Scienza e Ricerca

08 Ottobre 2021

Socialità e sessualità nei mammiferi: la natura è a-morale

Spesso si crede che ciò che è “naturale” abbia un valore morale, e si compie l’indebita associazione tra “naturale” e “giusto”. Spesso, inoltre, si crede che la natura sia statica, e che non fornisca possibilità alternative a quelle storicamente realizzate. Molte delle nostre convinzioni riguardanti sessualità e accoppiamento, ad esempio, sono macchiate proprio da questo pregiudizio: si crede che la monogamia o l’eterosessualità siano “giuste” nella misura in cui ci appaiono più naturali.

Ma siamo sicuri che sia davvero così – che la natura sia “morale”, che indichi una via giusta e una sbagliata di comportamento?

Per quanto riguarda la sessualità, possiamo rispondere a tale domanda con un sicuro “no”. Prendendo in esame soltanto la classe dei mammiferi, infatti, si scopre che in natura esistono le più diverse abitudini sessuali, e che esse variano, anche all’interno di una stessa specie, a seconda dell’ambiente sociale, delle condizioni ecologiche e delle contingenze della storia evolutiva.

Tim Clutton-Brock, docente di ecologia e biologia evoluzionistica all’università di Cambridge, firma, sulla rivista americana Science, una Review in cui fa il punto delle nostre attuali conoscenze circa l’evoluzione sociale dei mammiferi, la quale è direttamente correlata alle diverse modalità di accoppiamento e riproduzione. La comprensione di come si siano evoluti i sistemi sociali dei mammiferi è importante, poiché influisce sulle pressioni selettive a cui sono sottoposti maschi e femmine, ma anche sull’evoluzione dei comportamenti, delle caratteristiche fisiologiche e morfologiche e sul rapporto delle specie con l’ambiente.

Nei mammiferi, la principale differenza nei comportamenti sessuali è tra comportamenti che potremmo definire monogamici e preferenze poligamiche. Nel primo caso, si tratta di specie in cui le femmine sono solitarie, almeno durante il periodo degli accoppiamenti; nel secondo caso, invece, si tratta di specie le cui femmine si aggregano in gruppi più o meno ampi e cambiano frequentemente partner.

Probabilmente, afferma Clutton-Brock, l’accoppiamento monogamico è evolutivamente più antico: esso potrebbe aver costituito, infatti, la forma primordiale di aggregazione sociale tra i mammiferi. Questa strategia è ancora oggi utilizzata da numerose specie: essa ha infatti numerosi vantaggi, tra cui la ridotta competizione per le risorse – necessarie in grandi quantità soprattutto alle “mamme” mammifere, per le quali la lunga gestazione e l’allattamento della prole hanno un alto costo in termini di fitness – e la possibilità di sfuggire più facilmente ai predatori grazie al criptismo. Le mamme più solitarie appartengono perlopiù a specie carnivore e insettivore (per le quali la competizione per le risorse è più serrata), a specie notturne e agli erbivori che vivono nelle foreste.

Le mamme solitarie, inoltre, tendono spesso a scegliere un compagno dell’altro sesso con cui intrattenere una relazione relativamente stabile: i due condividono lo stesso territorio di approvvigionamento e rimangono solitamente fedeli l’uno all’altra fino alla morte di uno dei partner.

È interessante notare come questa fedeltà non sia sempre osservata dal punto di vista sessuale: le analisi genetiche mostrano, infatti, come entrambi i sessi si accoppino occasionalmente anche con altri individui. Nonostante questa occasionale “infedeltà”, un tratto comune alle specie che formano coppie stabili è che, generalmente, anche il padre contribuisce alle cure parentali, riducendo così i costi adattativi subiti dalla madre.

Nonostante non siano ancora state comprese a pieno le ragioni che hanno innescato l’evoluzione degli atteggiamenti tendenti alla monogamia, le loro conseguenze sul piano evolutivo sono evidenti. È degno di nota, ad esempio, il fatto che in queste specie sia i maschi che le femmine competano per trovare un compagno: questo ha reso inutili adattamenti estremi – armi e ornamenti – innescati dall’evoluzione sessuale, cosicché maschi e femmine sono piuttosto simili morfologicamente. Inoltre, si riscontra una maggiore stabilità nelle dimensioni delle popolazioni, che sono composte da una distribuzione piuttosto omogenea di maschi e femmine.

