Università e scuola

11 Settembre 2015

College inglesi, non nascono più popstar

A metà degli anni Novanta, quando il britpop era al suo apice storico, Blur e Oasis polarizzavano il gusto musicale dei giovani europei. La rivalità era assoluta e forse anche astutamente coltivata dalle band stesse. Sonorità simili ma differenti, Londra e Manchester e, soprattutto, giovani universitari contro working class heroes.

Se gli Oasis hanno simboleggiato il riscatto sociale di una rock band inglese di estrazione operaia, sono tanti i gruppi musicali britannici formatisi ai tempi del college e poi arrivati a vendere milioni di dischi. I Blur nascono ufficialmente a Colchester, nell’Essex, ma è al Goldsmiths College di Londra che Damon Albarn e Graham Coxon incontrano Alex James e cominciano la loro scalata al successo. I Pink Floyd si formano invece a metà degli anni Sessanta tra le aule di architettura di Regent Street dell’allora Politecnico di Londra (oggi University of Westminster). Brian May e Freddie Mercury fondarono i Queen mentre erano studenti universitari a Londra – il primo all’Imperial College, il secondo al più modesto Ealing Art College che sorge all’estrema periferia dell’area metropolitana della Greater London. I Coldplay nascono nel settembre del 1996 tra i banchi della University College of London (UCL), precisamente durante la settimana dedicata all’orientamento delle matricole, quando Chris Martin e Jonny Buckland si conobbero divenendo subito amici inseparabili. Perfino i membri originari dei Chemical Brothers fondarono il gruppo quando studiavano alla University of Manchester.

E questo è quel che concerne band che hanno raggiunto la fama planetaria, perché gli esempi riguardanti anche gruppi apparentemente ‘minori’ sarebbero innumerevoli. Per anni gli atenei britannici hanno rappresentato il terreno ideale per la formazione di gruppi musicali, di successo e non solo. Il fervore intellettuale, l’emozione dei primi tempi trascorsi lontano da casa dei genitori, gli incontri, le feste; tutto contribuisce a creare quell’atmosfera unica che è anche all’origine dell’irripetibilità dell’esperienza universitaria “reale”, che non è solo fatta di lezioni ed esami. Gli anni universitari sono il periodo ideale per provare, per crearsi un network di relazioni, garantirsi un seguito di fans e per iniziare a pensare in grande.

Ma negli ultimi tempi il numero di band che dalle feste universitarie è arrivato alla notorietà è sembrato essere drasticamente calato. Fatta eccezione per nomi come London Grammar o Alt-J, che pure ancora non sono arrivati al grande pubblico, pare che la fucina di nuovi talenti musicali stia ormai altrove. È vero che è il mercato della musica a essere cambiato. Ai tempi della formazione dei Pink Floyd e anche dei Coldplay non esisteva il download, non c’erano i talent show e anche il cosiddetto apprendistato musicale era probabilmente più lungo e variegato. Si tratta forse di un calo d’interesse dei giovani verso la pratica musicale? Pare proprio di no, visto che una ricerca del Trinity College di Londra ha rilevato che nel 2014 il 76% dei ragazzi dai 5 ai 14 anni sa suonare almeno uno strumento musicale, dato in netto aumento rispetto al 41% rilevato nel 1999. Ancor più interessante il fatto che gli strumenti privilegiati siano la chitarra elettrica e la batteria, cioè la base musicale necessaria per ogni gruppo rock e pop.

È probabile quindi che il problema sia altrove e abbia ancora una volta a che fare con le rette universitarie e la possibilità di accesso o meno agli studi universitari. La risposta forse è semplice: Freddie Mercury poté studiare grafica e arte a Ealing per una cifra irrisoria, mentre ora dovrebbe pagare 9.000 sterline all’anno, senza contare il ben maggiore costo della vita. L’ulteriore innalzamento delle rette universitarie, voluto nel 2011 dal governo Cameron, sembrerebbe aver “sterilizzato” quel fertile terreno di coltura che permetteva la nascita di un così cospicuo numero di band universitarie di successo. È un po’ come se i costi sempre maggiori abbiano responsabilizzato gli studenti, spingendoli a concentrarsi sugli studi e a rinunciare alle loro passioni e ai loro sogni. Non è forse un caso, quindi, che l’ultimo grande gruppo a essere passato dai campus inglesi ai palcoscenici mondiali sia nato poco prima che il primo vero sistema di rette fosse introdotto. I Coldplay si iscrissero all’università pubblica quando questa costava ancora quasi nulla. Ora invece, l’idea di saltare delle lezioni o essere bocciati a qualche esame perché si è passato troppo tempo impegnati in sessioni di prova richiede un prezzo maggiore da pagare. La pratica richiede tempo e i gruppi sono ancora più penalizzati degli artisti singoli perché l’organizzazione e l’incontro di più ragazzi richiede lavoro e fatica.

Una scena musicale ridotta genera disaffezione per il genere e anche il consumo individuale di musica online sembra influire in negativo. Quando poi i componenti di una band arrivano alla laurea, questa può rappresentare la prematura fine dell’avventura musicale. Il mercato del lavoro costringe i neo-laureati a muoversi lontano gli uni dagli altri, qualcuno anche a trasferirsi all’estero. E allora il tempo necessario e vitale per scrivere, suonare e affiatarsi viene a mancare e le band, inevitabilmente, si sciolgono.

Tra i tanti strascichi polemici lasciati dalla riforma Cameron dell’università, questo è forse uno dei meno cruciali, ma è sintomatico della lenta trasformazione che sta avvenendo nell’esperienza (di vita) universitaria. Atenei più efficienti e con i conti a posto, studenti che marciano a tappe forzate verso il traguardo della laurea, ma anche un graduale annullamento della coltivazione dei talenti e delle esplorazioni artistiche ed extra-accademiche degli studenti. Un più o meno voluto esempio di spencerismo sociale applicato all’università pubblica inglese.

Marco Morini