SCIENZA E RICERCA

Studiare l’orologio biologico delle zanzare per combattere la malaria

Secondo il World Malaria Report 2020, redatto dall’Organizzazione Mondiale di Sanità con dati riferiti al 2019, la malaria, benché sempre più controllata e in progressiva diminuzione, è ancora tra le parassitosi con maggiore incidenza a livello globale. Si stima che, soltanto nel 2019, abbiano contratto la malattia 229 milioni di persone – in calo rispetto ai circa 238 milioni registrati nel 2000 – e che, nello stesso anno, il tasso di incidenza sia stato di 57 casi su un campione di 1000 persone (dato inferiore rispetto al 2000, quando si contavano 80 infezioni su 1000 persone). Anche il tasso di mortalità è diminuito, dall’inizio del millennio a oggi: la probabilità di decesso è infatti scesa da 25 casi su 100.000 persone a rischio nel 2000 a 10 nel 2019.

Nonostante la tendenza positiva, vi sono ancora diverse criticità, sottolineate dall’OMS nel Rapporto: ad esempio, il 95% di tutti i casi di malaria è concentrato in sole ventinove nazioni, molte delle quali situate nel continente africano. Tra queste Nigeria, Repubblica democratica del Congo, Uganda, Mozambico e Niger detengono il triste primato del 51% dei casi mondiali. In queste stesse aree si registrano, ancora oggi, i più alti tassi di mortalità, soprattutto a causa delle precarie condizioni sanitarie. Anche in questi luoghi, tuttavia, si evidenzia un progressivo decremento della mortalità, in linea con la tendenza globale.

La Global Technical Strategy for malaria 2016-2030, sviluppata dall’OMS, prevedeva alcuni obiettivi parziali da raggiungere entro il 2020, tra cui la riduzione dei tassi di incidenza e di mortalità della malattia almeno del 40% e la sua completa eradicazione in almeno 10 paesi. Nel Report si riconosce, tuttavia, il fallimento di questi obiettivi: “Nonostante i considerevoli progressi compiuti dal 2000 ad oggi, gli obiettivi per la morbilità e la mortalità della malaria in scadenza nel 2020 non saranno realizzati in tempo su scala globale”. Inoltre, i dati contenuti nel Rapporto 2020 si riferiscono all’anno precedente: è probabile – evidenzia ancora l’OMS – che la pandemia da COVID-19 causi, “nonostante i lodevoli sforzi globali e nazionali per mantenere i servizi essenziali di contrasto alla malaria”, un nuovo incremento di morbilità e mortalità, con tassi più alti di quelli previsti.

A fronte di una situazione ancora emergenziale in molte regioni del mondo, l’importanza della ricerca scientifica si conferma ancora una volta essenziale. Il contenimento delle zanzare Anopheles, vettori dei protozoi del genere Plasmodium, che sono responsabili dell’infezione, è infatti il principale strumento per il controllo della malattia. Rispetto a pochi anni fa, gli scienziati hanno fatto passi da gigante: le biotecnologie, e in particolare le tecniche di ingegneria genetica, offrono oggi diverse soluzioni per il contenimento e la neutralizzazione delle popolazioni di zanzare. È tuttavia importante, perché le tecnologie a disposizione funzionino, conoscere a fondo la biologia e l’etologia delle specie target, così da ridurre al minimo gli insuccessi e i possibili effetti collaterali.

Uno studio pubblicato da Science offre nuove conoscenze proprio in questo ambito: un gruppo di ricerca internazionale, composto da studiosi cinesi, africani e statunitensi, si è concentrato sui comportamenti sessuali adottati dai maschi di alcune specie di zanzare del genere Anopheles, evidenziando come il successo nell’accoppiamento sia strettamente correlato all’espressione di alcuni geni che regolano l’orologio biologico di questi animali, rendendoli suscettibili alla variazione di condizioni ambientali come la luce e la temperatura. Si tratta di una scoperta che potrebbe consentire nuove e più efficaci strategie d’azione per la lotta alla malaria: abbiamo rivolto alcune domande al professor Luca Mazzon, entomologo, docente di Entomologia ambientale e Lotta biologica all’università di Padova.