Ma veniamo alle specie più lascive: in natura, infatti, esiste la poliandria, la poliginia e la poliginandria. Il più noto tra questi comportamenti sessuali è, forse, la poliginia: in molte specie, le femmine fertili vivono in gruppi più o meno ampi e più o meno stabili, dominati da uno o più individui maschili che difendono un intero harem di femmine. In tal caso, il maschio non contribuisce alla cura dei piccoli, che è spesso affidata all’intera comunità. I modelli di socialità che si instaurano nel gruppo femminile possono essere diversi: dipendono dal grado di parentela che unisce gli individui (in alcune specie, le femmine non lasciano il gruppo nel quale sono cresciute, mentre in altre specie tendono a disperdersi e a formare nuovi gruppi, i cui membri non hanno relazioni di parentela), dalle condizioni ecologiche e dalla disponibilità di risorse. Le condizioni sociali delle femmine, inoltre, influiscono sul grado di competizione che si instaura tra i maschi, che spesso provengono da branchi differenti, che hanno lasciato al raggiungimento della maturità sessuale.

Nelle specie poligame, i combattimenti tra maschi sono piuttosto frequenti, e questo ha un effetto visibile sulla morfologia degli individui, i cui tratti sono sottoposti a una forte selezione sessuale. In alcuni casi, la competizione determina una maggiore tendenza all’aggressività non solo tra maschi: in alcuni casi, l’esigenza del maschio dominante di accoppiarsi e di mantenere la preminenza sull’harem favorisce comportamenti violenti sulle femmine stesse, qualora esse provino a sottrarsi all’accoppiamento. Il maschio dominante potrebbe addirittura effettuare “spedizioni punitive” sulle femmine disobbedienti, arrivando a mettere a repentaglio – in modo apparentemente controintuitivo – la vita stessa delle componenti del proprio harem.

La necessità dei maschi poligami di accoppiarsi il più possibile, massimizzando così il proprio successo riproduttivo, li spinge ad azioni moralmente terribili: non solo – come abbiamo visto – lo stupro e la coercizione nei confronti delle femmine riluttanti, ma persino l’infanticidio. Per un maschio, a volte, la migliore strategia è uccidere i piccoli di un altro maschio, così da “liberare” la femmina dal fardello delle cure parentali e renderla disponibile a un nuovo accoppiamento. Neanche a dirlo, le femmine non sono certo contente di tale tattica: infatti, spesso è l’intero gruppo femminile a proteggere i piccoli dagli attacchi del nuovo maschio.

La vita dei maschi poligami è, in generale, piuttosto faticosa: lotte e corteggiamenti sono molto costosi, e questo determina una decisa riduzione della durata della loro vita sessuale, molto più breve rispetto a quella dell’altro sesso. Tale differenza nell’estensione del periodo di fertilità dei due generi ha, tra l’altro, conseguenze ecologiche e demografiche: la breve vita sessuale dei maschi, ad esempio, fa sì che le figlie del maschio dominante raggiungano la maturità sessuale quando il padre non è più in attività, e così non sono costrette a lasciare il gruppo d’origine per evitare rischiosi accoppiamenti tra consanguinei. I maschi, al contrario, una volta raggiunta – con grande costo da parte delle madri – la pubertà, tendono ad abbandonare il gruppo nel quale sono nati, nella speranza di assumere una posizione dominante in una nuova comunità.

Insomma, studiando le abitudini dei mammiferi – la nostra classe di appartenenza – ci accorgiamo di come la natura non tracci distinzioni nette, né indichi cosa è “giusto” o “sbagliato”. D’altro canto, non si può neanche tacciare il mondo naturale di immoralità: piuttosto, bisogna ammettere che la natura, con tutto il suo lungo percorso di contingenze, leggi e casualità, è a-morale, cioè che non sottostà a giudizi e definizioni tutti umani.