SOCIETÀ

Come capire il ripristino della natura

“Il cambiamento climatico non è una minaccia dalla quale correre ai ripari, ma un evento già avvenuto: per questo non dobbiamo concentrarci sulla mitigazione, ma sull’adattamento a questa nuova realtà”. Così affermava, qualche giorno fa, Andrea Rinaldo, autorità internazionale dell’idrologia e professore emerito all’università di Padova, durante un evento su temi ambientali.

Proviamo ad applicare il ragionamento di Rinaldo anche alla crisi ambientale, e nello specifico al degrado degli ecosistemi e al declino della biodiversità: intendiamoli, cioè, non come un rischio futuro, ma come una realtà presente. Il ragionamento funziona altrettanto bene. Se riconosciamo che anche la crisi ambientale, come quella climatica, è già in corso, dobbiamo adattare di conseguenza le risposte da mettere in campo. Di fronte a una biodiversità che si assottiglia di giorno in giorno e ad ecosistemi sempre più frammentati, degradati e non funzionali, la sola protezione non è più sufficiente. Servono, e con urgenza, interventi più radicali: uno di questi è il ripristino ecologico.

Il libro: Restaurare la natura di Roberto Danovaro

È questa la tesi centrale presentata in “Restaurare la natura” (Edizioni Ambiente, 2025), il nuovo libro di Roberto Danovaro, ecologo e docente all’università politecnica delle Marche, nonché tra i massimi esperti mondiali di biologia marina e ripristino degli ecosistemi marini.

In questo volume – il primo, in Italia, a trattare in modo organico e divulgativo il tema del ripristino ecologico – Danovaro affronta uno degli aspetti più urgenti dell’attuale crisi ambientale: la degradazione degli ambienti naturali, la riduzione della loro abilità di sostenere la biodiversità – che sta infatti declinando ben più velocemente rispetto ai tempi evolutivi “normali” – e, aspetto tutt’altro che secondario, la loro crescente incapacità di fornire alle società umane quei servizi ecosistemici essenziali da cui dipende direttamente la nostra sopravvivenza.

L’autore di “Restaurare la natura” non edulcora la realtà: fin dalle prime pagine emerge la gravità della situazione, grazie a una serie di dati che mostrano con chiarezza quanto la “malattia” del nostro pianeta sia già in fase avanzata, e quanto, perciò, sia urgente agire.

Negli ultimi trent’anni, infatti, la realtà ha superato (in negativo) anche le proiezioni scientifiche più pessimistiche: abbiamo continuato a deforestare a gran velocità (dal 1990, specifica Danovaro, sono stati rasi al suolo 420 milioni di ettari di foreste, circa 14 volte la superficie dell’Italia), portando, ad esempio, le foreste tropicali sull’orlo del collasso. La biodiversità globale è sottoposta a diverse minacce incrociate (oltre alla perdita di habitat, l’inquinamento, le specie aliene invasive, la caccia e la pesca di frodo, i cambiamenti climatici…), le cui pressioni continuano ad aumentare. Eppure, di fronte a questo scenario, la maggior parte di noi si volta dall’altra parte, ignorando, paradossalmente, come la nostra stessa salute e sopravvivenza dipendano da una natura sana e funzionante.

Mettere in atto azioni di ripristino significa restituire salute e funzionalità agli ecosistemi degradati, depauperati della loro ricchezza biologica e impossibilitati a svolgere le proprie funzioni ecologiche. In questo modo, possono tornare a garantire la tutela di biodiversità e habitat, e al tempo stesso supportare – pur entro dei limiti di sostenibilità ambientale, oggi ampiamente superati – le società umane.

Ma perché questo avvenga, realizzare progetti di ripristino ecologico non è sufficiente. Prima ancora di entrare nei dettagli di questa pratica, Danovaro si sofferma sulla “visione distorta della natura” che per decenni (secoli?) ha alimentato e giustificato lo sfruttamento indiscriminato del mondo naturale. Considerare la natura solo come una risorsa da cui trarre profitto – visione alimentata da un forte pregiudizio antropocentrico – ha favorito un consumo eccessivo dei beni naturali, di cui ci siamo appropriati a ritmi ben superiori rispetto alla capacità della natura di rigenerarsi, accelerando così il loro esaurimento.

Il ripristino ecologico: un obiettivo comune

Che la degradazione degli ecosistemi possa diventare irreversibile è un problema soprattutto per noi umani, che dipendiamo totalmente dalla stabilità dell’ambiente naturale. La tutela di quel che è ancora intatto e il ripristino di quanto è oggi degradato sono dunque, in primo luogo, nel nostro interesse, in quanto essenziale per preservare la nostra salute, il nostro benessere, il nostro modo di vivere.


Leggi anche: Cos’è il ripristino degli ecosistemi?


