SOCIETÀ
Ricapitoliamo: i razzismi sono solo umani, le razze sono solo non umane
Di che razza è? Che razza di giocatore! Ti sei informato sulla razza? Che razza di Europa! Che razza di danni ha fatto? Lui è di un’altra razza! Difficile che nella vita relazionale e sociale non si siano incrociate o ascoltate conversazioni con frasi contenenti la parola “razza”. Del resto, la si trova nei libri di storia delle scuole di ogni paese, in formulari e questionari informativi o amministrativi di altre lingue, nella Costituzione italiana. E spesso viene adoperata con pura funzione metaforica, un esplicito sovvertimento di significato rispetto a quello proprio, ammesso che si sappia bene quale è quello proprio. Resta il fatto che con il termine dobbiamo continuare a fare i conti, anche se le discipline scientifiche segnalano che sia comparso in Sicilia attorno alla metà del Duecento come “allevamento di cavalli” e ne sconsigliano l’uso per classificare qualcosa di biologico afferente il genere Homo e la residua (nostra) specie sapiens.
Alla fine dell’Ottocento e nel corso del Novecento si sono formate varie parole “derivate”: razziale, razzismo, razzista fra le altre. Si sono aggiunte altre metafore e, soprattutto, si sono scatenate discriminazioni e conflitti, diversi da quelli schiavistici, coloniali e linguistici. Il razzismo è restato a lungo da varie parti un concreto fenomeno diffuso fra noi esseri umani, espressosi con comportamenti e azioni legate alla sua convinta manifestazione identitaria da parte di razzisti, come pure introiettato in dinamiche psicologiche e sociologiche di grande rilievo per l’umanità contemporanea. Si può, peraltro, distinguere un razzismo primario, fenomeno non solo umano con radici biologiche. Innumerevoli studi di biologia, etologia, neuroscienze, psicologia evoluzionistica segnalano come l’arrivo inatteso anche di un solo individuo, ignoto alla comunità consueta che si ha intorno, attiva una reazione emotiva di pericolo, una dinamica affrontata ora anche nel recente, sintetico e divulgativo volume di Michele Pompei, Razze umane. Breve storia di un lungo inganno, con la collaborazione di Roberto Russo, prefazione di Telmo Pievani e postfazione di Silvia Bencivelli, Scienza Express Trieste 2024..
Già nella prefazione Pievani parte dagli studi di visualizzazione attraverso risonanza magnetica che confermano la breve durata (un terzo di secondo) della percezione inconscia di una presenza estranea nelle zone subcorticali profonde, dopo la quale subentrano, tuttavia, le aree corticali superiori che “regolano” la reazione emotiva automatica e poi un’altra area del cervello che concilia le reazioni emotive con una voce di ragionevolezza. Del resto, il conflitto fra gruppi è anche promotore di altruismo e cooperazione, almeno interno a ogni gruppo. Una qualche attitudine “razzista” (razzismo primario) può avere quindi una radice evolutiva, poi una certa evoluzione vi è stata e, in centinaia di migliaia di anni, la nostra specie è diventata molto promiscua, pochissimo differenziandosi al proprio interno in base al luogo geografico in cui il singolo individuo nasce. L’autore Michele Pompei torna poi anche lui, ovviamente, sull’argomento: l’innato sentimento di diffidenza, paura o vera ostilità nei confronti di chi è diverso da “noi” va considerato un naturale strumento di difesa e lo condividiamo con molte altre specie del pianeta, non è esclusivo dei sapiens, risulta carattere animale “interspeciale”.
Riprendendo una classificazione del biologo e genetista francese André Langaney, Pompei sottolinea come sia invece il razzismo secondario una prerogativa soltanto della nostra specie: a un certo punto della nostra preistoria abbiamo cominciato a organizzarci in comunità sempre più complesse, città regni imperi stati, ognuna convinta di essere migliore dell’altra; di qui campanilismo, sciovinismo, nazionalismo, xenofobia. Si tratterebbe di una elaborazione cosciente del razzismo primario, una razionalizzazione compiuta sotto l’influenza dell’educazione intesa come sistema di condizionamento in contesti comunitari, che può raggiungere il terzo stadio dell’elaborazione di teorie razziste e politiche del pregiudizio, il razzismo terziario, da parte di singoli o gruppi della comunità, legittimato talora da religiosi e scienziati.
