UNIVERSITÀ E SCUOLA

Le università alla prova dell’internazionalizzazione

Guardare al futuro delle università in un mondo in trasformazione: questo il tema della conferenza  internazionale Competing trends in international education: fostering responsible approaches, organizzata dalla prorettrice Cristina Basso assieme all’Area Relazioni internazionali dell’Università di Padova. Un confronto sul futuro dell’internazionalizzazione dell’educazione superiore attraverso l’analisi di diversi approcci globali e regionali, con i contributi di esperti e accademici provenienti da svariate aree del mondo.

Tra essi Eva Egron-Polak, per 15 anni al vertice dell’International Association of Universities (IAU) e figura di spicco del processo che ha portato gli istituti di alta formazione a divenire protagonisti del processo di internazionalizzazione su scala globale. “La conoscenza non ha confini: tutti abbiamo bisogno di collaborare, parlarci e imparare gli uni dagli altri, a prescindere da dove viviamo e lavoriamo – spiega la docente, intervistata da Il Bo Live –. Certo non sempre è facile collaborare in un contesto come quello della formazione e della ricerca, dove c’è sempre competizione per le risorse oltre che per avere gli studenti e i professori migliori, ma le università possono e devono farlo. La base dell’internazionalizzazione è la cooperazione e non la competizione, anche se si tratta comunque di un dilemma di difficile soluzione”.

Com’è possibile però collaborare in un mondo sempre più diviso in blocchi?

“Immagini se le università smettessero davvero di farlo. Pensi in che razza di mondo vivremmo se docenti e ricercatori non lavorassero più insieme al di là dei confini che li dividono, se gli studenti non avessero più l’opportunità di conoscere coetanei provenienti da altri Paesi. Per questo è fondamentale che le università continuino a cooperare, e aggiungo che questo vale per le istituzioni di tutti i Paesi: non credo che i boicottaggi accademici e l’esclusione di università appartenenti a Paesi in guerra rappresentino qualcosa di positivo. Penso quindi che la collaborazione vada portata avanti nella misura più ampia possibile: l’alternativa è avere ancora più muri e divisioni”.

Nel corso del suo intervento ha anche affrontato il tema della libertà accademica e di parola.

“È importante continuare a lavorare anche con istituzioni situate in Paesi nei quali la libertà accademica sia soggetta a limitazioni, perché spesso questo rappresenta la sola finestra aperta verso l’esterno per tanti studiosi e ricercatori, l’opportunità di poter essere sinceri con i colleghi, di conoscere il valore del confronto e di sentire opinioni diverse. Penso sia necessario tenere aperte queste vie di comunicazione, proponendo allo stesso tempo un modello libero e aperto di società”.

La base dell’internazionalizzazione è la cooperazione e non la competizione

Per quanto invece riguarda le democrazie? Anche in queste la libertà accademica può essere a rischio?

“Sì. Ho trovato ad esempio interessante un articolo, pubblicato dal Center for Studies in Higher Education dell’Università di Berkeley, nel quale ci si chiede come sia divenuto possibile limitare la libertà accademica e promuovere il conformismo attraverso le politiche di assunzione e di carriera. Lo studio cita il fatto che in questo ambito sia sempre più presente la filosofia della diversity come valore: ciò però vuol dire che, per lavorare in un’istituzione, un aspirante professore deve conformarsi a una particolare visione della diversità, il che implica a sua volta che si può essere assunti sulla base delle proprie posizioni politiche piuttosto che delle competenze accademiche. Questo può limitare la libertà accademica”.

Altro tema fondamentale è la decrescita demografica: stime recenti dicono che in Europa nel 2040 i potenziali studenti universitari saranno l’11% in meno, addirittura il 20% in meno in Italia.

“Penso che la prima cosa da chiedersi sia perché andare in cerca di studenti a 6-7.000 miglia di distanza, quando abbiamo già migranti e rifugiati che vivono o vengono nei nostri Paesi e che avrebbero bisogno di essere aiutati ad elevare il loro livello di istruzione, anche per divenire cittadini attivi delle nostre comunità. A volte sembra invece che il nostro unico desiderio sia di rimandarli indietro. Non è ironico cercare all’estero lavoratori qualificati invece di investire nella formazione di chi è già qui?”.

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