Per evitare che sempre più ecosistemi superino il punto di non ritorno, bisogna dunque agire subito. Lo hanno riconosciuto le Nazioni Unite e i consessi internazionali in cui si discutono le politiche ambientali globali: nel 2015, le Nazioni Unite hanno proclamato il 2021-2030 come il Decennio del Ripristino degli Ecosistemi, nella speranza di catalizzare l’attenzione (e l’azione) globale verso questo obiettivo comune; nel 2022 è arrivato il Global Biodiversity Framework, che spinge (non impone, perché non è vincolante) gli Stati a proteggere il 30% delle terre e dei mari del pianeta entro il 2030. A livello europeo, nel 2024 è stato approvato l’ambizioso e innovativo Regolamento sul ripristino della natura, che impone (questa volta sì) agli Stati membri di restaurare almeno il 20% degli ecosistemi terrestri e marini degradati entro il 2030 e di arrivare al 100% entro il 2050.

Per Danovaro, onorare questi impegni deve essere un obiettivo comune, privo di colore politico: dalla tutela dell’ambiente dipendono le vite di tutti, e non possiamo permetterci di fallire per ideologia o per interessi a breve termine. Il ripristino degli ecosistemi è un tassello essenziale per fermare, e possibilmente invertire, il declino della natura. Per raggiungere gli obiettivi fissati a livello internazionale, occorre affiancare alle attività di protezione anche interventi di ripristino passivo (che consistono nell’eliminare le fonti di impatto antropico e permettere all’ecosistema di “guarire” da solo, recuperando pian piano la propria complessità ecologica) e ripristino attivo (che prevede interventi diretti, ad esempio la reintroduzione di specie chiave per favorire la ricostituzione delle reti ecologiche). Questi ultimi sono più complessi, ma consentono di ottenere risultati apprezzabili in tempi più rapidi rispetto al ripristino passivo.

Fare ripristino attivo è, scrive Danovaro, una terapia intensiva per la natura. Si tratta, però, di un processo lento e complesso, dal successo mai del tutto garantito (anche se i fallimenti sono pochi, intorno al 5%, assicura l’esperto), e che “è in grado di produrre solo una parte – anche se rilevante – dei servizi resi dagli ecosistemi intatti”. Per questo motivo, sottolinea Danovaro, “il restauro ecologico non dovrebbe mai essere utilizzato come una giustificazione per danneggiare ulteriormente nuovi ambienti”, ma dovrebbe sempre essere affiancato a interventi di protezione e prevenzione. Questa è la “ricetta per curare la natura”: proteggere laddove non abbiamo ancora distrutto, e riparare laddove abbiamo fatto danni, attraverso processi rigenerativi e inclusivi, che tengano in considerazione le esigenze di tutti i cosiddetti “portatori di interessi” – umani e non umani.

L’economia del ripristino ecologico: una scommessa vantaggiosa

Tutti questi sforzi hanno anche un grande valore economico. Il costo degli interventi di ripristino – variabile a seconda del tipo di intervento e del contesto ambientale in cui viene realizzato – è un investimento con grandi prospettive di ritorno: “Si stima – leggiamo in “Restaurare la natura” – che per ogni dollaro speso per il restauro dell’ecosistema ritornino tra i 7 e i 110 dollari in benefici economici derivati dai maggiori/migliori servizi ecosistemici ottenuti”. Queste cifre potrebbero stupire, ma risultano più che plausibili se confrontate con un altro dato: secondo il World Resources Institute, più della metà del valore dell’economia globale (circa 44 trilioni di dollari) dipende direttamente dalla natura. L’equazione è semplice: qualunque sia il costo del ripristino, è senz’altro inferiore a quello – enorme – dell’inazione, che ridurrebbe drasticamente il capitale naturale su cui si basa l’economia mondiale. Peraltro, non tutti i fondi necessari devono essere mobilitati da zero: con politiche lungimiranti, si potrebbe dirottare almeno una parte dei numerosi flussi finanziari destinati ad attività dannose per la natura verso iniziative di protezione e ripristino, riducendo così anche le cause stesse della degradazione del mondo naturale.


Leggi anche: Il valore della biodiversità in Italia


L’azione più urgente per trasformare davvero questo decennio nel decennio del ripristino ecologico e avviare un’economia autenticamente rigenerativa è quindi coinvolgere tutti gli attori, pubblici e privati, che possono investire nel ripristino degli ecosistemi. Solo così ai molti progetti già esistenti – diversi dei quali di grande portata e resi possibili grazie a partenariati internazionali, come documentato nel volume – se ne potranno aggiungere molti altri, su scala locale, nazionale e internazionale.

La promozione del ripristino ecologico come soluzione alla crisi della biodiversità “è una battaglia impari”, scrive l’ecologo, “che contrappone enormi capitali ed interessi consolidati a qualcosa che ancora conosciamo poco e che viene erroneamente bollato come ideologico”. Ma, come per la transizione energetica, gli studi mostrano che gli impatti economici e sociali degli investimenti in tutela e ripristino del mondo naturale ripagheranno totalmente i costi sostenuti oggi.

Inoltre, al di là della dimensione economica, fermare la distruzione della natura è un dovere civile: lo afferma, dal 2022, anche la nostra Costituzione. Abbiamo il dovere di preservare la nostra salute, la salute degli altri esseri viventi – a cui spetta una vita dignitosa tanto quanto spetta a noi umani – e provare a garantire alle future generazioni un futuro migliore di quello che, ad oggi, stiamo lasciando loro.

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012