Il volume ha un taglio più argutamente empirico che strettamente scientifico (per la biologia evoluzionistica o il diritto costituzionale o la statistica o la linguistica) e costituisce così un ulteriore piccolo antidoto contro le scorciatoie mentaliche possono talvolta sedurre il nostro cervello. Altruismo e conflitto nascono dalla stessa radice biologica (oltre che culturale). Oggi le attitudini razziste si scontrano risolutamente contro l’evidenza scientifica, ma la scoperta dell’inesistenza delle razze umane scalfisce solo minimamente i razzisti e i loro comportamenti. Non hanno alcun argomento biologico, storicamente importante, d’accordo, ma sfortunatamente si può decidere di discriminare lo stesso qualcuno, anche per ragioni “puramente” culturali e cognitive; continuano di conseguenza ad avere successo le criminali operazioni di costruzione intenzionale del nemico, talora sfociate in massacri e pulizie etniche anche tra gruppi umani che fino a un certo momento erano convissuti nella stessa regione.
Tuttavia, l’apprendimento culturale e sociale può e dovrebbe anche mitigare le reazioni istintuali, farci liberamente scegliere di avere comportamenti scientificamente corretti. Scrive Pievani che la cultura “può battere l’amigdala”. Il testo di Pompei può essere pertanto utile a descrivere più in particolare il cortocircuito fra inesistenza fattuale delle razze e radicamento persistente dei razzismi in dinamiche collettive, verificando i riferimenti formali alla “razza” (magari con contenuti di contrapposizione) in dizionari, costituzioni, questionari informativi. In tal senso, risultano chiare e competenti le meditate considerazioni sull’eventuale esistenza o inesistenza di una qualche definizione più funzionale di razza biologica, visto che certo vi sono state una irresistibile ascesa, diffusione e affermazione della parola, dell’equivoco e dei paradossi dalla fine del XVII secolo ai giorni nostri.
Il giornalista, regista e conduttore radiofonico bolognese Michele Pompei (1966) racconta in modo succinto e chiaro la storia secolare e culturale del lungo “inganno” connesso all’idea di “razze umane” (da cui il titolo), ancora spesso evocate nei contesti più diversi, suggerendo (attraverso sagge dubbiose arricchenti riflessioni) la conclusione che è proprio meglio riformularla sempre e toglierne quanto più possibile i riferimenti in atti ufficiali. L’”invenzione” è servita a giustificare colonialismo, schiavitù e altre nefandezze. Il primo capitolo (“cavalli di razza”) ricostruisce e disamina le questioni etimologiche nazionali, concludendo che il termine è comparso in Sicilia attorno alla metà del Duecento dal francese haraz, il cui significato è “allevamento di cavalli”: dovrebbe dunque essere adoperato “solo per definire un’identità non umana”.
Il secondo capitolo (“vedi alla voce razza”) riguarda il contesto comparato dei dizionari delle varie lingue; dopo premesse metodologiche, viene esaminato innanzitutto un campione di 19 europee ove, con rare eccezioni, si mantiene il riferimento proprio al termine italiano; se ne conserva la radice ed esiste praticamente sempre fra le plurali definizioni anche una qualche modalità di identificare gli esseri umani; nelle altre decine di lingue asiatiche e africane campionate (accennando alle famiglie linguistiche), radici e termini risultano più vari e cangianti, talora (come in ebraico) non esiste nemmeno una traduzione univoca; gli aspetti semantici problematici riguardano quindi quasi esclusivamente l’occidente, conseguenza delle grandi esplorazioni, delle migrazioni e del pessimo colonialismo.
Il terzo capitolo compie “il giro della razza in ottanta costituzioni”, 14 dell’Africa, 8 delle Americhe, 18 dell’Asia, 2 dell’Oceania e 38 dell’Europa, con particolare attenzione all’Assemblea Costituente e alla Costituzione italiana (“razza” si potrebbe anche togliere come proponeva Pietro Greco, fra gli altri). Il quarto capitolo valuta quali e quante eventuali razze umane vengono contemplate in questionari informativi e formulari di singoli stati (uno diverso dall’altro comunque, nel merito e nel metodo), con particolare attenzione alle aggiornate osservazioni della medicina statunitense e al pur discutibile uso come sinonimi di etnia, identità, cultura. Se ne è spesso parlato anche qui in passato. Il quinto capitolo distingue, come accennato, le tre principali tipologie di razzismo: primario (diffidenza biologica propria di molte specie), secondario (specifico dei sapiens), terziario (teorizzato da alcuni), con particolare attenzione ai testi puntuali del grande “evoluzionista riluttante” Charles Darwin.
