CULTURA

Sullo scaffale: Missitalia di Claudia Durastanti

Ci ha fatti aspettare cinque anni, ma Claudia Durastanti è tornata. Ed è sempre lei: polimorfica, trasformista e insieme rigorosa, sperimentatrice e dal profilo indecifrabile – a scrivere potrebbe essere un bambino, un’intelligenza aliena che giunge sulla terra e racconta di noi, un vecchio eremita, una donna in carriera, o alternativamente tutti insieme nello stesso istante.

Missitalia (La nave di Teseo, 2024) è un trittico. Sono tre racconti lunghi tenuti insieme da un’intenzione, un desiderio sotterraneo che ha qualcosa a che fare con l’unico elemento oggettivo che le tre storie hanno in comune: la terra dove si svolgono i fatti, quella Lucania che nella metà dell’Ottocento fa da sfondo alle avventure di un gruppo di brigantesse, un secolo dopo alla lotta per la sopravvivenza etica ed estetica di una giovane donna, e in un futuro non troppo lontano vede l'umanità sbarcata sulla Luna.

Sono racconti di lontananza: da un canone, da un traguardo, da una direttrice; di mancanza: che sente l'uno dell'altro, delle cose che servono per vivere, in forma di oggetto vero e proprio più che di strategia pensata, di un luogo che sappia accogliere definitivamente; di ricerca di un senso ultimo che forse non c’è. Ecco perché possiamo dire che Durastanti è tornata. Perché questi sono i suoi temi, declinati qui diversamente che ne La straniera, ma conservando la assoluta libertà di creare.

“Quando le veniva da piangere, Amanda diceva: I miss America, e poi spiegava che miss significava signorina, una che non si era ancora sposata, ma voleva dire anche mancanza. Nella sua lingua madre la nostalgia si ingarbugliava con la giovinezza, quando una persona non sapeva ancora cosa voleva essere e poteva diventare tutto. Mio padre lo diceva spesso quando stava in guerra, che si era perso il centro. Per Amanda miss è una parola speciale perché non ci sono molti suoni che sanno tenere insieme la verginità, la nostalgia e pure il bersaglio appena mancato”.

Ecco dunque cosa vuol dire Missitalia per Claudia Durastanti: una soluzione in cui soluto e solvente sono impalpabili e inevitabili come il tempo, il senso di vuoto, la volontà, l'ingiustizia, l’identità che non sappiamo di avere, il senso di appartenenza e che possono spingere Madre a non volere uccidere una cavalla che non può più correre ma ancora “ri[esce] a sentire la consistenza del cibo, il battito del proprio cuore” e una bambina comandante a fare a un uomo l’impronunciabile: “Gli tagliano tutte le dita delle mani e dei piedi, usano il coltello per sfregiargli le guance, si alzano e si abbassano su di lui con le mani appiccicose, intanto che si mordono le labbra per non vomitare”.

“Bisogna smettere di considerare la violenza alla stregua di un evento personale […] Volete sapere davvero cosa è successo?" dice la ragazza che ha uno strano moncherino al posto della mano. "Adesso ve lo spiego: ci avete molestate tutte, avete ucciso il padre di tutte. Avete rubato la terra a chiunque”. Lei si fa portatrice, insieme alle altre protagoniste (e agli altri protagonisti) di questo romanzo in tre libri, di un modo nuovo di raccontare il femminile e la sua questione.

Dalla vita scomposta e irridente delle giovani brigantesse ci immerge infatti in un io particolare (com’era essere donna negli anni Cinquanta? Innamorarsi? Cercare un lavoro? Abortire?): quello di Ada, che continuamente si confronta con gli schemi sociali e con coloro che più degli altri ne escono per intenzione e per accidente. Le spiega Micheal: “Non mi sento un cantautore né un artista. Sono un sintetizzatore, mi limito a canalizzare suoni e versi che qualcuno ha già intuito tantissimo tempo fa. Eppure ho il dovere, per me stesso e per chi mi ascolta, di pensare che non sia stato tutto già scritto, e che se lo è lo è stato solo per una volgare e accidentale successione temporale e non per l’irripetibilità di un momento”. E continua, parlando di lei ma in realtà di se stesso: “I tuoi capelli in questa luce così falsaria […] all’inizio mi erano sembrati di uno scuro banale e invece hanno la stessa sfumatura del caffè nei sacchi di tela e rispondono al sole in un modo che ho trovato piacevole e mi ha fatto sentire grato di essere vivo, in questa città eterna che non conosco, con una ragazza di cui non so niente, e ho sentito un impeto, il desiderio crudo e luminoso di comporre qualcosa […] e invece sto qui a giocare a biliardo”. La nostalgia e la mancanza si fanno incomunicabilità, fino a diventare fuga, anche se ragionata. Persino dalla terra, per approdare, nel libro terzo, alla possibilità della Luna.

Amanda, passando per Ada è diventata A. “Essere adulta per lei era proprio questo: il potere di emanciparsi da ogni situazione”. Gli oggetti, sempre più salvaguardati, iniziano a ribellarsi alle loro vite di seconda, terza e quarta mano e si suicidano. Quelli “veri finivano e arrivavano quelli sottratti agli altri. […] Questo valeva per i combustibili fossili, per l’amore come per la fantasia”.

Ma allora in un viaggio nel tempo che attraversa l’umanità sul suo più intimo, bizzarro, e così autentico, sentire, facendo sempre perno nella Val d’Agri, cosa trova Claudia Durastanti? La forza del futuro anteriore che “parla di cose immaginate nel futuro, ma [che] sono avvenute prima di altre”. Mette insieme una dinamica di azioni e di pensieri che emergono in superficie, feriscono nel profondo, agganciati tutti a qualcosa di finzionale che può chiamarsi sogno.

“Io, la vita” dice A – prima lettera e forse emblema di un noi collettivo quando tutto si restringe all’osso – “ho saputo farla quasi e solo così: immaginando una felicità che doveva accadere, dando già per scontato che accadesse”

Io, la vita, ho saputo farla quasi solo così: immaginando una felicità che doveva accadere, dando già per scontato che accadesse Claudia Durastanti

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