«L’attività di controllo delle zanzare, tradizionalmente affidata all’impiego di larvicidi o adulticidi di origine chimica – i cui effetti collaterali sull’uomo e sull’ambiente sono ben noti – ha registrato, negli ultimi anni, importanti avanzamenti scientifici. Numerose ricerche evidenziano la possibilità di combattere le zanzare ricorrendo a tecniche di ingegneria genetica come, ad esempio, la modifica dei genomi (Genetic Pest Control, GPC). I sistemi di gene-drive si basano sul rilascio negli ecosistemi di organismi i cui genomi sono stati modificati con lo scopo di diffondere un tratto desiderato di DNA all’interno di una determinata popolazione di zanzare. La diffusione di tali genomi è affidata al rilascio di quantitativi di maschi geneticamente modificati abbastanza vitali e competitivi (almeno quanto i maschi presenti in natura) da potersi accoppiare con le femmine, diffondendo così il tratto artificialmente modificato».

Quali sono, ad oggi, le prospettive di successo di sistemi di contenimento delle popolazioni di Anopheles attraverso tecniche di ingegneria genetica, e quali, invece, i rischi (anche ecologici) connessi a queste pratiche?

«Le potenzialità del gene-drive appaiono immense, non solo nella lotta contro questi vettori di patogeni pericolosi per l’uomo ma anche contro altri insetti, come quelli che creano danni alla produzione agricola. Inoltre, l’implementazione di queste biotecnologie potrebbe risolvere la piaga della malaria forse in modo definitivo e a costi relativamente contenuti, salvando così la vita a milioni di persone. Queste tecniche presentano, inoltre, indiscutibili vantaggi rispetto ai tradizionali sistemi di lotta biologica, basati sull’impiego di prodotti chimici di sintesi: non prevedono infatti la dispersione nell’ambiente di molecole insetticide e sono perfettamente selettive, consentendo di colpire esclusivamente la specie che si intende combattere, e rispettando tutte le altre specie di insetti.

È evidente, tuttavia, che la soppressione di una specie, per quanto dannosa, solleva dubbi di tipo etico ed ecologico. Una specie che si estingue lascia nell’ecosistema una nicchia ecologica vuota, e le conseguenze di tale evento sono difficili da valutare. Una prova sul campo per il gene-drive potrebbe essere la sua applicazione nei confronti delle cosiddette “specie aliene”, introdotte accidentalmente dall’uomo in un’area geografica diversa da quella di origine, e quindi non autoctone e non inserite in alcuna catena trofica, la cui eradicazione dal territorio di colonizzazione potrebbe ristabilire una condizione originaria. Gli sviluppi delle biotecnologie per il controllo biologico corrono in modo inarrestabile, più rapidamente della capacità dell’uomo di affrontare questi problemi etici».

Se adeguatamente approfondito e sviluppato con ulteriori ricerche, è possibile che il legame tra le condizioni ambientali di luce e temperatura e la variazione dell’espressione genica correlata ai comportamenti riproduttivi possa rappresentare un valido strumento per il contenimento genetico delle Anopheles?

«Il progenitore delle diverse tecniche di Genetic Pest Control è la Sterile Insect Technique (SIT), che consiste nel rilasciare nell’ambiente un numero consistente di individui maschili allevati, sterilizzati mediante l’esposizione a radiazioni. Nonostante la sterilizzazione, tali maschi si accoppieranno con le femmine vergini presenti in natura, senza però generare prole. Il rilascio ripetuto di maschi sterili in un territorio sufficientemente ampio condurrà inesorabilmente all’estinzione della popolazione. La SIT si è rivelata un valido strumento per la lotta a diversi insetti dannosi, che sono causa di importanti perdite economiche.