Il sesto capitolo del volume di Pompei è stato steso dal giovane comunicatore scientifico Roberto Russo e parla di genetica, precisando che ormai i tempi sono tornati maturi per limitare l’uso del termine razza solo a “identità non umane”. Mancano un indice dei nomi e un’unitaria bibliografia (testi citati nelle poche singole brevi note a piè di pagina). Ottimi i brevi contributi di Pievani e Bencivelli. Innumerevoli sono i riferimenti nel testo alle migrazioni e al meticciatodella nostra specie, forse senza trarne in questa occasione alcune possibili conseguenze nella biologia e nelle scienze evoluzionistiche.
Si pone ormai la questione di identificarci come una specie meticcia. Quel che andrebbe acquisito e ripetuto è che migrazioni e mescolanze hanno reso tutta meticcia la nostra specie decine di migliaia di anni prima della “scoperta” dell’America. Il meticciamento non è una metafora moderna e contemporanea, bensì una antichissima fusione scientificamente provata di biodiversi corredi genetici. Nel corso dei millenni, vi sono sempre stati anche partner geneticamente lontani nella riproduzione e questo si è rivelato un carattere vantaggioso per la specie, evitando l’eccessiva omozigosi (ripetizione dei caratteri con conseguente minore resistenza dei discendenti) e garantendo, invece, una progenie più numerosa. Anche l’incontro culturale ha da sempre generato vantaggi (o svantaggi) imprevedibili. Quel che appare certo è l’origine multipla dei geni propri di ogni individuo umano di oggi: molti luoghi diversi d’origine, tanti incroci e mescolanze.
Noi siamo divenuti tutti più o meno meticci per come la grande capacità di migrare ha rimescolato sopravvivenza e riproduzione, cultura e linguaggi. Non siamo rimasti erranti o nomadi, non ci siamo distinti per razza, né sono speciate altre forme umane. Noi ci siamo trasformati con straordinaria plasticità adattativa, come permanente specie unitaria, unitariamente meticcia: prendendo spunto e insegnamento vitale dal migrare vegetale e soprattutto animale (preesistente e vantaggioso da milioni di anni); mescolandoci da più parti addirittura con altre specie umane precedenti e contemporanee (finché ci sono state, fino a circa quaranta mila anni fa); riproducendoci da meno di diecimila anni in modo prevalentemente stanziale, con percentuali crescenti e numeri assoluti enormi (oggi i fisicamente nomadi sono poche decine di milioni e tutti quanti insieme coesistiamo insieme in oltre otto miliardi, più o meno pacificamente); restando sempre in movimento e perlopiù capaci di migrare (avendo recentemente reso organizzato un “diritto di restare” e praticabile una “libertà di migrare”); continuamente in contatto con il migrare proprio, di propri parenti o di altri inalienabili umani.
Ogni individuo (per quanto eremita o razzista), ogni gruppo familiare e soprattutto ogni popolazione di sapiens, grande e piccola, coesa o dispersa, limitrofa o distante rispetto ad altre, imperante o sottomessa rispetto ad altre, presente quasi isolata a lungo nei medesimi luoghi o ricca di immigrati ed emigranti, ha mantenuto una parte preponderante di tutta la diversità genetica della specie. La distribuzione geografica dei caratteri morfologici e funzionali non ha separazioni fra continenti, né infracontinentali, tanto meno legate ai recenti confini statali. Casomai vi sono frequenze maggiori o minori di alcuni caratteri nei vari luoghi e nell’evoluzione diacronica del tempo (lungo) di ogni ecosistema antropizzato. La diversità genetica umana non è strutturata in modo razziale. Usiamo “razza” meno possibile e togliamola da atti ufficiali (anche solo per contrastare culturalmente chi la usa in malo modo, non per eliminare eventuali discriminazioni ma per imporne ancora).