenare il nostro spirito critico e impedirci di cedere a quelle “scorciatoie mentali” che forse un tempo hanno aumentato la coesione di gruppo, ma che oggi rappresentano un ostacolo al progresso civile e culturale.