È chiaro che il successo di questa e di altre tecniche che prevedono il rilascio di insetti allevati in laboratorio dipende in larga misura dal livello di fitness dei maschi allevati: maschi deboli, poco mobili o comunque non in ottimali condizioni di salute non saranno in grado di competere per l’accoppiamento con i maschi presenti in natura, causando il fallimento dell’intera operazione di lotta. Per il successo di queste strategie è quindi fondamentale conoscere in modo approfondito le esigenze nutritive della specie che si intende combattere, la sua biologia e anche la sua etologia, soprattutto nelle fasi che compongono i rituali dell’accoppiamento.

Nel caso delle zanzare, una delle ragioni all’origine del parziale insuccesso della SIT potrebbe essere legata proprio alla complessità dei rituali di accoppiamento di queste specie, complessità a cui i maschi rilasciati potrebbero non riuscire ad adeguarsi. Studi come quello di Science sono dunque molto importanti per comprendere gli intimi meccanismi che regolano le fasi dell’accoppiamento, così da poter applicare le conoscenze acquisite ai programmi di controllo delle popolazioni. Mentre la maggior parte dei precedenti studi si è focalizzata sulla valutazione in laboratorio dell’influenza di singoli fattori ambientali, nel presente lavoro sono stati invece valutati – non solo in laboratorio, ma anche in condizioni di semi-campo – gli effetti di numerose variabili ambientali e il modo in cui esse influenzano l’espressione genica, riconoscendo come tali variabili non operino in modo indipendente ma siano fra loro integrate».

In un’epoca in cui i flussi di traffici intercontinentali sono molto intensi, crescono la probabilità e il rischio di introduzioni accidentali di insetti esotici Prof. Luca Mazzon

Quanto alla presenza di zanzare del genere Anopheles e al rischio di diffusione di patogeni di cui esse sono vettore, qual è la situazione attuale in Italia? Quali sono i potenziali rischi per la salute, anche in relazione alla “tropicalizzazione” degli habitat causata dai cambiamenti climatici?

«Nonostante l’OMS abbia dichiarato l’Italia ufficialmente libera dalla malaria nel 1970, questa patologia rimane, ancora oggi, un potenziale problema a causa della presenza nel territorio di vettori competenti, appartenenti principalmente al complesso Anopheles maculipennis. Nel 2017, ad esempio, l’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) segnalava la registrazione di 21 casi criptici confermati di malaria acquisiti in Europa: 7 di questi si sono verificati in Italia.

Recenti indagini condotte in Veneto e in Friuli-Venezia Giulia in ambienti urbani, extra-urbani e rurali hanno evidenziato la presenza, soprattutto nelle aree ricche di grandi siti di riproduzione (come risaie e zone umide), di individui appartenenti al complesso Anopheles maculipennis. Il complesso Maculipennis comprende sia vettori della malaria di primaria importanza, sia specie di rilevanza epidemiologica bassa o trascurabile. La definizione del complesso Maculipennis, data l’assenza di differenze morfologiche ben definite tra i membri che lo compongono, è piuttosto difficile, ma è comunque fondamentale per evidenziare eventuali diverse competenze vettoriali.

Dall’indagine è emerso che An. atroparvus, storico vettore della malaria, e An. melanoon sono molto meno diffuse di quanto rilevato in passato. La presenza, seppur puntiforme, di storici vettori potenziali come An. atroparvus suggerisce tuttavia di mantenere alta l’attenzione, soprattutto alla luce di modificazioni ambientali o di cambiamenti climatici che potrebbero favorire l’espansione delle popolazioni di tali specie. In un’epoca in cui i flussi di traffici intercontinentali sono molto intensi, crescono infatti la probabilità e il rischio di introduzioni accidentali di insetti esotici e, a causa dell’aumento delle temperature medie globali, di una loro successiva affermazione nei paesi temperati di arrivo».

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