SOCIETÀ

Crescita zero, un problema che viene da lontano

 Le polemiche estive raramente sono utili, quelle degli ultimi giorni sull’andamento negativo del Prodotto interno lordo sono però state particolarmente vacue. Il fatto che l’Italia abbia sperimentato due trimestri consecutivi di calo del Pil non dovrebbe stupire (al di là dei possibili errori di misurazione) perché ormai da 20 anni l’economia del nostro Paese non cresce, e quando lo fa ottiene performance molto modeste.

I problemi italiani non sono gli 80 euro per una parte dei lavoratori dipendenti, che non hanno rilanciato i consumi (cosa ovvia, vista l’incertezza del futuro e il moltiplicarsi delle tasse locali). Il problema non è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e nemmeno le “riforme”, parola magica che in genere significa maggiore precarietà, compressione dei salari, peggioramento dei trattamenti pensionistici. L’economia è un sistema complesso, in cui sono coinvolti molti fattori, nessuno dei quali è suscettibile di essere cambiato per decreto dal governo. La colpa non è della Banca centrale europea, della Commissione di Bruxelles o della Germania (anche se le politiche di austerità sono catastroficamente sbagliate): l’Italia non cresce per ragioni strutturali, profonde.

Prima di tutto, siamo un Paese “vecchio”, con pochi bambini e molti anziani. Nel 2013 si è toccato il minimo storico delle nascite con 514.000 neonati (erano stati 534.186 nel 2012). Si vive più a lungo ma, come ha mostrato un recente rapporto dell’Istat, abbiamo livelli molto bassi di fecondità: in media 1,39 figli per donna nel 2013. Ciò significa avere 151,4 persone di più di 65 anni ogni 100 giovani con meno di 15 anni. 

Per l’economia, questo è importante: gli anziani consumano meno dei giovani, in particolare dei giovani con figli. Non è solo che i vecchi si accontentano di un caffelatte la sera: sono le nuove famiglie che trainano i consumi durevoli come l’auto, la casa, i mobili, gli elettrodomestici. Oltre, naturalmente, ai pannolini, ai giocattoli e a tutto ciò che serve per crescere i bambini. I giovani vanno più in vacanza, escono di più a cena, forse non hanno maggiori consumi culturali dei loro genitori e nonni (la regressione culturale dell’Italia negli ultimi 30 anni è passata di lì) ma in tutte le altre aree della vita sociale sono consumatori più dinamici. Non è un caso che molti economisti rimproverino alla Germania la sua anemica domanda interna, che deprime il resto dell’economia europea: anche quello di Angela Merkel è un paese dove dominano gli anziani: 158 persone ogni 100 giovani con meno di 15 anni.

Le dinamiche demografiche non si correggono né in un mese né in un anno, ma occorre almeno esserne coscienti e attuare politiche che non peggiorino la situazione. L’Italia dovrebbe sostenere fortemente le giovani coppie con figli, da un lato con servizi come gli asili nido, dall’altro con un forte compenso alle famiglie che abbiano tre o più bambini: in Francia c’è voluta una generazione ma la tendenza al calo della fecondità è stata invertita. Non solo: sarebbe necessario (oltre che rispettoso dei diritti umani) invertire le politiche anti-immigrati, che vanno in direzione opposta rispetto all’esigenza di ringiovanire la popolazione. I migranti che sbarcano sulle nostre coste sono giovani, disposti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro, pronti a fare figli per assicurare loro un avvenire migliore di quello di guerre e miseria da cui fuggono: dovremmo accoglierli a braccia aperte.

All’invecchiamento non si rimedia nel breve periodo, ma occorre anche intervenire sulla produttività, almeno nella parte più dinamica dell’industria italiana. Negli ultimi anni si è sostanzialmente dimenticato che un Paese cresce soltanto se le sue aziende si trasformano, imparano dai concorrenti e dai leader del loro settore, creano nuovi prodotti e servizi, cercano e trovano nuovi mercati. L’industria italiana lo fa in misura modesta: molto prima che arrivasse la crisi, tra il 1996 e il 2001, la produttività oraria crebbe appena del 6,6% in cinque anni, contro il 9,2% della Francia, il 9,5% della Germania, il 13,6% (più del doppio!) degli Stati Uniti.

Anche in questo caso le ragioni non sono semplici e hanno a che fare con problemi di lungo periodo: l’Italia è un Paese che sciaguratamente investe pochissimo in Ricerca e Sviluppo: l’1,25% del Pil contro l’obiettivo europeo del 3% entro il 2020, una percentuale già raggiunta, e talvolta superata, da Finlandia, Danimarca, Svezia e Germania. Se la mancanza di finanziamenti pubblici è colpa dei governi, anche il settore privato spende poco, a causa delle dimensioni delle imprese italiane, troppo piccole, e della loro proprietà, troppo spesso familiare, poco incline al rischio e con un difficile accesso al credito. La dimensione media di un’impresa italiana è 4 occupati, quella di un’impresa inglese 11,1 e quella di un’impresa tedesca 13,3. Alcuni settori (moda, agroalimentare) se la cavano bene, gli altri vivacchiano. 

In un mondo globalizzato è illusorio pensare che le soluzioni si possano trovare a livello della singola azienda: come hanno mostrato Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald nel loro libro Creating a Learning Society, è l’ambiente in cui le industrie si muovono che è determinante per il loro successo. Silicon Valley negli Stati Uniti o i distretti della ceramica, della calzature e del mobile in Italia sono casi di successo perché la cooperazione tra soggetti diversi permette la circolazione di idee, la sperimentazione di strade nuove, l’assunzione di rischi che il singolo non potrebbe permettersi. Come scrive Marco Magnani, “la riluttanza a cooperare per rafforzare le strategie innovative (…) è un grave problema perché vanifica gli sforzi, lascia incompiute molte buone idee: l’esperienza dimostra che raramente le invenzioni importanti derivano da attività individuali. Sono il risultato di accumulazioni successive, alle quali contribuisce un numero svariato di operatori. Solo la creazione di una ‘rete’ sparge innovazione”. La rinascita di città ex industriali come Torino o Pittsburgh mostra quanto sia importante la cooperazione fra attori diversi (istituzioni, università, imprese) per “reinventare” un territorio.

Se questo è vero, la soluzione va cercata non nella maggiore “flessibilità” del lavoro, o nella compressione ulteriore dei salari, ma nel creare ecosistemi in cui la ricerca possa essere sburocratizzata, finanziata adeguatamente, trasmessa facilmente alle aziende e trasformata in prodotti adeguatamente valorizzati. Purtroppo sono percorsi complessi, che coinvolgono un gran numero di attori, alcuni dei quali in Italia semplicemente non esistono, come gli investitori di venture capital. Occorrono pazienza, fantasia, cooperazione: tutto il contrario, insomma, di quello che il governo Renzi ha messo nel Jobs Act.

Fabrizio Tonello

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