Yurt (Dormitory) di Nehir Tuna - credit: Pyramide international
Si potrebbero citare diversi titoli di romanzi di formazione attraversati da desideri, speranze, smarrimenti e inquietudini. Sostituendo il nome dei protagonisti, pur mantenendo l'unicità di ogni vicenda, potremmo provare a scegliere un titolo già noto per riassumere il senso di questo racconto. I dolori del giovane Werther, I turbamenti del giovane Törless, o quelli del giovane Ahmet? Yurt (Dormitory) è a Venezia 80, in concorso nella sezione Orizzonti. Durante la presentazione del programma, che tradizionalmente precede di qualche giorno l'apertura della Mostra, quest'anno il direttore Alberto Barbera non era riuscito a nascondere l'entusiasmo per un film da lui definito "sorprendente", facendo così crescere le aspettative. Si sa, quando ci si aspetta troppo si rischia di restar delusi: non è questo il caso.
Quello di Nehir Tuna è un film solido, intenso e poetico al tempo stesso, un'ottima opera prima (il primo lungometraggio, dopo una serie di corti realizzati a partire dal 2007) che racconta una storia ispirata alla vera esperienza del regista. "Da bambino, sono stato mandato in un dormitorio religioso per cinque anni - racconta Tuna -. Ho un ricordo che non dimenticherò mai: sono nella biblioteca del dormitorio, sto con la testa appoggiata alla finestra, sento il calore del radiatore sulle gambe e il freddo della finestra sulla fronte. Tengo gli occhi fissi sul soggiorno della nostra casa, che è a trecento metri di distanza, in attesa che le luci si accendano. Aspettando che i miei genitori rientrino. Poi le luci si accendono e li guardo. Papà si toglie la giacca e la appende sullo schienale di una sedia, mamma si toglie gli orecchini. Guardano la TV, cenano... li guardo vivere. Guardo le cose più comuni e noiose con nostalgia. Soprattutto con un nodo in gola. In Yurt ho cercato di portare la mia esperienza personale per raccontare una storia che va oltre la lotta politica tra religiosità e secolarismo, trasmettendo l’isolamento e la pressione che Ahmet deve affrontare nel tentativo di soddisfare le aspettative della sua famiglia e il suo bisogno di appartenenza".
“ Tu sei la mia redenzione - dice -, la mia salvezza
Il racconto inizia nell'autunno 1996, in una Turchia profondamente segnata da tensioni tra religiosi e laici. Il quattordicenne Ahmet viene mandato dal padre in un dormitorio islamico (yurt) per imparare i valori musulmani, istituto dove spesso la polizia fa irruzione con l’obiettivo di trovare qualche irregolarità che ne giustifichi la chiusura. La mattina Ahmet frequenta una scuola laica: inizialmente nessuno conosce la sua "seconda vita" e per questo il ragazzo cerca di mantenere un profilo basso, per la vergogna (si fa accompagnare dal bus della scuola davanti a case di sconosciuti per non rivelare dove vive veramente) e per evitare problemi con i compagni. Terminate le lezioni torna sempre al dormitorio, dove segue regole severissime: lontano dalla famiglia, qui non riesce a integrarsi, viene bullizzato, ma stringe amicizia con Hakan, un ragazzo sveglio e solo al mondo, che sa come muoversi nel sistema.
Smarrito, confuso, sofferente, Ahmet vorrebbe lasciare lo yurt, più volte implora i genitori (sale addirittura su un albero e si butta giù di proposito, si rompe un braccio per cercare di ritardare il suo ritorno al dormitorio), ma il padre, neo-musulmano molto motivato e finanziatore dello stesso istituto, lo costringe a obbedire proiettando su di lui pesanti aspettative: "Tu sei la mia redenzione - dice -, la mia salvezza". Così Ahmet cerca un'altra via: tenta di emergere, farsi notare, entrare nel cerchio dei prescelti, diventare il figlio perfetto per compiacere il padre. Un piano destinato a fallire e ad aumentare la frustrazione del ragazzo.
Il racconto di Yurt è in bianco e nero. Il colore dura un attimo, giusto il tempo di un'illusione: insieme a una musica a noi molto familiare, Ma che freddo fa di Nada, irrompe all'improvviso per illuminare la breve fuga dei due amici.
Il film offre due ore intense, pienissime, e un senso finale di trasformazione e ribaltamento dei ruoli che cambia lo sguardo, i modi, i sogni di un adolescente alla ricerca del proprio posto nel mondo. Piccoli dettagli, definiti da espressioni e gesti, porteranno alcuni spettatori a credere in un riscatto, in una rivoluzione, altri a interpretare il cambiamento come la sconfitta di un ragazzo dolce e ingenuo. La risposta definitiva arriva dal regista e non lascia dubbi: "Alla fine del film Ahmet prende il sopravvento, in un certo senso diventa Hakan. L'ultima scena ci riconduce al momento in cui i ragazzi sono sul tetto e parlano di sogni e desideri di libertà [...] Ahmet continua a vivere nello yurt ma è cresciuto, è più consapevole. Da quel momento in poi, come nel caso di Hakan, diventa immune all'indottrinamento e all'ideologia, che gli entra da un orecchio ed esce dall'altro. In altre parole: 'potete prendere il mio corpo, ma non avrete la mia anima'. Ahmet è in grado di fuggire da quel luogo: ora è un uomo libero".