UNIVERSITÀ E SCUOLA

Diritto allo studio: dopo 10 anni al punto di partenza

Cosa è cambiato dal 2001 al 2011 nel sistema italiano del diritto allo studio? Molto poco, quasi nulla è la  risposta che si desume da un articolo di Federica Laudisa sulla rivista Civitas, pubblicato sul sito ROARS. In particolare gran parte dei progressi compiuti fino al 2009 sembrano essere stati annullati negli ultimi anni. Per quanto riguarda le borse di studio si continua per esempio ad assistere alla forbice tra gli aventi diritto, attestati nel 2010 intorno al 16% degli iscritti regolari, e gli effettivi beneficiari, fermi intorno a una percentuale al 12%. In media un quarto degli idonei – quasi il 45% al Sud – continuano quindi a essere esclusi concretamente dalle borse per via della cronica mancanza di fondi: una particolarità italiana questa, e nonostante le borse di studio siano citate addirittura nella Costituzione: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi – recita infatti l’articolo 34 – hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Nello stesso periodo considerato, i beneficiari delle collaborazioni part-time, conosciute anche come “150 ore”, sono diminuiti di un terzo, passando dal 3,2% degli iscritti in regola del 2001/02 al 2,2% del 2010/11. Solo la politica abitativa ha conosciuto un discreto sviluppo, passando da 30.269 a 43.066 posti letto, con una copertura nominale del 50,6% degli idonei fuori sede. In particolare un gruppetto di regioni virtuose – a cui appartiene il Veneto assieme a Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Lombardia e Marche – arriva a coprire il 100% degli aventi diritto. Merito probabilmente della legge 338/2000, che prevede che lo Stato co-finanzi la costruzione o ristrutturazione di residenze universitarie. Restiamo tuttavia lontani da Francia (161.500 posti letto) e  Germania (180.000), che arrivano a coprire rispettivamente l’11% e 13% degli studenti, contro il 3,8% dell’Italia.

In una visione d’insieme non vanno trascurate le mense universitarie, anche se normalmente sono aperte a tutti gli studenti, seppure spesso a tariffe differenziate in base all’Isee. Il numero di pasti erogati in totale in Italia negli ultimi dieci anni è stabile tra i 20 e i 22 milioni, corrispondenti a un consumo annuo di 19 pasti per studente, con punte di 57 in Trentino Alto Adige e 55 in Toscana (in Veneto siamo a 26). Anche nel numero di ristoranti universitari Francia e Germania, a parità quasi di popolazione universitaria (circa 2 milioni di studenti), ci staccano: rispettivamente 620 e 700 punti di ristorazione contro i nostri 210.

Perché il diritto allo studio universitario in un decennio non ha sostanzialmente mosso passi in avanti? Una delle ragioni è la scarsità delle risorse finanziarie, sia per l’ammontare insufficiente sia per l’inefficacia del sistema di finanziamento cui partecipano tre soggetti: le Regioni, con risorse proprie, lo Stato, attraverso il Fondo statale integrativo, e soprattutto gli stessi studenti, tramite la tassa regionale per il diritto allo studio. Un quadro in cui nessuno è in qualche modo vincolato a garantire la copertura dell’interno fabbisogno. Quando infatti nel 2009/10 il Fondo statale fu potenziato, con l’obbiettivo dichiarato di arrivare a coprire il 100% degli idonei, alcune Regioni risposero con una corrispettiva diminuzione di risorse proprie. Eppure in Italia nel 2010/11 sarebbero serviti appena 580 milioni di euro (di cui 431 effettivamente stanziati): un nulla rispetto a quando si spende per pensioni e sanità, e comunque poco anche rispetto a 1,6 miliardi messi a disposizione dalla Francia e ai 2 dalla Germania.

Oltre alla mancanza cronica di fondi c’è però anche un ritardo normativo, su cui ha in parte inciso la riforma costituzionale nel 2001, che ha congelato il sistema in attesa della definizione dei previsti “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep) concernenti i diritti civili e sociali da garantirsi su tutto il territorio nazionale. Una lacuna che è stata colmata solo nel marzo 2012 con il decreto legislativo 68/2012. Nel nuovo testo per la prima volta le spese da considerare nella determinazione delle borse vengono monitorate e specificate – vitto, alloggio, trasporti, materiale didattico e accesso alla cultura, ma non la spesa sostenuta dagli studenti per un eventuale periodo di studio all’estero. 

Per quanto invece riguarda le fonti di finanziamento niente cambia: i cespiti a disposizione dei Lep, ovvero delle borse di studio, rimangono sempre il Fondo statale integrativo, la tassa regionale e le risorse proprie delle Regioni. Nella nuova normativa viene sì precisato che le risorse regionali dovranno essere pari ad almeno il 40% dell’assegnazione relativa al Fondo statale, ma quest’ultimo rimane indefinito, stabilito di volta in volta dalle leggi di stabilità finanziaria a prescindere dall’effettivo fabbisogno finanziario. Per il resto l’unica cosa certa rimane l’aumento della tassa per il diritto allo studio a carico degli studenti, che dovrà essere articolato dalle Regioni in tre fasce di 120, 140 o 160 euro in base al valore dell’Isee, oppure elevato a 140 euro per tutti.

Daniele Mont D’Arpizio 

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